Per coincidenza dovuta a sfighe personali e motivi di studio per il prossimo romanzo, mi sono trovato a Berlino nelle due settimane che hanno visto emergere, sui media europei e americani, l’aspro dibattito intorno alla confessione di Günter Grass, che nella sua autobiografia, Sbucciare cipolle, rivela di essersi arruolato a 17 anni nelle file delle SS, dopo un rifiuto della Marina militare di Hitler presso le cui sedi aveva presentato richiesta, essendone respinto. Ne è fuoriuscita una colata lavica, uno strascico di letame intellettuale e storico, un boom di news. Nello stesso momento in cui un altro scrittore saliva alla ribalta di riflettori funerei: l’israeliano David Grossman, a cui avevano ucciso il figlio Uri, riservista militare caduto nell’invasione del Libano da parte di Israele.
Tempi ambigui che esigono un’analisi provvisoria. Provvisoria, ma necessaria: sul nostro tempo, sulla memoria, sulle responsabilità, sulla Germania e il nostro continente.
Solo e pensoso, misurando a passi lenti quell’emulazione fallita degli Champs Elisée che è il viale centrale berlinese di Unter den Linden, sulla sinistra dirigendomi verso l’immane pozzo di Alexanderplatz, davanti alla Babelplatz in cui fu consumato il rogo dei libri a opera dei nazisti, trovo la Zeughaus [a destra] che ospita il Museo di storia tedesca. All’entrata, sporco di smog, piagato dai climi, pende verticale un enorme vessillo coi colori della Germania e i confini della nazione, al cui interno è scritto: WIR SIND EIN VOLK. Una manifestazione di palese orgoglio, parzialmente sorretto dal piccolo cuore rosa posto in corrispondenza della città di Berlino. L’orgoglio tedesco è dunque rinascente e conosciamo tutti la cifra di questa corrente elettrica, di questa dinamo inesauribile che ancor oggi dalla Ruhr mobilita e molina il primato finanziario e il traino economico rispetto al continente intero: è l’orgoglio dell’über alles. La riunificazione della nazione e di Berlino col crollo del Muro potrebbe essere una giustificazione sufficiente di questo rigurgito di letale autostima: sono trascorsi soltanto 17 anni da un evento storico fondamentale. Eppure la sensazione del flaneur che passeggia non distratto per tutta la capitale non è questa. Si percepisce una rinascita che – è un’impressione del tutto personale – fa perno su una città in cui si scava ovunque per non ritrovare niente e per erigere il nulla (i funghi post-post di Potsdammerplatz, per esempio, in disarmonia con l’orizzontalità pesante dell’impostazione architettonica data dall’opera di Karl Friedrich Schinkel, lo Hausmann tedesco che ridisegnò la città). L’impressione , dunque, è quella di una città confusa, che non sa cosa e come costruire, cosa conservare e cosa innovare, e la cui vita culturale è una leggenda metropolitana, un’epidemia di locali lounge e post-punk a base di installazioni artistoidi più straviste e banali che naïf, a fronte di esposizioni permanenti in cui viene data stura alla vocazione al gigantismo di un popolo che è fiero di essere uno e uno solo e che canta istituzionalmente la propria supremazia sugli altri.
Una visita alla Zeughaus conferma la percezione di un rinascente orgoglio che si avverte da subito come minaccia, come potenza oscura e ancestrale: il Museo della storia tedesca è un’autocelebrazione immensa, che parte dal supposto ruolo di partecipante attivo a un’osmosi virtuosa con l’impero romano, sempre respinto, per capovolgersi in un tifo calcistico al momento della calata barbara verso Roma. Per non dire della Riforma di Lutero. Per non parlare di Bismarck, ignorando un passo prima Goethe e Hegel, dando sommaria rappresentazione allo Sturm und Drang, a vantaggio delle esplorazioni e catalogazioni di Von Humboldt, a cui si erige un inatteso culto: più che gli intellettuali che hanno imposto la forma del pensare occidentale, l’uomo che scopre per secondo Cuba ed esporta fisicamente la Germania a latitudini inesplorate ed esotiche, per sistematizzare il campo scientifico. Lasciamo perdere l’occasione di una reale e analitica ricognizione su ragioni e portata dell’Olocausto, visto che i curatori dell’esposizione la lasciano perdere per primi. Si esce intontiti, germanizzati con la nausea, da questa mostra strabica, il cui strabismo è calcolato.
