di Sbancor

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L’Italia sta per mandare 3.500 soldati allo sbaraglio su quello che G.W.Bush ha definito “il terzo fronte” della guerra al terrorismo. Ma qual è il terzo fronte? Oggi è la frontiera libano-israeliana. Già lungamente ed inutilmente presidiata dall’UNIFIL. Ma dalla fine di agosto, quando l’Iran risponderà negativamente alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul nucleare, il Terzo Fronte, quello vero, sarà l’Iran e, forse anche la Siria.
Ora se valutiamo con spirito equanime l’andamento delle operazioni sugli altri due fronti, Afghanistan e Iraq, c’è di che rabbrividire.
Cito da fonte non sospetta: Alessandro Politi, in un paper intitolato Un multipolarismo difficile, presentato all’interno del Rapporto Nomisma “Nomos & Khaos” 2005:

“La guerra in Afghanistan (Operazione Enduring Freedom) rischia di essere persa. (…) Secondo le mappe pubblicate dall’ONU tra il giugno 2002 ed il febbraio 2004 la coalizione non solo non sta vincendo ma ha subito una costante erosione nel controllo delle province disputate. Se un tempo solo tratti della frontiera pakistana erano insicuri, ora lo è l’intera fascia frontaliera. Nel giro di un anno (aprile 2005) secondo mappe non pubblicate, il saliente ribelle nelle province di Uruzgan, Zabul, e Ghazni è aumentato del 20% circa sul totale (…) Concretamente dopo le azioni di disarmo e smobilitazione del luglio 2005, vi sono ancora dai 100.000 ai 180.000 irregolari in armi, dei quali 2-3000 combattenti talebani e irriducibili ed un centinaio di qa’edisti”.

Domanda: E gli altri chi sono? Le antiche milizie dei “signori della guerra e dell’oppio”? In parte sicuramente. Ma molti sono semplicemente afghani che di fronte alla distruzione dei villaggi, ai danni collaterali, all’uccisione di vecchi donne e bambini, ma soprattutto di fronte all’insipienza dell’intervento della coalizione e del governo fantoccio di Kabul, hanno semplicemente deciso che era più prudente rimanere in armi. Le corrispondenze di Gino Strada e di Vauro dal “fronte afghano” degli ospedali di guerra valgono molto più delle scempiaggini di analisti, esperti militari e giornalisti!
Certo, secondo Politi “se questa guerra viene persa, l’intera ONU e la coalizione militare impegnata nell’operazione subiranno lo stesso scacco politico patito dai sovietici nel 1988, con prevedibili effetti nelle minoranze arabe o mussulmane jihadiste o simpatizzanti”

Peccato che questo effetto l’abbiamo già ottenuto proprio con la “guerra afghana”: un’operazione di polizia che doveva individuare e catturare i vertici di Al Qa’eda ed arrestare (dead or alive) Osama bin Laden. Sono passati cinque, dico cinque anni. Osama e Zahwahiri sono ancora a piede libero — e qualcuno mi deve spiegare perché — e Enduring Freedom e Isaf — che militarmente sono la stessa cosa hanno fallito il loro obiettivo principale e sono divenute una “guerra coloniale”. E la storia insegna che le “guerre coloniali” in Afghanistan le hanno perse tutti, tranne Alessandro il Grande. Ma non mi sembra che la “coalizione” sia paragonabile alla falange macedone!

Ma continuiamo a leggere Politi: “La guerra in Iraq è invece persa. Sul piano strategico reale gli Usa avevano puntato a trasformare l’Iraq in un perno di manovra strategico nel Medio Oriente, con la possibilità di rimpiazzare le grandi basi perdute in Arabia Saudita di fronte alla pressione di Al Qa’eda e della casa regnante. A livello simbolico le forze USA oggi non riescono nemmeno a controllare l’autostrada che collega l’aeroporto di Baghdad alla Zona Internazionale, tanto è vero che gli spostamenti diplomatici avvengono solo in elicottero”

