a cura di Wu Ming 1
[Il testo che segue (siglato con le mie iniziali anagrafiche) fu scritto nel dicembre 1992 e immesso nel circuito di bacheche telematiche European Counter Network (realtà che di lì a poco si sarebbe spostata sul web).
Il biennio 1992-93 fu un periodo di attentati neonazisti e antisemiti in tutta Europa. Fu anche un periodo di intenso dibattito sui nuovi tratti del razzismo, non più giustificato in base a un’obsoleta discriminante biologica, bensì articolato secondo una logica “differenzialista”, fondato su un’assolutizzazione delle diversità culturali e antropologiche, viste come perenni, inconciliabili, astoriche, chiuse a ogni possibilità di evoluzione.
Oggi – in tempi di “scontro di civiltà”, “difesa dell’Occidente”, “pericolo-Eurabia” etc. – pare la scoperta dell’acqua bollente, ma all’epoca non erano in molti a studiare il guizzare delle fiamme sotto la pentola.
Lo scopo di queste acerbe note era stimolare un dibattito sulle dialettiche antisemitismo-sionismo e razzismo-antirazzismo, ma soprattutto sul pericolo di accettare una loro “equivalenza”, proposta in modo implicito nel discorso pubblico sul razzismo.
In parole povere: è vero che il razzismo culturale contemporaneo funziona come una sorta di “antisemitismo generalizzato” (E. Balibar), ma dal momento che antisemitismo e sionismo sono speculari l’uno all’altro e si alimentano a vicenda, dobbiamo evitare una risposta “sionista” (cioè tutta identitaria e reattiva) al razzismo, risposta che, lungi dal permetterci di smontare le argomentazioni neorazziste, ci avvilupperebbe nella loro stessa logica, perdipiù in posizione subalterna.
Per evitare questa trappola, dobbiamo capire cos’hanno in comune antisemitismo e sionismo, e possiamo capirlo soltanto risalendo alle remote origini del sionismo come reazione identitaria alla “schiusura” delle comunità ebraiche nell’Europa orientale del XIX secolo.
Ripropongo questi appunti oggi, così com’erano e con tutti i loro limiti (compresa una micro-boutade in fondo al testo, che al me di oggi suona aliena e puerile, ma il me ventiduenne era frequentemente puerile), perché mi sembrano tornati di qualche limitata utilità. Purtroppo non ho a disposizione il testo integrale, ma soltanto un lungo estratto circolato nelle mailing list del movimento bolognese nel febbraio 2002. (WM1, 23 agosto 2006)]
***
“La distruzione del complesso razzista non presuppone solo la rivolta delle sue vittime, ma la trasformazione dei razzisti stessi e di conseguenza la decomposizione interna della comunità istituita dal razzismo.” (Etienne Balibar)
1. […] Ciò su cui vorrei focalizzare l’attenzione in questo instant-file è che vedere il razzismo come qualcosa che riguarda solo e principalmente le sue vittime porta a storture e a pericolose incomprensioni.
Per il movimento antagonista il “pericolo naziskin” – come definito e sbandierato dai media e dalla comunità linguistica democratica – non può essere un problema di ordine pubblico, né solamente di autodifesa: si tratta di mettere il dito nella piaga delle teorie razziste, distruggerne le articolazioni transpolitiche, vanificarne la funzionalità.
2. Il razzismo culturalista e differenzialista afferma che “se l’irriducibile differenza culturale è il vero ‘ambiente naturale’ dell’uomo, l’atmosfera indispensabile al suo respiro storico, allora l’indebolimento di questa differenza provocherà necessariamente reazioni di difesa, conflitti ‘interetnici’ e una crescita generale di aggressività. Queste reazioni, si dice, sono ‘naturali’, ma anche pericolose. Con un sorprendente voltafaccia vediamo, qui, le dottrine differenzialiste proporsi a loro volta di spiegare il razzismo (e di prevenirlo)” (E. Balibar, Razza Nazione Classe, Edizioni Associate, Roma, 1990).
Il razzismo differenzialista si presenta come “non razzista” ( “non sono razzista, però…”), simula una comprensione “razionale” della natura e cultura umana, dice che la solidarieta’ “astratta” non serve a dare una soluzione al problema degli immigrati, emergenza che, se lasciata a se stessa, non potrà non generare disgregazione, razzismo e intolleranza. Per inversione, quindi, accusa gli antirazzisti di essere “i veri razzisti”.
Secondo Etienne Balibar, il razzismo differenzialista sarebbe una sorta di “antisemitismo generalizzato”. Difatti l’Ebreo è sempre stato percepito come agente disgregante, l’Altro che impedisce la formazione delle comunità nazionali, lo “straniero interno”, culturalmente diverso e irriducibile. L’antisemitismo è sempre stato un razzismo culturalista, “per eccellenza differenzialista”.
