Nonostante risalga al 1998, questa intervista a Kunstler, docente a Cambridge e propugnatore di un ritorno al nesso umanesimo-scienza (di cui è fondamentale si torni a praticare l’impatto), apre una serie di prospettive che, pur discusse in questi otto anni, continuano a essere fortemente attuali e aperte, mostrando come la svolta cognitiva ed emotiva che sta vivendo l’occidente industrializzato sia molto più lenta dei processi a cui pensiamo. Kunstler, rispetto ai molti teorici del post-human, ha un vantaggio: include ogni paradigma (compreso quello psicologico oltre che quelli fisici) nelle trasformazioni del “sé” – nozione su cui l’occidente industrializzato mostra, e davastantemente, il fianco, e che invece è al centro dell’altra rivoluzione fondamentale dei nostri tempi, cioè quella dell’emergentismo neuroscientifico.
Per questi motivi, riproponiamo l’intervista, rilasciata ai tempi a Mediamente. [gg]
Cos’è la “futurologia del sé”? E come si colloca fra l’individualismo sempre più dominante, la tendenza verso le comunità virtuali e il fenomeno della globalizzazione?
Lo studio del futuro del sé si interessa a come definiamo il soggetto, o le nozioni attraverso le quali lo immaginiamo, chi siamo, come ci comportiamo, le qualità che ci attribuiamo, e dunque la prospettiva dell’essere uomo, parte di una comunità, o come definiamo la nostra personalità individuale. Quel sé, sull’esistenza del quale non esiste neppure un accordo, ha in effetti un ruolo di agente causale molto importante nel modo in cui le istituzioni e la tecnologia si sviluppano e nelle modalità in cui la società prende forma. Le nostre aspettative e nozioni su chi siamo determinano l’intera sfera dell’umano, dall’istruzione al controllo del crimine, dal modo in cui si gestisce la politica all’uso che facciamo della tecnologia. Dato il ruolo decisivo dell’identità individuale nell’incarnare i valori sociali, è logico che ci sia l’urgenza di chiedersi se essa stia cambiando e in che direzione; se stia cambiando sotto l’influenza delle tecnologie, e quali saranno le conseguenze di questi cambiamenti. Penso che ci sia la necessità, al fine di sviluppare una futurologia del sé, di creare un lessico e una metodologia per gestire una nozione così astratta. Nella sua astrattezza la definizione del sé ha degli impatti di grande concretezza sulle istituzioni, sulle scelte tecnologiche. Ma dobbiamo definire, oltre che un lessico e delle metodologie, anche delle aree nelle quali mettere in gioco questo nesso causale.
Il concetto di sé cambia nel tempo. Volendo analizzare l’estrema visione di questo cambiamento, come è rappresentato in numerosi film, in una società totalmente tecnologica l’immagine del soggetto è di stampo robotico, coerentemente all’ambiente che lo ospita. Ma anche senza andare così lontano, le nostre nozioni sullo statuto dell’essere uomo sono cambiate nel corso dei secoli e continuano a cambiare, in particolare con le grandi trasformazioni attuali nelle nostre società e nelle nostre tecnologie. Una futurologia del sé si interroga su come questi cambiamenti orientano la direzione verso la quale ci muoviamo, quanto la direzione stessa influenzi il modo in cui ci pensiamo come esseri umani, e se ci siano rapporti di influenza reciproca.
Riguardo al rapporto fra futurologia del sé, individualismo e orientamento verso le comunità virtuali, credo che la futurologia del sé si interessi proprio di tali questioni. Una futurologia del sé cerca di produrre scenari e prospettive che aiutino a comprendere il significato del fatto che la gente si crei identità alternative in Internet, che un uomo d’affari di mezza età si travesta da donna e abbia conversazioni a sfondo sessuale con altre persone sparse nel mondo. Si chiede se siano importanti le connessioni stabilite su Internet, oppure il fatto che quell’individuo operi determinate scelte.
Nel suo lavoro lei fa riferimento a “identità codificate” e al “sé sottile”. Qual è il ruolo di queste nozioni nella futurologia del sé?