In più c’è la “Guerra Civile irachena” fra Sciiti e Sunniti, che potrebbe portare addirittura a uno “dissociazione” (è il termine che si usò in Jugoslavia) dello Stato Iracheno o a qualche forma molto radicale di federalismo. Vedi qui.
Solo nel mese di luglio ci sono stati 3.438 morti di morte violenta, secondo dati del Ministero della Sanità e della “Morgue”.
Centodieci morti al giorno. Più delle vittime complessive del conflitto israelo-palestinese. Nei primi sette mesi dell’anno i morti sono stati, sempre secondo fonti del governo iracheno, 17.776. E c’è la provincia di Bassora pronta a esplodere (vedi qui).
E c’è l’Iran che deve solo aspettare che l’Iraq o gran parte di esso finisca per gravitare nella sua area di influenza. Già è stato siglato un accordo sul petrolio fra Iran e Iraq.
“Secondo l’accordo, Baghdad spedirà a Teheran 100 mila barili di greggio al giorno. In cambio l’Iran invierà all’Iraq 2 milioni di litri di prodotti raffinati al giorno. Il trasporto del carburante avverrà in un primo momento su strada, ma le due parti non escludono la costruzione di un oleodotto che colleghi i due paesi. Si tratta di un risultato importante per l’Iraq, che e’ costretto spesso a importare derivati del petrolio a causa dei continui attacchi dei miliziani all’industria petrolifera. Un tempo estremamente tesi, i rapporti tra Baghdad e Teheran sono migliorati da quando un governo a maggioranza Sciita ha preso il potere a Baghdad.” (Repubblica online, 16 agosto 2006)

Le conseguenze mediatiche della guerra in Libano

La capacità di resistenza, per non dire la “vittoria”, degli Hezbollah contro l’esercito più forte del Medioriente, l’Idf, ha segnato probabilmente una svolta cruciale, che non riguarda solo il Libano.
Essa ha due conseguenze immediate, uno sul piano della comunicazione — che nella guerra al terrorismo è fondamentale — e un’altra sul piano della geopolitica dell’area.
Nonostante gli sforzi per attribuire agli “Hezb” l’etichetta di “terroristi”, compito a cui si è dedicata gran parte della stampa occidentale, e italiana in particolare, è sinceramente difficile convincere l’opinione pubblica che un gruppo così radicato nel Sud del Libano, rappresentato da due ministri nel governo libanese, alleato con forze come quelle del Generale Aoun, cristiano-maronita, un gruppo che gestisce ospedali, centri di assistenza e che ora manda i suoi militanti nelle aree colpite dai bombardamenti per fornire supporto alla popolazione, sia solo un gruppo di efferati “terroristi” (1).
Il che non esclude ovviamente che gli “Hezb” abbiano condotto operazioni con tecniche terroristiche.
Secondo l’israeliano Intelligence and Terrorism Information Center at the Center for Special Studies (CSS) Hezbollah sarebbe responsabile fra l’altro,

– dell’autobomba all’ambasciata americana di Beirut del 18 aprile 1983, (63 vittime)
– dell’autobomba contro le caserme dei marines e del corpo dospedizione francese in Libano il 23 ottobre dello stesso anno (241 marines e 58 paracadutisti francesi uccisi).
– dell’autobomba del 20 settembre 1984 contro un sito annesso all’ambasciata USA a Beirut Est (30 morti)
– dell’attentato alla AMIA, un centro ebraico a Buenos Aires nel luglio del 1994 (86 morti)
– dell’attentato all’ambasciata israeliana sempre a Buenos Aires nel1992.

Per dovere di cronaca: i primi tre attentati furono rivendicati dalla Jihad Islamica, un gruppo inizialmente proveniente dai “Fratelli Mussulmani” (sunniti) ma che dal 1979 manifestò simpatie per la rivoluzione khomeinista e che da tempo è considerato legato all’Iran. Sempre per dovere di cronaca. Secondo il CSS l’ex presidente argentino Carlos Menem, incassò, per ordine di Kamenei, una tangente da 10 milioni di dollari su una Banca Svizzera per depistare le indagine sull’attentato all’AMIA.
Ma di fronte al bombardamento indiscriminato di Beirut Sud molti, anche in Occidente, iniziano a pensare che fra lanciare bombe dagli aerei su pulmini carichi di profughi, su ambulanze o ricoveri di donne e bambini, e portarle con le proprie mani o peggio con il proprio corpo, non esista una differenza morale o etica rilevante. Al massimo sono diverse le tecnologie adottate.
E’ qui che incomincia a crollare la costruzione mediatica, ma anche giuridica della “Guerra al Terrorismo”.