Nei punti seguenti cercherò di spiegare come all’antisemitismo generalizzato possa oggi contrapporsi – e in perfetta buonafede – un sionismo generalizzato, una difesa a oltranza dell’Identità, della Memoria e della Cultura che ripropone, rovesciate, le generalizzazioni del discorso razzista. Sottovalutare la potenza del Mito significa disarmarsi di fronte al suo riemergere.
3. Secondo Eric J. Hobsbawm “non c’è continuita’ storica di alcun tipo tra il protonazionalismo ebraico e il successivo sionismo”
[Per “legami protonazionali” H. intende quei “sentimenti di appartenenza collettiva” – il cui fondamento può essere la lingua, o la religione, o la continuità politica della comunità – che esistono prima e indipendentemente dalla loro attivazione e rappresentazione su quella “scala macropolitica che ben si adatta agli Stati e alle nazioni moderne”(1)].
Israel Shahak, in un saggio dal titolo “Il sionismo come movimento recidivo”, pubblicato sui numeri 12-13 e 14-15 di “Invarianti” (1990-91), afferma e argomenta l’esatto contrario:
“Il sionismo […] è una reazione contro i mutamenti progressisti nella vita ebraica che cominciano cento o duecento anni prima dell’inizio del sionismo stesso […] cerca di riportare indietro l’orologio nel tentativo di rivitalizzare la situazione preesistente”. Shahak inizia il suo excursus dalla situazione degli ebrei nella Polonia fino al 1774 (anno dell’annessione all’Impero russo) e descrive la loro totale separatezza culturale: esclusivo uso dello Yiddish e completa ignoranza della lingua polacca; ferreo controllo della comunità da parte dei rabbini, che impedivano – spesso con una violenta repressione – ogni emancipazione dalla superstizione cabalistica e dallo sciovinismo ultrafanatico (2); inesistenza di una cultura ebraica al di fuori dei precetti talmudici: niente storiografia, niente scienze matematiche, nessun insegnamento di lingue straniere.
Si verificarono poi importanti trasformazioni sociopolitiche: durante la parentesi napoleonica si cercò di sgretolare il potere di “autorità intermedie” come il rabbinato, introducendo la tassazione individuale (prima i soldi della comunità finivano al rabbino, mediatore fiscale e amministrativo) e istituendo una Polizia centralizzata – inesistente prima in Polonia – che paradossalmente “proteggeva” il popolo ebraico da ingerenze, condanne o vendette religiose. “I singoli ebrei, persino sotto l’Impero zarista, godevano di una protezione molto maggiore, come sudditi individuali, di quanto non avvenisse precedentemente. Infatti non potevano essere punti legalmente per aver fumato durante il Sabaoth o mangiato durante lo Yom Kippur. Nella letteratura ebraica e yiddish si trova chiaramente espresso che alcuni indulgevano in simili piacevolezze per la prima volta senza dover subire delle punizioni” (Shahak, cit.). Determinante fu poi l’Illuminismo ebraico (“Haskala”), che predicava la laicizzazione degli ebrei e la loro partecipazione alla politica. Fu così innescato un processo – certo parziale, limitato – di emancipazione. “Rimane una tendenza, diciamo romantica, di rimpianto per la perdita di vecchie certezze, di una primitiva semplicità che viene spesso impreziosita dalla nostalgia di un passato idillico quanto ingannevole, e conseguita attraverso un’aperta falsificazione. L’incapacità ad imparare rapidamente i doveri e i corrispondenti diritti di una piena cittadinanza complicava l’intero processo di trasformazione, e le aspettative esasperate spesso accecavano gli individui. C’erano anche coloro che soffrivano il timore che sempre accompagna i profondi mutamenti sociali […] il sionismo nacque da una mistura di tutti questi fattori, che divennero poi le sue qualità caratteristiche e durature”( Shahak, cit.).
