di Paolo Chiocchetti

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La risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la decisione del governo italiano di partecipare con alcune migliaia di soldati alla forza internazionale di interposizione nel sud del Libano sembrano essere accolte favorevolmente da larga parte del mondo “pacifista”, secondo quanto riferito da Repubblica di oggi (“Stavolta i pacifisti danno l’ok”, p. 11). La tavola della pace ad esempio afferma in un appello sul proprio sito: “Dopo 30 lunghi giorni di stragi e devastazioni il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha finalmente approvato una risoluzione che chiede a tutte le parti l´immediato cessate il fuoco. Nonostante questa risoluzione giunga con grande e ingiustificabile ritardo essa segna un importante passo in avanti.

Non è la fine della guerra ma può essere il primo passo concreto verso la sua conclusione. Le parole della Risoluzione dell´Onu devono diventare immediatamente realtà per le popolazioni di entrambi i paesi violentate dalla guerra. […] Il voto del Consiglio di Sicurezza dimostra ancora una volta che l´Onu è essenziale per la pace […]”.

Ora, se certamente giustificate sono la gioia e il sollievo per l’interruzione dell’attacco israeliano contro il Libano, il cessate-il-fuoco e la probabile ritirata delle truppe di Tsahal all’interno dei propri confini, sia la risoluzione ONU che la partecipazione a una futura missione militare nel sud del Libano non possono non sollevare almeno due interrogativi.

Il primo problema è dato dal significato di questa guerra e del suo cessate il fuoco. Quest’ultimo è l’esito di una netta sconfitta militare sul campo patita da Israele da parte della resistenza libanese e rappresenta la “via di uscita” onorevole predisposta da Stati Uniti e Francia per permettere ad Israele di ritirarsi senza dover ammettere il fallimento dei propri obiettivi di guerra. Il piano israeliano, che secondo le informazioni confidenziali raccolte da Seymour Hersh sul New Yorker del 21 agosto era stato preparato e concordato con l’amministrazione Bush prima di luglio (per essere sferrato al primo incidente) con l’intento di “alleviare le preoccupazioni per la sicurezza di Israele ed anche servire da preludio ad un potenziale attacco preventivo americano per distruggere le istallazioni nucleari iraniane”, è scattato utilizzando come “casus belli” il rapimento di due soldati israeliani da parte di Hezbollah il 12 luglio nei pressi del confine israelo-libanese. Sembra che il rapimento sia avvenuto in realtà all’interno dei confini libanesi, dato assolutamente nascosto dalla propaganda mediatica occidentale (vedi Trish Shuh, “Operation ‘Change of Location’?”, su Counterpunch, 15 agosto). Sta di fatto che la “risposta” di Israele è stato il lancio di un mese di bombardamenti violentissimi e indiscriminati sui villaggi e sulle infrastrutture di tutto il Libano (utilizzando, si sospetta, anche armi chimiche e altre armi non convenzionali) che hanno massacrato più di un migliaio di civili e colpito duramente la sua economia. Altro che “risposta sproporzionata”: si è trattato di una aggressione premeditata a uno stato sovrano, palesemente priva di relazioni con il rapimento del 12 luglio.
L’attacco israeliano, composto principalmente da operazioni aeree e in maniera subordinata da un’avanzata di terra verso il fiume Litani, aveva come obiettivo principale di piegare la resistenza di Hezbollah nel sud del Libano, che dopo anni di guerriglia nel 2000 aveva costretto il premier Barak a ritirarsi unilateralmente da quasi tutti i territori libanesi che Israele occupava dal 1978 (la prima vittoria mai conquistata da truppe arabe contro Israele) e che continua a rappresentare una spina nel fianco per Israele. Collegati all’obiettivo militare esistevano anche obiettivi di “prestigio”, ovvero riaffermare la superiorità dell’esercito israeliano recentemente incrinata da alcuni smacchi simbolici e dimostrare la determinazione del nuovo governo di unità nazionale (in particolare del vergognoso Amir Peretz, leader del Partito Laburista e ministro della Difesa). In secondo luogo esso, sempre secondo Hersh, sarebbe servito da monito e da prova generale nel braccio di ferro ingaggiato da Stati Uniti ed Iran sul dossier nucleare. Ebbene, Israele si è scontrato con una resistenza molto più tenace del previsto e si è dimostrato incapace sia di distruggere il potenziale bellico di Hezbollah (i cui lanci di missili contro Israele sono continuati inalterati fino alla fine) sia di invadere il Libano in profondità a costi umani e in mezzi accettabili (subendo importanti perdite da parte di una guerriglia estremamente efficace e determinata).
Come interpretare allora la prevista sostituzione dei soldati israeliani da parte di soldati internazionali e libanesi concordata in sede ONU? Il suo significato non è chiaro. E’ certo una vittoria politica di Hezbollah e del Libano, che sanziona il fallimento dell’invasione israeliana e assicura una protezione da interventi futuri di Israele. Ma la lettera della risoluzione ONU è piena di clausole stile “cavallo di troia”, che mirano (probabilmente in maniera velleitaria) a trasformare una sconfitta sul campo in una vittoria diplomatica per Israele. L’intenzione di Israele e degli Stati Uniti è infatti è chiara: utilizzare la forza multinazionale in una sorta di “guerra per interposta persona” per raggiungere esattamente quei due obiettivi che Israele non è riuscito a raggiungere con la forza delle armi. Ovvero:
1. garantire la sicurezza del nord del proprio paese dalle azioni di rappresaglia di Hezbollah attraverso la costituzione di una fascia di sicurezza nel sud del Libano. Funzione ricoperta fino al 2000 dall’Esercito del Libano Meridionale, milizia cristiana fantoccio al soldo di Israele, e che ora verrebbe invece svolta dalla comunità internazionale a proprie spese. Questo permetterebbe inoltre a Tsahal di proseguire con più tranquillità la propria terribile guerra contro i territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania (sulla quale è ormai calato il silenzio).
2. disarmare Hezbollah, che rappresenta la punta di diamante della resistenza libanese contro l’occupazione israeliana e l’unico vero deterrente contro reinvasioni o ricatti futuri.
Dalle parole di tutti i potenziali partecipanti alla forza multinazionale di interposizione traspare il desiderio di giungere, assieme all’esercito libanese, al disarmo di Hezbollah. Le possibilità che questo accada realmente sono molto ridotte. Sta di fatto che le truppe ONU, tra cui quelle italiane, potrebbero essere impiegate di fatto per proseguire la guerra contro Hezbollah sotto un mantello internazionale.