Partiamo dalla normativa:a livello di Assemblea delle Nazioni Unite nel 1994 si definisce il terrorismo come degli: “Atti criminali intesi o calcolati per provocare uno stato di terrore nel pubblico in generale, o verso un gruppo di persone o particolari persone”.
Nel 1999 sempre l’Assemblea ONU, Risoluzione 54/164 al punto 3: “Ribadisce la propria assoluta condanna degli atti, metodi e pratiche terroristiche, in tutte le forme e manifestazioni, in quanto azioni che mirano alla distruzione dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della democrazia, minacciano l’integrità territoriale degli Stati, destabilizzano i governi legittimamente costituiti, colpiscono il pluralismo della società civile e pregiudicano lo sviluppo economico e sociale degli Stati”
Basterebbero queste due citazioni a dimostrare che il bombardamento del Libano è stata una azione terroristica. Non solo nel metodo ma anche nel merito. Seymour M. Hersh, il giornalista americano che scoprì la strage di My Lay in Vietnam, ha scritto su The New Yorker del 21 agosto che l’attacco al Libano era stato preparato da molto tempo prima e con il pieno consenso del Governo Americano. Non solo: “Secondo un ex membro dell’intelligence israeliana, il piano iniziale, così come schematizzato da Israele, prevedeva un massiccio bombardamento in risposta alla prossima provocazione degli Hezbollah. (…) Israele riteneva che prendendo di mira obiettivi come le infrastrutture del Libano, incluse le autostrade, i depositi di carburante, e perfino le strade normali e il principale aeroporto di Beirut, ciò avrebbe persuaso la maggior parte della popolazione Cristiana e Sannita del Libano a rivoltarsi contro gli Hezbollah”.Un magistrato direbbe che la fattispecie del reato di “terrorismo”, così come descritto dalla risoluzione dell’Assemblea dell’ONU si applicherebbe perfettamente al comportamento israeliano.Nonostante gli “Hezbollah” possano essere considerati una organizzazione “terroristica”, ciò che è apparso evidente nei giorni scorsi è che la differenza fra “terrorismo” e “terrorismo di Stato” è estremamente labile. Anzi inesistente.

Pare che agli americani i quali, dopo la strage di Qana, chiedevano a Olmert di limitare i danni civili, egli abbia risposto irritato “E voi cosa avete fatto in Kossovo! Lì non subivate neanche il lancio di una katjuscia, e avete massacrato diecimila civili!”
Non c’è dubbio, la nostra politica è fatta da gentiluomini di vecchio stampo.
Gli attentati di Londra avrebbe potuto rilanciare la “visione classica” del terrorismo islamico: aerei carichi di civili che esplodono in aria. Ma ogni giorno che passa anche la stampa inglese non nasconde un certo scetticismo. Qualcuno l’ha ironicamente chiamata la “strage dei biberon” per il gran numero di biberon finiti nei cestini durante la ricerca di esplosivo liquido. Ma è proprio l’esplosivo liquido a costituire un problema. The Royal Society of Chemistry, una autorevole associazione scientifica inglese ha pubblicato sul suo bollettino Chemistry World un articolo di B.Perks e K Sanderson che solleva molti dubbi sulla possibilità di utilizzare esplosivo liquido sugli aerei. In breve, gli esplosivi liquidi più conosciuti sono la nitroglicerina e il triacetone triperoxide (TATP), che non è propriamente un esplosivo liquido, ma è un solido proveniente dalla combinazione di componenti liquide. L’idea di portare nitroglicerina su un aereo è semplicemente folle: esploderebbe durante i controlli a terra, ad esempio quando passa sotto i raggi X, se non addirittura durante il trasporto in aeroporto. Il TATP sembra sia stato usato negli attentati alle metropolitane di Londra lo scorso anno, a detta dei laboratori che hanno svolto le indagini su un campione rimasto inesploso. Ma introdurre le componenti liquide del TATP in aereo e produrlo nella “toilette” dell’aeroplano è altrettanto improbabile. Sono necessarie “basse temperature e tutta l’operazione va effettuata in una soluzione acquosa”.

Gli obiettivi geopolitici.

Sempre secondo Seymour Hersh “l’obiettivo a lungo termine dell’Amministrazione USA era di aiutare la nascita di una coalizione Arabo-Sunnita — comprese nazioni come l’Arabia Saudita, la Giordania, e L’Egitto — coalizione che si sarebbe dovuta unire nella “pressione” degli Stati Uniti e dell’Europa contro il predominio dei mullah Sciiti in Iran.
Questo, però, se Israele avesse vinto sul campo in modo incontrovertibile. Esattamente il contrario di quanto è successo.
Pare che la stessa Amministrazione Bush si sia divisa a un certo punto al suo interno, fra la posizione di Cheney, favorevole ad appoggiare a oltranza Israele, e quella di Condoleeza Rice. La Rice, dopo aver consentito, attraverso la sciagurata “Conferenza di Roma”, il proseguimento dell’offensiva israeliana, si è accorta dell’errore commesso e ha addirittura chiesto al Presidente di poter aprire un tavolo di trattativa con la Siria, cercando un ruolo di mediazione. Donald Rumsfeld buttava fumo dal naso: pur odiando gli Hezbollah si era reso conto che, se le milizie scite irachene avessero attaccato le “sue” truppe in Iraq, la situazione sarebbe volta al peggio. Rumsfeld era in alla Casa Bianca nel 1975, quando le truppe americane si ritirarono dal Vietnam. Non voleva ripetere l’esperienza.

