di Riccardo Valla
CAPITOLO TREDICESIMO
— Una cosa non mi è chiara, signorina Sophie — chiese Londong, mentre raggiungevano l’auto. — Perché era tanto offesa con suo zio?
La donna lo guardò con una strana luce negli occhi. — Mi hai fatto impazzire per tutto il giorno, ma adesso siamo soli, finalmente… Via, non fare il timidone, il tuo amico è lontano… Cosa preferisci? Ti bacio le palline o facciamo l’amore?
Londong la guardò con sospetto. — Curiosa frase… Allora, cosa le ha fatto suo zio?
— Niente, maledizione! — sbottò lei. — Dopo tante promesse… vederlo nel nostro salotto, tra un coro di “daglielo duro, daglielo mollo, falle tremare le vene del collo”… ho visto che si stavano … oh, ho capito che…
— Che trombavano? — Londong alzò le spalle. — Un comune errore. Quella era la trombata sacra, il semplice simbolo di una trombata, la quale a sua volta è soltanto il simbolo delle Nozze Divine…
— Ossia?
— La fusione dei due princìpi, maschile e femminile. L’Ardhanarishvara degli indiani, parte Shiva e parte Parvati, uniti ma distinti. Va detto che è un’unione meno forte di quella di due maschi, naturalmente, e ce lo insegna Platone. Comunque, trombandosi volevano solo simboleggiare due che si trombano.
— Sì, ma si trombavano, loro!
— Bah, che importa? Pensi al simbolo, signorina, non al fatto materiale! Il particolare che il rito in sé fosse analogo all’atto che volevano rappresentare è solo un caso fortuito, da associare al carattere metonimico anziché metaforico preso dalla particolare rappresentazione. Qualunque trombata può simboleggiare una trombata, è ovvio, ma lo studioso non si accontenta dell’ovvio e cerca la regola. E poi, per la legge del sineddocché, la parte corrisponde al tutto, e una donna non può essere soltanto “un poco” incinta, esattamente come prendersene in culo un pezzetto è come prendersene in culo una spanna…
— Sì, sì, ce n’era almeno una spanna! Questo discorso mi eccita da pazzi, dài, grattami la fica! — Sophie gli prese la mano e se l’accostò contro l’inguine.
Imperturbabile, Londong abbassò gli occhi sulla mano. — Anche questo è un errore. Come dico alle mie studentesse, la fica deve essere vista come solo il simbolo della fica, la fica di oggi è il simbolo della fica dell’avvenire. L’immagine di Priapo era una minaccia contro i ladri: allo stesso modo, mostrare le fiche è simbolicamente far fare da fica alla mano, per cui si dà del segaiolo a un’altra persona. Ma la fica è l’inverso dell’uccello, perché simbolicamente il dentro è come il fuori, in base alla coincidenza degli opposti. Analogamente non c’è differenza intrinseca tra il davanti e il dietro…
Da una siepe accanto all’auto giunse in quel momento una voce: — A’ Sophie, nun je crede, vuole il culo!
— Maledetti ragazzini! — esclamò Teadrinker, dietro di loro. — I figli del vicino sono sempre qui a rubacchiarmi la frutta, ma se li pesco! — Raggiunse i due e rivolse loro un largo sorriso. — Avete dimenticato il tabulato delle telefonate e venivo a portarvelo. — Si accostò alla ragazza e aggiunse, sottovoce: — Se Robert non le ha mostrato lo stemma del nostro club, glielo descrivo io: due mele con la scritta “Il culo sarà la fica dell’avvenire.”
Sophie arrossì e lo guardò con odio.