La nozione di identità in codice è uno scenario che mi piace utilizzare sia perché lo ritengo interessante sia perché illustra una delle possibilità di sviluppo per la futurologia del sé. Si tratta di una nozione abbastanza astratta che cercherò qui di sintetizzare dicendo che è basata sull’idea che le tecnologie, di pari passo al loro imporsi in una data società, diventano il modello attraverso il quale pensiamo l’identità e i processi sociali. Ad esempio, il computer è spesso utilizzato come modello per rappresentare la mente. La tecnologia ha dunque il potere di influenzare, determinare e dar forma alla realtà, perché la tecnologia è una estensione di chi siamo, dei nostri sensi, delle nostre mani. Questi elementi tecnologici esprimono pertanto la nostra identità, e li usiamo come metafore, come punti di riferimento naturali, nel modo stesso in cui noi siamo delle estensioni della nostra tecnologia. Ci danno forma, determinano il ritmo delle nostre esistenze, pensiamo secondo le linee che essi ci indicano. Pertanto, all’interno dello scenario di identità codificate prendo in esame due principali tecnologie. La prima è la biogenetica, che è centrale perché il codice genetico determina in larga misura ciò che siamo come esseri umani e come individui. La seconda è emblematizzata dalla smart card, una tesserina a codice elettronico, registrato su nastro magnetico, che ci consente una serie di operazioni. La utilizziamo per telefonare, per prelevare al bancomat, quando attraversiamo un casello stradale in grado di dirci qual è stato il nostro itinerario e qual è il suo costo, addebitandocelo. Le smart card diventano sempre più complesse, con la capacità non solo di gestire una grande quantità d’informazione relativa a molteplici funzioni, come l’informazione medica e bancaria, ma presto anche di immagazzinarne di nuova. Andando dal medico, ad esempio, sarà possibile accedere alla nostra storia clinica, ma anche aggiornarla con gli esiti dell’ultima visita
Ora, l’ambiente in cui esiste la smart card è un ambiente elettronico, è un “ciberambiente”, l’ambiente del commercio elettronico, quello che ci consente di confrontarci con il mercato. Il mercato è analogamente una fonte di identità: al momento negli Stati Uniti tutti fanno parte di diversi database di marketing. Qualsiasi cosa si faccia viene registrata e venduta all’interno di una lista, e consente di creare un profilo di chi sei. Se acquisti molto cioccolato attraverso la carta di credito, il tuo nome finisce in mano ai produttori di cioccolato. Si è codificati attraverso il codice di avviamento postale, attraverso il proprio stile di vita e così via. Questa identità codificata è un bene commerciale, viene acquistato e venduto, e sempre più utilizzeremo le smart card e ci confronteremo con questo mondo. All’interno di entrambe le tecnologie, biotecnologie e panorama del mercato elettronico, la nostra identità esisterà sia metaforicamente sia nella realtà sia in quanto codice. Pertanto, credo che al diffondersi di queste tecnologie nella società, che avverrà per la loro utilità, l’identità verrà sempre più concettualizzata in un nuovo paradigma quale prodotto di un codice.
Un esempio ci viene dalla politica, dove ogni campagna elettorale negli Stati Uniti viene condotta con l’ausilio di addetti ai sondaggi che informano il candidato su cosa dire e attraverso quali strategie comunicative. La realtà viene così configurata dal potere del codice e delle identità codificate, e lo sarà sempre più. Come, ad esempio, con l’inserimento del DNA nelle nostre smart cards. Il DNA è un’informazione preziosa in quanto merce definitiva per le compagnie mediche, per le assicurazioni, per gli operatori di marketing, oppure per questioni di sicurezza. Man mano che la nostra identità viene pensata come prodotto di codice, che è per sua natura manipolabile, replicabile, privo di corporeità, merce, come interverrà questo processo sulla nozione che abbiamo di noi stessi, il nostro senso di integrità del sé, e dunque i nostri concetti di diritti umani e politici? Si tratta di questioni di grande impatto sulla realtà. Anche se si tratta solo di uno scenario che potrebbe essere contrastato da alcune controtendenze, sono convinto che rivestirà un ruolo decisivo nel modo in cui penseremo il soggetto nel futuro.
In quale misura questa prospettiva è diversa da quella che critica le persone ridotte a “semplici numeri” o a “ingranaggi”? E quale ruolo gioca la Information Technology in questa differenza?
