di Wu Ming 5
Articolo pubblicato su Il Manifesto del 22/08/2006
Un mese fa moriva Valerio Marchi, sociologo, studioso delle sottoculture giovanili più problematiche e meno MTVizzabili, capace come nessun altro prima di tenere un piede (riluttante) nell’accademia e un altro in una realtà che per molti, per quasi tutti, è solo resoconto scientifico, o al più terreno d’osservazione partecipata. All’indomani della scomparsa i più lucidi tra di noi – quelli che la perdita non colpiva in modo diretto e duramente emotivo – già si chiedevano chi sarebbe stato in grado di proseguirne il lavoro, chi avrebbe continuato un cammino che appare, in prospettiva, di importanza decisiva. Ora mi si chiede di scrivere della sua opera in veste critica. E’ un compito duro, ma doveroso, indispensabile. Qualcun altro mi seguirà, con maggiore lucidità e più profonda dottrina.
La strada era scritta nei gesti, nella voce e nella storia personale di Valerio. La strada come orizzonte esistenziale, luogo di inaspettate epifanie, intuizioni profonde, rivincite simboliche. La strada come archivio, serbatoio di storie, la periferia urbana che cresce su se stessa, i luoghi del conflitto quotidiano, ambienti dove la trasformazione della società agisce sul corpo vivente, sul modo di muoversi, di percorrere e intendere il mondo, di entrare in relazione con altri corpi: tutto questo non stava, per Valerio, in fondo a un microscopio. Egli era drammaticamente consapevole dell’irriducibilità del soggetto, del suo eccedere le categorie interpretative, della sua problematicità in qualche modo originaria. Per questo è impossibile un’“etologia sociale”, per questo è inutile calarsi nella giungla urbana dalle 9 alle 5, per poi rientrare nella vita di tutti i giorni scrollandosi di dosso odori e rumori come un cane fa con la pioggia. Questa l’intuizione fondamentale dell’uomo, la parte fondante dell’eredità che ci lascia.
La vicenda intellettuale di Valerio Marchi assume i tratti di un’esperienza unica nel corso di una peculiare e disconosciuta temperie. All’inizio dell’ultimo decennio del secolo scorso si produsse un fenomeno destinato ad avviare una piccola reazione a catena: membri “anziani” di sottoculture spettacolari — punk, mod, skinhead, quelle che negli anni ’80 venivano definite “bande giovanili” e interpretate attraverso l’occhiale deformante e svilente del “fenomeno di costume”- incominciarono a leggere i testi di sociologia che parlavano di loro (Hebdige e Chambers, soprattutto). Analisi sulla risoluzione simbolica (e transitoria, e precaria) del conflitto, sulla pregnanza dei segni, sull’importanza decisiva delle scelte, frutto di istinto e di emulazione, che si erano trovati a percorrere. E dopo aver letto e assimilato, alcuni di questi si misero a scrivere. Non si trattava più di fanzine: si trattava, idealmente, di raggiungere più gente possibile, di entrare in uno spazio di discussione pubblica che li aveva sempre visti come oggetti – problematici, esotici, emblematici ma pur sempre tali. Gli stili spettacolari, attraverso portavoce sempre più consapevoli, stavano in altre parole giungendo a una forma di autocoscienza. Forse è altrettanto giusto dire che erano giunte alla fine della loro parabola, ma questa, come suole dirsi, è un’altra storia.
Valerio Marchi colse da subito l’importanza e la potenziale fecondità di quel momento. Oggi pare in qualche misura “normale”, praticamente tutte le sottoculture “storiche” hanno espresso personaggi in grado di redigere storie e resoconti critici in qualche misura “dall’interno”, “dal basso”, ma si trattava allora di un’assoluta, inattesa novità. Valerio Marchi fu strumentale nello sviluppo di questa via italiana all’analisi degli stili giovanili, a questa sorta di “autocritica stilistica” che conobbe una breve, interessante stagione. Il mio libro “Skinhead – lo stile della strada”, che si colloca all’inizio del percorso, uscì grazie al suo interesse, con una sua pregevole prefazione.
A questo campo di studi, negletto nel nostro paese quanto pochi altri, Valerio portò in dote la formazione accademica impeccabile, la formazione politica – anni e anni di militanza in quello che un tempo si definiva “il Movimento”- e lo spessore umano, indimenticabile. Non solo stili sottoculturali per così dire “d’importazione”: buona parte del lavoro di Valerio fu dedicato alla comprensione e all’analisi delle curve degli stadi italiani, e si tratta di un lavoro di capitale importanza in un paese di sedicenti “esperti” buoni al massimo per il processo di Biscardi. E si deve a lui, alla sua capacità di visione e di interpretazione se ora abbiamo tutti le idee un po’ più chiare sulla galassia nera della destra neofascista europea e italiana, sulla sua virtuale onnipresenza nel nostro paesaggio urbano, sulla sua trasversalità e pericolosità. La crescita, di opera in opera, fu continua, la ricchezza di temi e suggestioni impressionante. Da Ultrà e Nazi Rock passando per Teppa, denso di materiale pre-narrativo, dalle pagine sullo Stile Maschio Violento, lavoro fondamentale in questi tempi di machismo globalizzato, fino all’analisi illuminante di Il Derby del Bambino Morto – senza dubbio la sua opera più matura e importante – Valerio ha saputo dispiegare una panoplia concettuale insuperata, ha fornito temi e motivi per anni e anni di analisi e narrazioni future. Valerio Marchi è riuscito come nessun altro in questo paese a comprendere le ragioni profonde che compongono l’ethos dei giovani marginali e a renderle intelligibili a una più vasta comunità. La sua parabola è stata una lunga e intensa esplorazione, dialettica del limite che non ha conosciuto distinzioni tra vita personale e vita professionale.
La tentazione di ricondurre la portata della sua opera all’assunzione in prima persona dei segni e delle maschere identitarie dell’umanità che popola i suoi libri è forte, specie per uno che, come me, ha condiviso con Valerio Marchi la problematicità di molte scelte. Ed è ancora più forte in un contesto come il nostro, in una tradizione critica che tende a sovrapporre opera e autore, a spiegare per via di automatismi e parallelismi i contenuti di quella attraverso biografia, microstoria d’avvenimenti, psicanalisi eccetera. Questo, a ben vedere, non è un effetto prospettico dovuto alla vicinanza. Quando tra qualche decennio si vorrà capire quel che si agitava nella pancia stilizzata di questo paese, comprendere in che modo le trasformazioni economiche, culturali e politiche degli ultimi vent’anni hanno agito sulla vita, sul dato concreto dei comportamenti e delle aspettative, la biografia di Valerio Marchi sarà poco importante, e anche il suo essere-così-come-era, la sua capacità empatica, la sua voce. Quello che conterà, per il lettore futuro, sarà la grandezza e l’originalità della sua opera. Sta alla presente generazione continuarla.
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