*
— Madame Pâtissière? Sono l’ispettore Fouché, è per l’indagine sulla morte del povero monsieur Sommelier, avrà saputo… Sì, certo, so che non c’era nessun rapporto tra voi, ma sono qui nel suo studio al Louvre e sto esaminando il suo diario. Ho trovato un appunto, la nomina erede delle sue carte. Ascolti: “In caso di incidente, desidero che le mie carte siano affidate alla mia amica d’infanzia, madame Madeleine Pâtissière, per la sua raccolta di souvenir”. … Quante sono? Oh, non molte, un paio di buste che erano dentro il cassetto… Se le ho aperte? No, del resto sono effetti personali e a giudicare dalle buste sono state chiuse due o tre anni fa, non credo abbiano rilevanza per l’indagine. Posso portargliele, ho qui una volante… Ah, se passa lei, meglio ancora… Tra un paio d’ore? Certo. Si faccia accompagnare dall’agente. Sono nell’ufficio del Conservatore… Au revoir, allora.
Si rivolse al piantone. — Porta un paio di sedie in più. Ho l’impressione che presto avremo visite.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO
— Attendo ancora una risposta da lei — disse Londong, non appena la minuscola 500 imboccò l’autostrada e si poté tornare a parlare.
— Che risposta ti serve ancora? — volle sapere lei.
— Perché è tanto offesa con suo zio?
— Te l’ho detto, il rituale…
— Signorina, mettiamo le carte in tavola — disse Londong, paziente. — Lei ha assistito per caso a una rappresentazione dell’Ifigonia, e io le ho citato alcuni versi. Ma lei ne conosceva vari altri… e in pochi istanti, quella notte delle Caterinette, non può averli imparati tutti. Anche quel “Ti bacio le palline” e un verso della tragedia goliardica. Quante volte l’ha vista recitare?
— Forse… negli anni precedenti… posso avere sentito qualcosa…
— Ammetta, lei s’è studiata le battute. E c’è una sola ragione per farlo. Lei doveva recitare nella parte di Ifigonia?
— Me l’aveva promesso!
— Espressamente?
— Me l’aveva fatto capire…
— Su, mi dica tutto, che paure ha?
— Nessuna! — rispose lei, irritata. — Ma… la recitavano sempre, ogni anno… da bambina li ascoltavo da dietro la porta, poi hanno smesso per parecchi anni… E ho visto quanto era Long Dong anche lui!
Sorrise a Robert, poi aggrottò la fronte e tornò a fissare la strada.
— Quando gli risolvevo quei suoi indovinelli, da bambina, mi diceva sempre: “Al momento giusto sarai la principessa”… io ci contavo… mi sono studiata i versi per conto mio. Sai… — con-tinuò — in alcuni di quei versi mi riconoscevo:
“Sognavo un cazzo forte da bambina
E supplicavo Giove ogni mattina
Che come un giorno capitò ad Eunica
Potesse capitarmi nella fica.”
E quando lo sognavo era quello dello zio!
— Era davvero così… maschietto? — chiese Londong, interessato.
— Assolutamente! Quando sono tornata, e li ho visti… gli ho detto: “Manda via quella donna, Ifigonia la faccio io! Sono anni che aspetto questo momento”. Ma lui mi ha risposto ridendo: “Ifigonia puoi farla, ma guarda che non chiava mai!”
Lanciò un’occhiata a Londong. — E l’ha detto senza neppure interrompere il… rito. Allora che dovevo fare? Gli ho gridato che era un bugiardo, ho sbattuto la porta e me ne sono andata! Che porco!
Londong scosse la testa, pensoso. — Tutto un enorme equivoco. Sommelier si riferiva alla principessa del Priorato di Sion, non alla principessa dell’Ifigonia. È tutto chiaro. Lei ha sviluppato un complesso di Elettra nei riguardi di suo zio, lo voleva rubare alla donna che non vedeva mai in faccia, la Nocchiera del Priorato. E le sue fantasie la hanno portata a elaborare il noto complesso di castrazione che…
— Risparmiami ‘sta supercazzola freudiana! — esclamò lei. — Che palle, le analisi del dottor Frou-Freud! L’invidia del pene ce l’aveva lui!
— Comunque, la cosa è chiarissima, dal punto di vista simbolico — precisò lo studioso, ostinato.
Sophie non rispose, intenta a parcheggiare di fianco al Louvre.
CAPITOLO QUINDICESIMO
— Il vescovo Pinna Gialla, suppongo? — chiese Fouché nel veder comparire il prelato.