Questa è una questione interessante. In Tempi moderni di Charlie Chaplin abbiamo una delle più grandi rappresentazioni degli esseri umani come ingranaggi di una macchina, un’immagine che ci giunge dal mondo industriale, meccanico, una forma di incubo nel quale si è omologati, numeri interni a un apparato burocratico. Nello scenario che ci si prospetta vi è però un elemento aggiuntivo perché fa riferimento a una diversa dimensione: Non è più il mondo meccanico bensì quello elettronico. Questo soggetto non è più il soggetto instupidito che viene progettato per lavorare alla catena di montaggio. Al contrario, conduce una vita molto eccitante, esiste alla velocità della luce. Non si sarà interessati a rendere tutti gli individui uguali, bensì a replicare il singolo individuo, figurativamente. Vi sono attualmente dei programmi di computer che, quando navighiamo in Internet, ci si “attaccano addosso” e ci seguono nella nostra navigazione, documentano le nostre scelte di percorso, e costruiscono un nostro profilo identitario basato sulla nostra esistenza nella ciber-realtà. Esiste un fenomeno chiamato “furto d’identità”, nel quale si sottrae l’identità elettronica di un individuo insieme a un pacchetto di informazioni che possono essere utilizzate per addebitargli voci di spesa sul suo conto bancario. La nuova soggettività che si profila non è semplicemente un ingranaggio, è qualcosa di molto strano, fluido, replicabile, manipolabile, privo di corporeità. Ma se in Tempi moderni è proprio il corpo di Chaplin che agisce da elemento rivoluzionario contro la fabbrica, come può questo soggetto privo di corpo ribellarsi alla macchina? Si assegna peraltro a questo soggetto un grande senso di potere, che ha un aspetto quasi mitico. Se si guarda alle pubblicità e alla retorica su Internet, ad esempio, si ha la sensazione di poter padroneggiare il vasto universo della Rete. Spesso il messaggio implicito è che se si possiede un sistema come quello pubblicizzato, con un patrimonio infinito d’informazione a portata di mano, si può essere signori del Web, con tutte le conseguenze ingannevoli che ciò ha nel proporre al soggetto quasi una nuova forma di divinità. Mi chiedo chi sia questo soggetto interno all’economia di mercato cui si inneggia come l’esito finale dello sviluppo sociale, chi è questo soggetto che si suppone avere accesso a, e potere su, tutta la vastità di opzioni del nuovo mondo elettronico? Questi sono i moderni miti su chi siamo e chi potremmo diventare; ma la questione è che non siamo in effetti divinità, ma solo esseri umani con grossi limiti di capacità. Vi è il pericolo che, con tutte queste possibilità di scelta, non si produca nulla di significativo se non una pletora di scelte individuali. In effetti, questo tipo di soggetto con molteplici scelte in Internet è proprio il prodotto che va cercando chi detiene il potere economico e politico. E dunque il soggetto diviene un oggetto nel momento in cui, con tutto il suo potere di controllo, diventa una merce venduta nell’universo del marketing elettronico. Le connessioni elettroniche sembrano dar a un antico desiderio dell’uomo, costituiscono uno strumento straordinario, ma al contempo si tratta di uno strumento con effetti inconsci sull’intera società nell’essere pervasivo, con ricadute sulle nostre nozioni di chi siamo, di come comunichiamo, quale sé presentiamo quando incontriamo un’altra persona. Gli interrogativi che apre il mondo virtuale sono quelli su come sia influenzabile la nostra percezione degli altri, e quali siano i limiti che siamo destinati ad assumere in riferimento alla nostra individualità, dato che non abbiamo più accesso a un panorama organico del soggetto.
Quali sono gli scenari di ambienti futuri per quelle che lei chiama identità codificate?
Penso che una buona parte degli scenari disponibili derivino senz’altro dagli sviluppi della biogenetica. Nel momento in cui la clonazione umana dovesse diventare realtà essa ci costringerà a ripensare chi siamo e cosa possiamo diventare nell’essere replicabili. In questo scenario si possono profilare agenti di commercio genetico che attraverso la smart card sono in grado di prevedere quale sia in prospettiva una buona unione riproduttiva; la gente potrà progettare i figli; e magari se il risultato non fosse soddisfacente il neonato potrebbe essere dato in adozione. Ma lo scenario che più mi interessa è quello delle smart cards. In che direzione va la smart card? Non ne sono sicuro, ma credo che in futuro le smart cards potranno essere inserite nel computer così come oggi si inserisce un disco, con un intero patrimonio di immagini della nostra esistenza; il che apre la possibilità che si crei un commercio di realtà virtuali. I datori di lavoro potrebbero voler visionare il contenuto della smart card dei dipendenti; e queste informazioni potranno essere analizzate a scopo assicurativo, o matrimoniale o ancora educativo. Con i dati delle smart cards, e con i profili che consentono di creare, si potrebbero formare le classi in base a criteri di interazione produttiva fra gli studenti che le compongono. Questi sono i possibili scenari; il pericolo è che nella storia della genetica abbiamo avuto spesso la tendenza ad abusarne. Si pensa sempre ai nazisti, ma costoro avevano derivato parte della propria ideologia in merito alla purezza razziale dalla eugenetica americana di inizio secolo. Benché l’eugenetica non avesse gli stessi obbiettivi dei nazisti, ovviamente, ci sono state negli Stati Uniti delle sterilizzazioni di persone che erano considerate inadatte ad avere figli. Qualche anno fa sul Boston Globe c’era un articolo che esprimeva la preoccupazione che gli esperimenti genetici creassero un paradigma di “persona perfetta”. Questo modello mette in gioco una serie di scelte su quali siano le “giuste” caratteristiche, che penalizzano ogni forma di diversità. La genetica, in quanto strumento straordinario, offre un patrimonio di informazioni che verranno utilizzate a scopo di profitto e di controllo sociale, il che giustifica una qualche preoccupazione.
