LA PIGRA MACCHINA DEL NOIR. Considerazioni sul genere dopo la sua morte annunciata – 3/3
di Girolamo De Michele
Montalbano mentalmente lo dedicò a tutti quelli che si sdignavano di legiri romanzi gialli pirchì, secondo loro, si trattava sulo di un passatempo enigmistico (La vampa d’agosto, p. 117)
Davanti a un libro come La vampa d’agosto bisognerebbe solo dire, rammemorando altri libri e altri lettori: «un lampo si è prodotto nel romanzo contemporaneo: il noir è di nuovo possibile!». E ri-leggere gli altri Montalbano, facendo retroagire il feed-back della Vampa sull’apparente conciliazione stilistica, sul preteso barocchismo linguistico, sulla ripetitività lungamente attesa al varco. Questo ultimo Montalbano spariglia le carte, rimette a posto due o tre punti che erano gradualmente sfuggiti alla vista, e fa giustizia di molti aspiranti eredi: il maestro del poliziesco italiano è ancora lui, il creatore e l’assassino del tenente Sheridan, l’uomo con l’impermeabile. Avevamo dimenticato tutti, evidentemente, che il momento più noir del poliziesco italiano — quella barella che entra in ambulanza con uno Sheridan ferito a morte — era stato partorito dalla mente di questo vecchio scrittore?
Ora, su La vampa di agosto non è il caso di dilungarsi troppo a lungo: c’è la recensione di Tommaso De Lorenzis, alla quale senz’altro rimando, su questa stessa rivista (e che ho letto prima di scrivere queste righe). Quello che qui vorrei fare, a conclusione di un faticoso percorso sul genere, è spiegare alcuni aspetti di Camilleri alla luce del noir.
Da Vigàta a Macallé: le due strade del camilleriano
Strano destino, quello della lingua scritta di Camilleri: i suoi estimatori l’accettano senza riserve, e la metabolizzano senza a né ba; i suoi detrattori la snobbano come barocchismo, stilismo artificioso, pseudo-gaddismo. Il problema è: com’è possibile che la lingua di Vigàta sia la stessa della Sicilia degli anni Trenta, che Montalbano parli lo stesso idioma di Michilino, l’angelo minchiuto della Presa di Macallé? «La presa di Macallé piegava la lingua camilleriana a esigenze introspettive, psicanalitiche, profonde e carnali, e rendeva alla perfezione una delle preoccupazioni del libro» , ha annotato giustamente un lettore acuto (Wu Ming 5): un giudizio che non si attaglia alla lingua dei gialli vigatesi. Eppure… eppure la lingua è, se ci si guarda bene, la stessa: voglio dire, sul fondo oscuro di un idioma che non è né siciliano né italiano — il camilleriano, allora — Camilleri innesta due diverse operazioni. Che lingua è il camilleriano? Non è una miscela di italiano e dialetto, o un italiano dialettizzato: non c’è quell’afrodisiaco dialettale che fu a suo tempo criticato nella letteratura neo-realistica, né l’infinita derogazione della lingua all’interno di sognate architetture che opera nel Pasticciaccio (che è il modello di Pennac). Camilleri del resto non usa la paratassi, come fanno gli autori di noir suoi contemporanei: nondimeno, ne ottiene lo stesso effetto. Il camilleriano è un italiano svuotato con una certa generosità (più della lingua del Pirandello delle Novelle, per capirci) di termini e strutture; questo vuoto viene riempito con termini e frame sintattico-grammaticali siciliani, creando uno strano effetto: al posto dei vuoti ci sono dei pieni non immediatamente decodificabili, che però il lettore può agilmente saltare senza ricorrere al dizionario grazie al senso che viene comunque formandosi nel complesso del periodo. Del resto è il periodo nella sua interezza, e non il nome o la concatenazione nome-verbo, a far germinare la significazione. Ora, tra le strutture mancanti c’è il periodo ipotetico, del quale il dialetto siciliano è privo. Camilleri è quindi costretto a un certo equilibrismo per far operare, all’interno di una struttura linguistica che esiste per