Si potrebbe ironizzare a lungo sulle strategie americane in Medio Oriente, sui goffi tentativi di governare i “signori della guerra” in Afghanistan, sui tentativi di alleanza prima con gli Sciiti e poi con i Sunniti in Iraq, sulle “relazioni pericolose” con la famiglia saudita, e così via, fino al fiasco libanese.
E però questa immagine degli americani adolescenti malcresciuti, affetti da sindrome di Peter Pan, ignoranti di storia e di cultura è uno stereotipo un po’ troppo logorato e sostanzialmente falso. Ad esempio la trasformazione della resistenza all’occupazione USA nella Guerra Civile Irachena è stata un’operazione studiata in gran parte a tavolino . L’utilizzo dell’ala qa’edista di Zharkawi (chiunque esso sia stato) è stata probabilmente una grande operazione di intelligence. Non a caso l’amministrazione americana diede sin dall’inizio gran risalto alla presunta lettera di Zharkawi alla dirigenza di Al Q’aeda , in cui si sosteneva la guerra civile contro gli sciti, chiamati eretici “sabei”, lettera diligentemente riportata dal sito “New American Century” http://www.newamericancentury.org/middleeast-20040212.htm
E anche durante la guerra in Libano, guarda caso Ynet, agenzia israeliana, riporta le dichiarazioni dello Sceicco Safar al Hawali, antico maestro di Osama Bin Laden, il quale definisce “il Partito di Dio” (Hezbollah) come “il Partito di Satana” e dichiara di aver emesso una fatwa per vietare ai credenti di sostenere in qualsiasi modo gli Hezb.

Storicamente gli americani sono esperti di guerre etnico-religiose, fin dalle Guerre Indiane del tempo della frontiera, alla conquista delle Filippine, al Vietnam, con l’utilizzo della minoranza Hmong, alla Jugoslavia, alla guerra in Afghanistan, con il conflitto fra tagiki, ukbeki, azeri e pashtun.
L’ipotesi di una “dissociazione” dell’Iraq in una federazione di Stati (2) certo comporterebbe vantaggi e svantaggi: Uno dei problemi più complessi è la concentrazione delle risorse petrolifere dei campi di Kirkuk nell’area a prevalenza curda. Le relazioni con la Turchia diverrebbero certamente più tese.
L’ipotesi di uno stato unitario “pacificato” a prevalenza Sciita è però ancor più pericolosa per gli USA.
In Iraq i partiti di estrazione Sciita di fatto monopolizzano il governo e sono per adesso indispensabili agli americani per il contenimento della guerriglia, soprattutto di estrazione “baathista”-sunnita. In Libano gli Hezbollah sono direttamente collegati all’Iran e controllano l’intero Sud del Libano, esprimono membri del governo libanese e raccolgono il 28% dei consensi elettorali; in Palestina, area ad assoluta maggioranza Sunnita, l’Iran controlla almeno un gruppo della resistenza, la Jihad Islamica, e mira a diventare il paese di riferimento per le ali più oltranziste del movimento palestinese, dopo l’azzeramento della dirigenza di Hamas effettuato dagli israeliani. Non bisogna dimenticare infine che il gruppo dirigente siriano che fa capo a Bashir Assad è anch’esso parte della Sh’ia, anche se di una setta particolare come gli alawithi. I musulmani Sciiti nel mondo sono ormai 130 milioni, la maggioranza in Iran, il 60% in Iraq, il 30% in Libano. Ma sono presenti ormai anche in Pakistan, in Palestina e persino nella culla dell’ortodossia Sunnita ottomana: la Turchia.

Il “Terzo Fronte” appare indubbiamente il più duro. Ed è proprio lì che vogliamo inviare le nostre truppe. Viste le scarse risorse di cui dispone il nostro malconcio paese e la miseria prossima ventura che quel menagramo di Tommaso Padoa Schioppa non cessa di ricordarci ogni volta che apre bocca, invece di militari costosi quanto inutili, non sarebbe meglio mandare che so io Emergency, la Protezione Civile, un po’ di società di ingegneria e costruzione per avviare la ricostruzione di un paese di cui avremmo dovuto impedire la distruzione? Lasciamo ai Parà francesi il compito di interposizione. Ché sul Libano hanno qualche responsabilità storica maggiore delle nostre.

NOTE DI CARMILLA:

1) Si vedano gli articoli di José Steinsleger e di Lara Deeb su Rebelión.
2) Ipotesi già contemplata come quasi inevitabile in un libro scritto prima dell’invasione dell’Iraq: Sandra Mackey, The Reckoning. Iraq and the Legacy of Saddam Hussein, W.W. Norton & Company, New York-London, 2002.

(CONTINUA)