— Tonnorosa — lo corresse lui. — Ho fondati motivi per ritenere che il mandante dell’omicidio del povero Sommelier stia per arrivare.
— Davvero? E chi è?
— Non l’ho mai visto. So soltanto che si fa chiamare il Magister. Mi ha convocato qui.
— E quale sarebbe il movente dell’omicidio?
— Un antico documento.
— Posso? — li interruppe una voce femminile, dal corridoio.
— Madame Pâtissière? — chiese il poliziotto.
— Madeleine per gli amici — rispose lei, distogliendo immediatamente lo sguardo dal vescovo.
— Abbiamo trattenuto il suo assistente, eminenza. — Fouché tornò a rivolgersi al religioso. — Stava salendo qui di soppiatto quando i miei uomini lo hanno fermato. — Fissò con severità Tonnorosa. — Sapeva, vero, che ha ucciso Sommelier? Mica un furtarello di candelieri.
— Il Magister… un ordine suo… — mormorò debolmente il vescovo.
— Lasciatelo — disse il commissario, rivolto agli agenti che accompagnavano Valjean nella stanza. — Per lui garantisce il vescovo, adesso non è più pericoloso. — Si rivolse al prelato: — Pinne Rosa, voi due siete qui per caso o avete risolto l’indovinello di Sommelier?
— Quale indovinello? — chiese Valjean, che si stava ancora massaggiando i polsi.
— Questo. — Fouchè porse un foglio al monaco. — Non ne ha capito niente, vero?
“Sotto l’automa antico
Il fiore della riviera
La sinistra inglese al posto del numero
Fondo fondo.”
L’automa è questo guerriero. — Indicò la statuina sulla scrivania. — Il fiore è il garofano, sinistra in inglese è left, abbreviata l e numero è n, una l al posto della n fa Garofalo, l’ebanista che ha intarsiato questa scrivania. Fondo fondo è poi doppio fondo. E infatti il cassetto ha un doppio fondo.
— E contiene? — chiese Tonnorosa, ansioso.
— Conteneva — lo corresse il poliziotto. — Questa busta che Sommelier ha voluto lasciare in eredità a madame Madeleine Pâtissière.
CAPITOLO SEDICESIMO
— E lei ha risolto quell’indovinello diabolico, ispettore? — esclamò il monaco, con ammirazione.
Fouché non spostò neppure la testa. — Può pensare se ho tempo da perdere in rompicapi del genere! Per chi mi ha preso, per un pensionato? Nella perquisizione ho estratto i cassetti dal mobile, come avrebbe fatto chiunque, e quando ho visto il doppio fondo ho capito la soluzione di quello stupido indovinello.
Ansimando per la fretta, entrò in quel momento Teadrinker. Nel vederlo, Madame Pâtissière scoppiò a ridere.
— È un po’ in ritardo per il rituale, professore! — E siccome l’inglese faceva finta di non capire, spiegò a Fouché: — L’abbiamo invitato varie volte al rito del sangreal, ma lui diceva: “Non posso, grazie, sono astemio”. Si credeva spiritoso.
— Be’ — intervenne Fouché — visto che il sangreal era in realtà la sangria, se non beveva…
— Ma la sangria è la Dea, è solo il simbolo del pinis and vagiàina… — esclamò Londong, pronunciandolo all’americana. Era giunto in quel momento sulla scia di Teadrinker. Fouché fece tintinnare le manette con cui giocava e il giovane professore si azzittì.
— Via, madame — rispose l’esperto inglese, galante. — Non volevate che interferissi con il Priorato di Sion!
— Eh, certo, per lui ci voleva quello di Sodoma — commentò a bassa voce la donna.
Intanto, il vescovo si era avvicinato al poliziotto e indicava Teadrinker. — Sospettavo che l’autore di tutte queste trame… che il cosiddetto Magister… fosse lui, e adesso ne abbiamo la conferma dalla sua presenza in questo luogo. E se vuole la prova definitiva, ispettore, si faccia dare il suo telefonino. Controlli le chiamate dal mio cell e da quello di André Valjean!