dire che le cose sono come appaiono, cioè come sempre sono state e sempre saranno, una logica induttiva, che presuppone comunque l’esistenza di un’ipotesi — un mondo possibile alternativo alla mera grammatica delle cose percepite — e la necessità di una sua verifica — la progressiva sostanzializzazione di quel mondo possibile che diventa reale. In questo conflitto oscuro tra ciò che non vuole essere diverso da com’è e ciò che dovrebbe (potrebbe? o forse vorremmo?) diverso si sviluppa la lingua camilleriana. Forzando il camilleriano sul lato del dialetto, la lingua stessa dice quella dura necessità che porta le vicende di Michilino a finire come immancabilmente dovevano finire: la lingua diventa totalitaria e totalizzante, e rifiuta la rottura della regione unica che inutilmente il corpo e i sensi cercano di operare. Spingendo sul lato dell’italiano, il camilleriano riesce a dire la possibilità di un mondo diverso: un mondo nel quale Montalbano è finora riuscito a riportare quel minimo di giustizia che gli è consentito, nella consapevolezza — per ri-citare Manchette sull’eroe-noir, che «può raddrizzare qualche torto, ma non raddrizzerà mai l’iniquità complessiva di questo mondo, e lo sa; di qui la sua amarezza». Montalbano è, sin dall’origine, un personaggio del noir: le sue manìe, le sue particolarità sono coerenti con la presa di distanza dalla tipizzazione che Camilleri cerca di immettere nella sua creatura, pur rimanendo sempre sull’orlo della tipicità (in questo il suo modello è il Maigret di Simenon).
La lordura dell’universo creato
Bruno, il picciliddro della Vampa, è «un maestro nell’arte di scassare i cabasisi all’universo creato». Un perfetto essere umano: la funzione degli esseri umani è infatti, all’interno della visione di Camilleri, quella di scassare i cabasisi all’universo creato. Cioè di lordare la bellezza della natura. Fosse riposta, in qualche angolo dell’epopea di Montalbano, un barlume di provvidenza, potremmo parlare di concezione creaturale della natura. Ma dio non c’è, probabilmente non c’è mai stato, né a Vigàta né altrove: anche qui siano sull’orlo del noir, ossia del tragico. Il mondo è, nei romanzi di Camilleri, non uno sfondo sul quale si muovono le figure, ma natura viva, dinamica, dalla quale scaturiscono i personaggi e che dai personaggi è percepita, rappresentata, vista, odorata, assaporata. Sin troppo celebri e abusati i luoghi gastronomici per tornarci sopra: ma almeno va sottolineato che, nell’approccio col cibo — che è natura organica — i sensi anticipano il giudizio, le percezioni sono gettate in avanti a cogliere ciò che altrimenti resterebbe informe. Così la natura in sé: paesaggi, mari, cieli, terre sono luoghi di apparente serenità, nei quali Montalbano spesso si tuffa, si getta, cerca un contatto diretto, al limite (o forse oltre) della fusione col tutto. Sotto un albero secolare o nelle abituali nuotate, o, come in questa Vampa, rotolantesi in un pagliaio: un atto che è un esplicito sostituto dell’amplesso, e al tempo stesso una dichiarata ricerca di oblìo. Nella natura risuona quella disperata ricerca di pace e serenità, quel poco di armonia — cioè di giustizia — che Montalbano cerca di immettere in un mondo ordinato secondo la logica del male. La natura, con la sua bellezza, è in qualche modo il modello a cui si ispira un poliziotto che non riesce più a trovare nelle gesta degli uomini giustizia. Così possiamo tracciare un confronto tra la bellezza di un creato privo di creatore — che è forse proprio per questo pieno di grazia e bellezza — e l’opera degli uomini e delle donne, che continuamente sporca con l’ingiustizia questo mondo. In questo iato tra un modello irrealizzabile nella sua interezza e la quotidiana violazione del modello ideale si colloca la macchina pigra di Camilleri, ossia la possibilità del noir.