3/b. Jonathan Frankel, nel suo colossale Gli ebrei russi tra socialismo e nazionalismo, 1862-1917 (Einaudi, Torino, 1990) descrive l’aspro conflitto tra il nazionalismo sionista e il “cosmopolitismo” degli ebrei socialisti, con tutte le sue laceranti contraddizioni, la difficile ricerca di un equilibrio tra universalismo e affermazione dell’identità, le innumerevoli sfumature tra “sionisti generici”, sionisti social-rivoluzionari “territorialisti” (3) o meno, sionisti marxisti, marxisti “territorialisti”, marxisti ebrei antisionisti, ebrei anarchici internazionalisti, etc. Personaggi come il socialrivoluzionario – e dopo l’Ottobre filobolscevico – Chaim Zhitlovsky o il “palestinets” (3) marxista Ber Borochov rimbalzarono per tutta la vita da una posizione all’altra cercando di conciliare gli estremi. Un’organizzazione come l’antisionista Bund (“Unione [bund] operaia ebraica generale di Lituania, Polonia e Russia”), che aveva trovato un precario equilbrio tra la rivoluzione proletaria e le istanze specificamente ebraiche, venne attaccata violentemente dai sionisti, calunniata prima da Plekhanov e poi da Lenin, espulsa e poi riammessa nel POSDR. Un golgotha.
Frankel ci porta poi a respirare l’atmosfera dei primi insediamenti in Palestina, la rapida emarginazione – a vantaggio del rapporto organico con la finanza ebraica internazionale – della sinistra estremista, le contraddizioni interne e le intossicazioni ideologiche di quest’ultima, altalenante tra soluzioni cooperativistiche decisamente utopiche e l’instaurazione di un “moderno” e “proletario” rapporto salariale, indecisa tra la solidarietà operaia e l’ostilità all’assunzione di manodopera araba. Fin da subito il nazionalismo sionista trasforma il diritto alla differenza e all’autoemancipazione in rivendicazione assoluta di alterità, inizia a percorrere a ritroso il cammino dell’Haskala dall’ortodossia alla laicizzazione, verso il totalitarismo etico, fino al razzismo conclamato dell’attuale sionismo di stato. Soprattutto, elemento che non può non toccare e inquietare noi sovversivi, brucia i neuroni e spreca le energie vitali di almeno tre generazioni di compagni ebrei, per poi liberarsi di loro in una strisciante notte dei lunghi coltelli. Come e perché è potuto avvenire tutto ciò?
3/c. Torniamo alle riflessioni di Shahak: il sionismo non si basa solo sulla supremazia del popolo ebraico desunta dal Talmud, che porta “soltanto” a disprezzare gli arabi e i gentili. No, il sionismo va oltre: stabilisce che solo l’ebreo residente in Israele è un ebreo “normale”, un ebreo compiuto. L’ebreo “in esilio”, l’ebreo della Diaspora, è costantemente rappresentato come nevrotico e insoddisfatto, poiché vive come minoranza in una società non ebraica. Tutto il movimento sionista, dalla destra militare-religiosa fino alla defunta sinistra rivoluzionaria, si è fondato – con differenti interpretazioni – su questo postulato. Ytzhak Rabin, anni fa, definì “falliti” quegli ebrei che, avendo le palle piene dell’ortodossia e dell’integralismo, decidevano di andarsene da Israele, tornare “in esilio”. “Il giornale in lingua ebraica Ysrael Shelanu (La nostra Israele) che si pubblica negli USA per gli ebrei israeliani immigrati, non fa altro che condannare i suoi lettori per il ‘peccato’ di essere diventati ‘animali’, per il fatto di avere lasciato Israele” (Shahal, cit.). Decenni prima, Ben Gurion chiamava “polvere umana” gli ebrei che non intendevano trasferirsi in Palestina. Insomma, solo l’istaurazione di una società integralmente e tenacemente ebraica può fare dell’ebreo un ebreo: il passato – rielaborato in forma di mito – a cui si ispira l’ideologia dello stato israeliano è quindi quello della separatezza culturale ebraica, come nella Polonia feudale, con l’aggiunta di pruriti da grande potenza, il sogno nel cassetto della Grande Israele, ovvero la completa egemonia sul Medio Oriente.
Tiriamo dunque una prima conclusione: con l’Haskala, con la “depressurizzazione” per mano napoleonica, con l’annessione all’Impero russo, gli ebrei di tutte le classi vennero spinti fuori dal loro piccolo universo. Più “liberi”, ma anche privi di certezze sulla loro storia, sulla loro identità, sul loro ruolo nel mondo. Esposti senza mediazioni alle intemperie dei pogrom, sudditi o cittadini individuali, con precise responsabilità sulla propria vita. Di fronte all’antisemitismo – fomentato dall’autocrazia zarista – dei popoli cristiani, da cui non li “difendeva” più alcuna rigida barriera culturale, reagirono in diversi modi. L’adesione all’internazionalismo socialista fu uno sfibrante tentativo di superare, senza accantonarla, la “questione nazionale ebraica”. Ma il sionismo, col suo costante richiamo al Mito – “politica di salute pubblica che si e’ mantenuta al di là della sua necessità” (R. Vaneigem) – cementò i corpi e i cervelli in un antisemitismo al negativo: “Le vittime creano la loro immagine del fenomeno e questo in ultima analisi fu il metodo usato dal sionismo. La pretesa degli antisemiti che gli ebrei fossero stranieri ‘per natura’ e sempre […] fu una pretesa accettata dai sionisti. La risposta ideologica del sionismo fu che le accuse degli antisemiti rivolte agli ebrei erano giuste proprio per il fatto che gli ebrei, vivendo in Europa o negli Stati Uniti, diventavano ‘anormali’ e potevano ‘ normalizzarsi’ soltanto vivendo in una società ebraica […] Sia gli antisemiti che il sionismo ammettono come premessa che l’antisemitismo non sia sradicabile. Ambedue sostengono che la presenza degli ebrei come minoranza in qualsiasi società è causa inevitabile dell’antisemitismo” (Shahak, cit.)