Di fronte, al Kronprinzenpalais, un’ulteriore mostra, non permanente, che ha scatenato polemiche in tutto il mondo, e della quale, qui in Italia, si è avuta qualche eco. Non reperendo una copia di giornali italiani che fosse una, pur chiedendo a ogni edicola in corretto inglese e venendo misinterpretato perché gran parte dei berlinesi che ho incontrato non parla inglese, mi sono ridotto a leggere Le Monde, il New York Times, lo Herald Tribune, le cui pagine culturali erano dominate dal caso Grass e dallo scandalo di questa esibizione, fragile in apparenza e muscolare a un secondo livello. Si tratta di una rassegna degli esodi politici del Novecento: masse di presuli ed esiliati nel XX secolo. La documentazione è scarsissima e per questo stesso motivo risulta emblematica. Quattro lettere affiancate da una tiara ortodossa e la questione turco-greca è sistemata (non ne sono esperto, ma, avendo letto Middlesex di Jeffrey Eugenides, ho una percezione attendibile dell’immane tragedia che fu vissuta e dai turchi e dai greci). Enorme attenzione per lo sterminio, con conseguente esodo di profughi in massa, degli armeni: sta diventando l’argomento storico da opporre all’Olocausto. A proposito del quale, compio un’unica constatazione: siamo presenti anche noi italiani nell’esposizione, con la questione istriana e la storia delle foibe, a cui viene dedicato un terzo dello spazio dedicato all’Olocausto. Questa è la pietra dello scandalo internazionale (con giustificatissima sottopolemica dalla Polonia), il motivo per cui la stampa mondiale si è scagliata contro i pessimi (o benaccorti) curatori della mostra: una riduzione, sic et simpliciter, della Shoah a esodo, citando un pochino di massacri, in uno spazio documentaristico ristrettissimo, con posizionamento in teca di una valigia di deportato come testimonianza diretta. La questione sottopelle di un revisionismo che, come dicevo, si respira o, almeno, io ho respirato. (E non parliamo delle foibe: multimedializzate con tre interventi: il servizio-fiume dell’Istituto Luce postfascista, il cui unico sintomo di postfascismo sta nel rallentamento della voce retorica ed enfatica che descrive l’esodo da Pola con terminologia da Troiane euripidee; un’intervista a una signora che ammette di non essersi nemmeno recata alle foibe e conta sette familiari morti; dichiarazioni di ex bambini che ricordano la fuga da Pola. Nessun dubbio, nessun approfondimento storiografico per una questione che scatena invece, da anni, non soltanto uno scontro ideologico in Italia, ma anche indagini di tutt’altro esito, come abbiamo estesamente segnalato su Carmilla).
In questo clima, che è perfettamente consono a una civiltà che ruba l’altare di Pergamo, la porta interna di Babilonia, l’entrata al mercato di Mileto, il busto di Nefertiti e una paccata di arte rinascimentale italiana per farne un modello della propria altezza di civiltà (la Germania come ciò che rappresenta nei suoi ciclopici musei, quelli della Insel nel Mitte), è perfettamente comprensibile il supermarket del museo al Check Point Charlie, dove si eiettano cifre improbabili e imprecise sulle vittime della Stasi e si dimentica che l’anomalia non era Berlino Est, ma la parte Ovest, isoletta nell’àmbito di una più vasta area assegnata per regolari patti postbellici all’URSS, liberatrice di Berlino – constatazione, questa, che non ha a che vedere con le storture e l’impressionante controllo da Grande Fratello praticati da Ulbricht e Honecker per mano di Mielke.
A fronte di questa confusione cognitiva ed emotiva, riassumibile in una erezione rinnovata di identità a partire da un perenne archetipo identitario nazionale, Berlino reca le tracce dell’espiazione, divenendo una sorta di penitente Sion nel corso di cinquant’anni postbellici, testimoniati dalla profusione di memoriali, lapidi, musei a ricordo degli ebrei sterminati dalla macchina di morte hitleriana. Si tratta, però, di depositi salini di un passato, anche recente, che non è più il presente. Lo stesso Jüdischen Museum di Libeskind appare contraddittorio in questo senso: l’eccezionalità della sua performance architettonica fa a gara con il dramma che dovrebbe testimoniare al proprio interno – la tragedia annullata dalla forma in cui è strutturata, la polpa viva in concorrenza con la valva che dovrebbe contenerla, l’aerodinamica del presente in competizione con il dramma storico del passato. L’architettura di Libeskind è davvero allegorica di uno stato di ambiguità tutto tedesco, di cui il caso Grass è l’emblema più alto.
Due parole personali su Günter Grass. Mi annoia a morte quello che ha scritto e Il tamburo di latta ho impiegato mesi a finirlo. La sua posizione perennemente moralista, il suo indice puntato – fosse pure in giusta direzione – mi ricordava certi solonismi da cui potevo immaginare, come propaggine mostruosa, la nascita di nuovi mostruosi regimi. Il suo sostegno a un progressismo cosiddetto “dei piccoli passi” era un ossimoro, perché era di un assolutismo censorio intollerabile.
Ciò non toglie che Grass è l’uomo che ha denunciato ciò che, stando sotto gli occhi di tutti, fece comodo a tutti non rilevare (noi italiani, al solito, brillammo per assenza nel dibattito): cioè che le amministrazioni Adenauer andavano rimpolpandosi di gerarchi nazisti, di uomini gravemente compromessi dal proprio passato. Grass andò controcorrente, perché l’esistenza della DDR e la minaccia sovietica sull’occidente calamitavano l’attenzione e giustificavano gli indegni mezzi che la Germania Federale utilizzava per opposizione politica e strategia militare, sotto dettatura USA (compreso il santino di Kennedy, con la sua strategia spettacolare delle frasi storiche: lui era un berlinese quanto erano americanizzati i berlinesi stessi, pedina in mano al Foreign Affairs). Qui Grass spese tutto se stesso per comporre una voce contraria allo status quo dato per scontato dalla comune idiozia della geopolitica e dall’indifferenza di un popolo che, con ritmo più lento di quello giapponese, andava comunque sintonizzandosi sulle frequenze del libero mercato quale unico esito, ideologico ed economico, della storia dopo la seconda guerra mondiale.