Se un dio ci fosse, questa natura sarebbe rifugio, consolazione, conciliazione. Speranza che nega l’oggi per attendere il domani. Ma così non è. La stessa natura che si manifesta come bellezza può esprimersi come mostro, come regno dell’informe e dell’orrido, come brulicare di vita scaturente dagli inferi — topi, scarafaggi. La prima parte della Vampa ha questo ritmo da romanzo gotico: cieli tempestosi, forme di vita che scaturiscono dal basso per insediarsi nel mondo umano, sotterranei oscuri nei quali la morte attende da anni, corpi decomposti. Lo stesso desiderio sessuale svela, al di sotto delle ormai stanche smancerie tra Salvo e Livia, una matrice oscura, quasi sadiana. Il manifestarsi del lato oscuro della natura anticipa, nella narrazione, il susseguente svelarsi dell’oscura matrice del male che governa il mondo: l’uomo, la più lorda tra le creature dell’universo. Retrospettivamente, non è una novità questo scenario da gothic novel, da novella scapigliata: Camilleri ci aveva già messo di fronte a cadaveri decomposti che vengono incontro al nuotatore inconsapevole, o a cadaveri emersi dopo anni dalle profondità della terra. A ben pensarci, questa Vampa d’agosto è la versione gotica e noir del Cane di terracotta, e il confronto tra i due romanzi ci svela qualcosa che era passato sinora inosservato. Il cuore dell’indagine è identica: lì i cadaveri di due giovani emersi da una caverna dopo decenni, qui una giovane ritrovata in un sotterraneo nascosto. In entrambi i casi tutto ruota attorno al binomio sesso/morte. Ma nel Cane di terracotta la trama virava dal noir al giallo, il gotico trovava una sua ricomposizione: l’amore come valore ideale, puro ed eterno, lo sposalizio inconsumabile celebrato dopo quarant’anni con un rito che in qualche modo allude a una possibile comunione nel sacro tra la cultura occidentale e quella arabo-egiziana (1). Insomma, Camilleri ha spesso giocato col noir, salvo risolverlo poi nelle maglie del giallo: un po’ come Kasdan lavora sui modelli del western crepuscolare in Silverado, risolvendo però situazioni rese classiche da Leone alla maniera “politicamente corretta” di Ford (il duello secondo le regole, i bambini che non vengono uccisi, ecc.).
Con la Vampa la possibilità del noir diventa realtà: non c’è riconciliazione in un mondo senza giustizia.
Metafisica del noir, ovvero: la giustizia messa in questione
Un arabo è stato ucciso. Un edile immigrato, caduto dall’impalcatura del cantiere. Mentre agonizzava il padrone e i suoi scagnozzi «avivano approfittato della situazione e gli avivano fatto a forza viviri vino a tinchitè. Po’ l’avivano lassato sulo a moriri». Morto per caduta causata da stato di ebbrezza, recita il referto: «ma quanti ce n’erano di cosiddetti ‘nfortuni sul lavoro che ‘nfortuni non erano, ma veri e propri omicidi da parte del datore di lavoro?». Già: quanti? Roberto Saviano, in Gomorra, ci racconta di come i morti sul lavoro siano camuffati da incidenti stradali, o accatastati nei container: nell’atrocità di una denuncia civile i due libri si tengono per mano. E colpiscono nel segno: basta sfogliare le pagine del Domenicale ad ambedue dedicate per capire che colpiscono. E fanno male. Quello che pensa Montalbano potrebbe essere un estratto di Gomorra: «se le cose stavano come se le stava immaginanno, a essiri sconfitto non era cchiù sulo lui, la giustizia stissa, anzi meglio, l’idea stissa di giustizia». Dalla riflessione sulla possibilità della giustizia, Camilleri è gradualmente passato, a partire da Il giro di boa, a una riflessione sull’idea stessa di giustizia. Detto per inciso, ma non per caso: Il giro di boa è, al di fuori della letteratura di genere (2) il solo romanzo che abbia parlato di Genova in un contesto nel quale dalle televisioni pubbliche e private la stessa città di Genova è stata bandita dalle location delle fiction, dalle biografie dei personaggi, da qualsivoglia trasmissione televisiva (3). O meglio: legittima e nobilita la funzione supplente di denuncia della letteratura di genere, in attesa dell’arrivo di altri, migliori e valenti intellettuali al momento in tutt’altre faccende affaccendati.
Ma con l’idea di giustizia si scivola sul piano inclinato della metafisica. E si è costretti a confrontarsi con l’unico autore che, nel punto archimedeo dell’arco teso tra giallo e noir, sia stato in grado di violare il superamento del discorso metafisico nel poliziesco annotato da Deleuze: stiamo parlando, ovviamente, di Dürrenmatt, che da Il giudice e il suo boia a Il sospetto, sino a Giustizia, ha portato il poliziesco all’altezza di Nietzsche, facendo coincidere l’idea assoluta di giustizia con la vendetta. Cioè con la negazione della giustizia pratica, che nasce con tribunale istituito da Eschilo nell’Orestiade per interrompere il ciclo morte-vendetta.