Il secondo problema è dato dal testo della risoluzione 1701 che, pur apprezzando il cessate-il-fuoco, andrebbe condannato duramente per quello che è: una palese falsificazione della realtà, una giustificazione ex-post dell’attacco israeliano e una risposta debole e ipocrita. In essa le Nazioni Unite attribuiscono implicitamente la responsabilità della guerra a Hezbollah, esprimendo “la propria viva preoccupazione per la continua intensificazione delle ostilità in Libano e in Israele a partire dall’attacco di Hezbollah contro Israele del 12 luglio 2006”, quando è probabile che l’incidente pretesto per la guerra sia avvenuto in territorio libanese, nel contesto di una persistente interferenza israeliana nella zona (occupazione delle fattorie di Shebaa, infiltrazioni di uomini, prigionieri…), ed è palese che Israele abbia lanciato un’operazione priva di qualsiasi relazione con tale incidente. Non condannano le azioni di Israele, non chiedono l’immediato ritiro delle sue truppe né il risarcimento dei danni inflitti al Libano. Infine, pur menzionando le richieste diplomatiche arabe (fattorie di Shebaa, questione dei prigionieri, integrità territoriale del Libano, necessità di una pace regionale complessiva basata sul rispetto delle risoluzioni ONU sui territori occupati nel 1967) — ed è un successo — le uniche clausole direttamente esecutive sono quelle contro Hezbollah: tutti gli stati dell’ONU si impegnano a non rifornire a gruppi o individui libanesi armi e assistenza militare (art. 15); le truppe ONU assisteranno l’esercito libanese nel creare tra il confine e il fiume Litani un’area libera da personale armato (art. 11e 8) e nel prevenire l’ingresso del materiale non autorizzato citato (art. 11 e 14); l’accordo di pace finale dovrà comprendere lo smantellamento di tutti i gruppi armati in Libano (art. 8). Lo stesso cessate il fuoco è intollerabilmente precario ed asimmetrico: mentre Hezbollah è tenuto a cessare immediatamente tutti gli attacchi, Israele è tenuto a cessare immediatamente le sole operazioni militari offensive (lasciando la porta aperta alle azioni più varie, purché intese come difesa preventiva).

Tra i giornalisti e i politici europei, compresi quelli della sinistra radicale, è possibile notare distintamente una sorta di sollievo, oltre che per la sospensione delle ostilità (di cui mi rallegro anch’io), anche per l’insperato “risveglio” dell’ONU. Finita l’epoca dell’unilateralismo, si dice, si torna alle missioni militari multilaterali dei “caschi blu” sanzionate dal Consiglio di Sicurezza — per definizione pacifiche, umanitarie, quasi nonviolente. Ma il giudizio politico su un’operazione militare non può dipendere dal colore del baschetto dei suoi combattenti, deve dipendere dai suoi obiettivi. Quali sono gli obiettivi fondamentali della missione in Libano? Garantire la sicurezza di Israele e indebolire, possibilmente sciogliere, Hezbollah. Le possibilità concrete di realizzarli sono deboli, a meno che i partecipanti non vogliano fare di questa missione una nuova Somalia, e la missione potrebbe quindi risultare in ultima analisi relativamente innocua. Ma i suoi obiettivi sono profondamente partigiani, sbagliati e non condivisibili. Stupisce che il movimento pacifista, invece di fornire alle grandi potenze occidentali (che stanno alla radice di tutti i problemi mediorientali, a partire dalla politica coloniale e dalle persecuzioni e sterminio degli ebrei europei fino ad arrivare agli attuali giochi di influenza sulla pelle delle masse arabe) un credito che non meritano, non si mobiliti per la fine delle ingerenze imperialistiche in tutto il Medio Oriente, una pace giusta e duratura a livello regionale ed in particolare in Palestina/Israele e per una reale alternativa di società a livello globale.