Cosa pensa in merito alla possibilità di assumere un’identità in Rete diversa da quella reale?
Sono scettico sulle sue valenze liberatorie. Credo inoltre che ci sia molta retorica sulla possibilità di sperimentare nuove identità, ipotesi che contrasta con i limiti effettivi dell’identità in Rete. Chi assume un’altra identità in Rete mette in atto un esercizio di pensiero e di scrittura, che di per sé è interessante, ma lo è ancor più chiedersi quale sia l’ambiente di partenza di chi cambia identità in Rete. Credo che si sia sempre legati all’identità di partenza, quella reale. Anche se si può provare il piacere del segreto e dell’avventura di un’identità virtuale, si tratterà sempre di una proiezione determinata dai presupposti reali dello specifico soggetto. Chiunque abbia mai scritto narrativa sa, del resto, che la vita reale è infinitamente più sorprendente di qualsiasi costruzione fittizia. Penso sia molto più importante chiedersi come influenzi la nozione di soggetto il fatto che la gente scelga di crearsi delle nuove identità: da cosa ci si muove, cosa si abbandona, e cosa avviene quando si rientra nella realtà di questo corpo, quanto può essere soddisfacente e frustrante un sé puramente elettronico.
Le discussioni sul futuro spesso investono il soggetto parlando di una evoluzione verso un nuovo livello di consapevolezza. La sua visione sembra più fatalista o se non altro scettica. Ritiene che l’impatto della tecnologia sulla soggettività sia parte di un più ampio disegno evolutivo?
Anche nelle ipotesi di evoluzione umana verso un piano più alto di consapevolezza attraverso le nuove tecnologie si incontra spesso una grande dose di retorica. A uno sguardo attento emerge come questa consapevolezza non sia incrementata. Senz’altro la coscienza umana è cambiata, ma non credo ci sia alcuna prova di una evoluzione verso una coscienza collettiva e planetaria. Con ciò non voglio affermare che non possa esistere una simile consapevolezza, ma non vedo un movimento lineare e progressivo. Forse procediamo a balzi, anche laterali, con dei mutamenti di consapevolezza o forse stiamo addirittura devolvendo. Credo che il parlare di evoluzione esprima un desiderio molto positivo e importante di movimento verso un fine, ma credo anche che si tratti di un discorso basato sulla fede e su un desiderio puramente emotivo. È possibile che il ricorso ad un modello evolutivo sia utile e che produca buoni risultati frutto proprio dall’ottimismo di un tale modello. Al contempo ritengo sia importante non fare diventare questo ottimismo una forma di inganno verso se stessi. Bisogna guardare anche alle zone d’ombra, gli aspetti negativi della direzione in cui andiamo, se non altro per prepararci ad affrontarne la negatività. Se assumiamo un modello evolutivo acritico rischiamo di giustificare ogni disastro leggendolo come un passaggio necessario, secondo un ragionamento che ho spesso sentito fare in passato. Dobbiamo fondare i nostri modelli sulla realtà, e penso che le zone d’ombra ci aiutano a riportarci alle realtà in cui siamo e da cui ci muoviamo verso il futuro.
Come possiamo fondare uno sguardo al futuro del sé?
Innanzitutto dobbiamo creare un lessico, delle metodologie che non siano rigide e che però consentano allo stesso tempo di portare il sé da un piano di astrazione alla sua realtà concreta. Dobbiamo disegnare una cartografia dell’impatto che le nostre nozioni di soggettività hanno sulle istituzioni e il loro rapporto con gli elementi tecnologici. Dobbiamo evidenziare le connessioni fra questi diversi fattori, creare scenari complessi e sofisticati che possano essere utilizzati per pianificazioni di strategie governative e istituzionali. Dobbiamo creare insomma una tecnologia cognitiva. Il modificarsi della nozione del sé all’interno di un dato ambiente è sempre stato una questione centrale in tutta la tradizione filosofica e nelle religioni. Basti pensare alla Genesi. Dobbiamo ora sviluppare un nuovo lessico che offra una adeguata ai bisogni della società contemporanea. Su queste basi, la futurologia del sé potrebbe costituire una disciplina affascinante, e offrire un effettivo contributo al nostro modo di pensare.