Perché allora Camilleri deve lasciare al noir la parola finale sulla giustizia? Perché l’idea di giustizia non può non fare i conti con la sua negazione, cioè con l’idea di ingiustizia. L’ingiustizia che non si personifica, come ci si aspetterebbe da un romanzo d’ambientazione sicula, nel personaggio del mafioso (che in Camilleri spesso manca), ma nel più ordinario Michele Spitaleri.
Una breve, ultima digressione: perché in Camilleri il male non si incarna nel Mafioso? Qui è di nuovo in gioco la sotterranea struttura noir che Camilleri ha intessuto sotto la traccia dei suoi polizieschi ad enigma. In Sciascia, osservava Segre, «la forma scelta, quella del romanzo poliziesco, serve spesso, per antifrasi, non già a tracciare collegamenti logicamente rigorosi, ma al contrario a far intravvedere una rete di complicità e omertà che si estende all’infinito. Insomma, Sciascia usa la logica per mostrarne la sconfitta». Lo stesso in Camilleri, e con uguale profondità. Identificare il male nelle sue manifestazioni, e ricondurre queste a un unico centro irradiantesi, è facile, consolante e soprattutto auto-assolutorio. Che si tratti del Maligno o della Mafia, l’origine del male non ci tocca. Camilleri va più a fondo: al fondo del male c’è la capacità e la volontà di fare il male, cioè la lordura che l’uomo immette con suo agire nel mondo. Ecco perché il male dev’essere rappresentato in Michele Spitaleri, ricettacolo di ogni aberrazione: costruttore abusivo, corruttore e corrotto, sfruttatore del lavoro altrui, probabile colluso con la tratta dei migranti, pedofilo e stupratore, frequentatore degli esotici paradisi sessuali del terzo mondo — eppure così banale, così comune. Un vicino di casa. Uno di noi.
A fronte di un simile essere la violazione stessa della giustizia diventa giustizia: l’idea di giustizia — che ogni cosa sia rimessa al suo luogo naturale, in una naturale armonia — non può che coincidere con la vendetta. Ed ecco perché La vampa d’agosto è una riscrittura de La sposa in nero. Con una differenza: il volto inquietante e funereo di Jeanne Moreau cede il posto al viso angelico, all’odore fresco e pulito, alla bellezza di Adriana, risorta dalla tomba per aprire le porte dell’inferno, del marcio, dell’informe all’assassino del suo doppio.
Che Montalbano sia stato usato come stecca per una geometrica partita a biliardo fa parte delle regole del gioco: «con il finto ti voglio bene, con la finta passione, col finto scanto, l’aviva portato passo appresso passo fino a indove voliva arrivare. Era stato un pupo nelle sò mano. Tutto un tiatro, tutta una finzione (4)». È il noir: la rappresentazione dell’intera società nella più alta potenza del falso (Deleuze). Che l’eroe sia inconsapevole di quello che gli accade fa parte delle regole del gioco. È il noir: il colore dell’universo creato dal passaggio dell’uomo.
P.S.: buon compleanno, Maestro
(1) La trama del Cane di terracotta è ispirata a un lavoro teatrale egiziano, sul quale Camilleri aveva lavorato assieme a un suo allievo egiziano al Centro di Drammaturgia Sperimentale.
(2) American Nightmare di Sbancor, Visto dal cielo di Vallorani, I segni sulla pelle di Tassinari, Casseur di Brignano, Il maestro di nodi di Carlotto, Scirocco di De Michele.
(3) Persino il nome di Giotto, ha denunciato in una presentazione Marcello Fois, è diventato sospetto per la sua assonanza con “Gi-otto”.
(4) Sul poliziotto-pupo, si tenga a mente quello che urla Montalbano a Mimì Augello sul comportamento della polizia a Genova: «Siamo stati manovrati, come pupi nell’opira dei pupi, da persone che volevano fare una specie di test […] su come avrebbe reagito la gente ad un’azione di forza, quanti consensi, quanti dissensi» (Il giro di boa, pp. 16-17).