4. Inevitabile richiamarsi alle analisi sul razzismo differenzialista, metarazzismo che finge di spiegare “razionalmente” il razzismo “di prima posizione”, proprio come il razzismo sionista finge di spiegare l’antisemitismo.
In un qualsiasi momento dell’attuale fase storica, l’antirazzismo – l’opposizione all’attuale antisemitismo generalizzato – può essere rielaborato in forma mitica, farsi pseudonegazione spettacolare, trasformarsi nel suo contrario – un sionismo generalizzato. Per questo è pericolosa una lotta al razzismo che si affidi principalmente alla reazione delle sue vittime immediate: l’irrigidimento identitario è appena dietro l’angolo, il metarazzismo cammina solo un passo avanti a noi. Guardiamo alla vicenda dei Black Muslims di Elijah Muhammad, o al “Back to Africa” di Marcus Garvey ( la versione afroamericana del sionismo), o alla antiaraba e ultrasciovinista Jewish Defense League americana. Serve dunque a poco fare commoventi fiaccolate, appuntarsi sul bavero una stella di David di cartone, ripubblicare il pallosissimo “Diario di Anna Frank” [4]: i razzismi si sono già ridislocati, sono per definizione altrove, sono razzismi di seconda posizione a cui l’attacco non può né deve essere sferrato sul sabbioso terreno dell’etica.
L’antirazzismo effettivo si colloca sul terreno della lotta al capitale […], in un’opera di decostruzione dei codici dominanti. E soprattutto, deve capire e far capire che vittima del razzismo è l’intera Specie, sono i nostri corpi sempre più presi dentro reti disciplinari, incatenati dentro sacchi o forzieri subacquei in attesa di un nuovo houdinismo sovversivo.
R.B., Bologna, dicembre 1992
Note
1. Eric J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismi, Einaudi, Torino 1991;
2. “La storia registra casi di numerosi eretici ebraici che volevano l’emancipazione dalle regole restrittive del comportamento ortodosso. I capi della comunità ritennero necessario impedire che essi parlassero e in qualche modo influissero sul mutamento di tali abitudini mediante la fustigazione, la gogna e altre punizioni umilianti. In Polonia, nel XVIII secolo tali punizioni erano considerate come una procedura necessaria e impiegata frequentemente in qualsiasi sinagoga. I membri delle congregazioni venivano incoraggiati a sputare sul colpevole dopo le preghiere. Con la nascita del sionismo fu fatto un inventario di queste punizioni da parte dei sionisti religiosi, perché servisse come modello per la originaria giurisprudenza ebraica […] Il rabbino Shlomo Luria, nella Polonia del XVI secolo, discuteva se fosse lecito mutilare un ebreo che avesse commesso queste mancanza. Considerava il taglio delle mani, dei piedi o della lingua o l’accecamento […] Era d’accordo sulla pena di morte, perché sosteneva che il suo dotto maestro una volta aveva ordinato la mutilazione di un ebreo che aveva commesso un reato e il criminale cos�ì mutilato si era poi convertito al cristianesimo, si era sposato ed aveva avuto figli e da quel tempo tutta la sua famiglia aveva odiato profondamente gli ebrei” (Shahak, cit.)
3. Nell’inizialmente caotico schieramento sionista, “territorialista” era chi pensava che l’insediamento ebraico non dovesse necessariamente avvenire in Palestina (giudicata terra inadatta per svariate motivazioni geopolitiche ), e proponeva destinazioni alternativa come l’Uganda, il Madagascar, addirittura la Nuova Zelanda. A questa figura si contrapponeva il “palestinets”, fautore del ritorno in terra promessa. Cfr. J.Frankel, cit.
4. Questa è la boutade a cui facevo riferimento nella premessa. [nota 2006]