Rise. — L’ho smascherato facendogli credere che mi interessasse un documento, e lui era disposto a cercarlo in cambio di una somma sostanziosa. La pergamena era una vecchia proprietà del nostro Ordine, ma soltanto lui ne conosceva la storia. Infatti, nell’archivio manca l’intero fascicolo Da Vinci… e l’ultimo a consultarlo è stato un certo dottor Teadrinker, per la tesi di dottorato.
Signorilmente, l’inglese finse di non udire. Si volse a salutare Sophie.
— Mademoiselle Gournet. Posso presentarle…
— Oh, la conosco bene, la signorina Ti-Spio-dal-Buco-della-Serratura — ironizzò Madeleine Pâtissière. — È la piccola smorfiosa che guardava l’uccello a tutti, disturbava il rito, ci rovinava la concentrazione!
— Oh, adesso la chiavata si chiama concentrazione? — ribatté Sophie, sferzante. — Fai in fretta ad accusare, tu, che ti prendevi in corpo tutto quel ben di dio mentre io rimanevo a secco! — Guardò Tonnorosa. — Lei non lo sa, eminenza, ma mio zio era un porco!
— Ragazze, non litigate — intervenne Valjean, conciliante. Da alcuni minuti, l’alto monaco guardava con ammirazione i fianchi di Sophie e a sua volta era guardato con riprovazione dal vescovo.
— Mademoiselle Sophie Gourmet… monsignor Pinne Rosa… il dottor Robert Long Dong… — azzardò Fouché, tentando di gettare acqua sul fuoco col fare le presentazioni.
— Tonnorosa… — mormorò il vescovo.
— La “g” è muta… — protestò Londong.
Ma Sophie era già in piena rivolta. — Ci vieni a fare la morale proprio tu, che sei quello che lo ha ucciso? — gridò al monaco.
Ci fu un attimo di stupore, poi, avvampando di collera, la donna più anziana si gettò su Valjean per strangolarlo, gridando: — Lui!
Teadrinker e Londong cercarono di fermarla, afferrandola per le spalle. La donna però aveva già raggiunto il monaco… e dal collo del cipiglio trasse lei un gingillo d’or.
— Santo Cielo! Ma è mio figlio! — disse e poi lo strinse al cuor.
Il monaco la guardò con severità. — Sono tuo figlio? Da te nacqui un dì? Non si abbandonano i figli così!
— Cos’è, la canzone dei Gufi? — chiese Sophie. E cantò:
— “A Parigi un neonato
Un dì in chiesa si trovò
Era il figlio del peccato
Che la madre abbandonò…”
— Un peccadillo di gioventù… — spiegò madame, rivolta al vescovo. — Il figlio mio e di di Sommelier… quando eravamo seguaci di Fulcanelli… poi l’hanno trasferito… io non potevo allevare un figlio… Sai — continuò, rivolgendosi adesso al monaco — all’inizio avevamo tante speranze… volevamo che diventassi un grande alchimista. Ti avevamo persino chiamato Andrea Valentino Giovanni, Val-Jean, in omaggio all’autore delle Nozze chimiche, Johannes Valentinus Andreae, il fondatore dei Rosacroce…
— Basta! — gridò qualcuno dalla platea. — Sono stufo! Lasciatemi passare, mi alzo e me vado!
Si fermò nel corridoio tra le poltroncine.
— Anche la credulità ha un limite! — protestò. — Il sangue reale, la sangria, Maddalena Maria, la goliardia, l’Ifigonia, il Pus Dei, il Priorato… ma ci prendete per idioti? Di questo passo cosa tirerete ancora fuori, gli Illuminati di Baviera che marchiano a fuoco il culo delle vittime?!
— Che vuole, quello? — chiese Sophie, girandosi verso Fouché. — Lo conosci?
— Mai visto. — L’uomo scosse la testa. — Che se ne vada. Sai quanto ce ne frega, a noi!
(4-CONTINUA)