A sessant’anni di distanza dai fatti incresciosi che visse, Grass spiazza tutti e lo fa con quello che credo essere reale dolore personale (vistolo in tv in una lunga intervista, tradotta ovunque il giorno dopo): nella sua autobiografia, di cui l’editore ha anticipato l’uscita per sfruttare l’enorme rumore sollevato dal caso, confessa che a 17 anni, pur di sfuggire dalla situazione familiare, indossa l’uniforme delle SS, ammette di non averne provato vergogna, racconta del fascino che stillava dalle conquiste hitleriane e dall’idea di resistenza all’avanzata degli Alleati. Fa il furbetto solo quando ricorda di avere incontrato in trincea Joseph Ratzinger, essendo questi mobilitato di forza insieme ai suoi compagni di seminario a scavare trincee e non ad aderire ai fulgori cupi imposti da Himmler a un’istituzione feroce e disumana come le SS.
Di fronte a questa confessione, la Germania si è scatenata. Va detto, in gran parte contro Grass. E’ uno stato di polizia dell’ipocrisia. Quale Germania, infatti, chiede la revoca del Nobel al suo maggior autore contemporaneo? E’ la medesima Germania che sta erigendo un revisionismo attraverso processi striscianti, nel migliore dei casi inconsci, tutti giocati sull’economico, sulla reattività finanziaria del Paese. Una nazione a cui fa comodo un nuovo transeunte feticcio (Grass ha 79 anni) per fingere di perpetuare un senso di colpa e un processo di espiazione che, nei fatti, viene annichilito dall’orgoglio dello sviluppo politico-economico, con Angela Merkel nuova Thatcher mielosa e temperata dalla Grosse Koalition, il primato europeo ritrovato non certo grazie alla scienza e ai saperi, ma allo zelo della sede locale di McInsey e al prestigio di Francoforte come piazza borsistica in concorrenza con Londra, laddove si erge il palazzo della BCE, dominato dal francese Trichet, a cui fotte del rialzo dei tassi molto più che della mutazione della percezione degli orrori nazisti e della Shoah.
La Germania che crocifigge Günter Grass è una Germania materialista che ha spostato l’efficienza della macchina hitleriana dall’àmbito bellico a quello economico. E’ una Germania liberista che è pronta a dimenticare o a fare spettacolo della memoria, svuotandola dei contenuti interni, così come accade in ogni regime liberale. E’ una Germania che, in accordo col freudismo più regresso, accoglie con evidente piacere l’immolazione di un padre, fatto che da parecchio non aveva luogo, e quindi immagina che il suo bersaglio sia il Vate, l’Artista: l’uomo mosso dallo Spirito, altra costante del barbaro fascismo neutrofilo tedesco. Grass coperto di pietre scagliate con violenza dà la stura a occuparsi d’altro: paradossalmente, accusandolo, la Germania è EIN VOLK, annulla la critica che Grass ha mosso per sessant’anni a questo slittamento evidente della sua società destinata alla starbucksizzazione, e lo immola non tanto per l’arruolamento, quanto per la scelta di tardare tanto a rivelare un condizionamento storico che, in un diciassettenne nel ’45, era giustificabile proprio secondo le regole riduzionistiche a cui il liberismo costringe l’interpretazione del passato.
L’unica difesa possibile per Grass, l’unica uscita dall’ambiguità della risorgente Germania, si trova proprio a Berlino, alla Hamburger Bahnhof, la galleria d’arte contemporanea situata in una ex stazione. Appena si entra, domina la scena una gigantesca installazione del prediletto allievo di Beuys, Anselm Kiefer, dal titolo Censimento: un archivio di testi a quattro pareti, una scaffalatura enorme di tomi in piombo stipati e sbrecciati, le pagine che fuoriescono contorte, i caratteri indecifrabili. Si entra nell’installazione attraverso una porta stretta. La storia umana, illuminata da una lampadina di pochi watt, è ultimata, perchè non c’è più posto per un altro libro, che sia di Grass o meno. A terra, sconcertante, un poligono in vetro che riproduce quello della Melancholia di Dürer: e si rimane sconcertati. La storia e la cultura versus l’essenza meditativa e coscienziale dell’uomo: la pietà che innalza.
Berlino, fuori, è una città che non innalza e non si innalza, nemmeno con i vani tentativi di Piano e Libeskind: è una città pesante, orizzontale, escavata ovunque, ovunque senza possibilità di reperire, in quella terra nerastra, particelle di pietà.
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