Una fotografia a due dimensioni, e anche lo schermo televisivo – né l’una né l’altro si possono percorrere. Da un muro all’altro di una via, curvi o inarcati, i piedi contro un muro e la testa appoggiata all’altro, i cadaveri neri e gonfi, che dovevo scavalcare, erano tutti di palestinesi o libanesi. Per me come per quello che restava della popolazione, la circolazione a Chatila e a Sabra somigliava a un gioco di “saltacavalletta”. Un bimbo morto, a volte, può bloccare le strade, che sono così strette, quasi sottili e i morti sono così tanti. Il loro odore è indubbiamente familiare ai vecchi: non mi infastidiva. Ma quante mosche! Se sollevavo il fazzoletto o il giornale arabo posato su una testa, le disturbavo. Inferocite dal mio gesto, arrivavano a sciami sul dorso della mia mano, cercando nutrimento.
Il primo cadavere che ho visto è stato quello di un uomo di cinquanta, sessant’anni. Avrebbe avuto una corona di capelli bianchi se uno squarcio (un colpo d’ascia, mi è parso) non gli avesse aperto il cranio. Una parte nerastra del cervello era a terra, accanto alla testa. Il corpo era accasciato in un mare di sangue, nero e coagulato. La cintura non era allacciata, i pantaloni tenuti su da un solo bottone. Piedi e gambe del morto erano nudi, neri, violacei, forse era stato sorpreso durante la notte o all’alba. Si stava mettendo in salvo? Era steso in una viuzza a destra, subito dopo l’entrata del campo di Chatila che è di fronte all’Ambasciata del Kuwait. Il massacro di Chatila si è compiuto nel brusìo o nel silenzio totale, se gli israeliani, soldati e ufficiali, sostengono di non aver sentito nulla, di non aver dubitato di niente mentre occupavano questo edificio, da mercoledì pomeriggio?
La fotografia non coglie le mosche, né l’odore bianco e greve della morte. Non racconta il salto che si deve fare quando si passa da un cadavere all’altro.
Se si guarda attentamente un morto, si può cogliere un curioso fenomeno: l’assenza di vita di questo corpo equivale a una assenza totale del corpo o piuttosto al suo ininterrotto distacco. Anche se ci si avvicina, si pensa, non lo toccherà mai. Questo se lo si contempla. Ma un gesto fatto nella sua direzione, che ci si abbassi verso di lui, che gli si sposti un braccio, un dito, ed è all’improvviso presente e quasi amichevole.
L’amore e la morte. Questi due termini, quando uno dei due viene scritto, si associano subito. Sono dovuto andare a Chatila per percepire l’oscenità dell’amore e l’oscenità della morte. I corpi, nei due casi, non hanno più nulla da nascondere: posture, contorsioni, gesti, segni, i silenzi stessi appartengono all’uno e all’altro mondo.
Il corpo di un uomo dai trenta ai trentacinque anni era steso sul ventre. Come se tutto il corpo non fosse altro che una vescica dalla forma umana, sotto il sole e a causa del processo di decomposizione si era gonfiato fino a tendere i pantaloni che rischiavano di esplodere alle cosce e alle natiche. La sola parte del viso che sono riuscito a vedere era violacea e nera. Un po’ sopra il ginocchio, sotto la stoffa lacerata, la coscia piegata mostrava una ferita. Origine della ferita: una baionetta, un coltello, un pugnale? Mosche sulla ferita e attorno ad essa. La testa più grossa di un’anguria – un’anguria nera. Ho chiesto il suo nome, era musulmano.
– Chi è?
– Palestinese, – mi ha risposto in francese un uomo sulla quarantina – Guardi quello che gli hanno fatto.
Ha tolto il velo che copriva i piedi e una parte delle gambe. I polpacci erano nudi, neri e gonfi. I piedi calzavano stivaletti neri, non allacciati, e le caviglie erano strette, fortemente, dal nodo di una corda resistente – la sua robustezza era ben visibile – lunga circa tre metri, che ho disposto in nome che la signora S. (americana) potesse fotografarla con decisione. Ho chiesto all’uomo se potessi vedere il viso.
– Se vuole, ma se lo guardi da sé.
– Mi aiuta a girargli la testa?
– No.
– L’hanno trascinato per le strade con questa corda?
– Non so.
– Quelli del comandante Haddad?
– Non lo so.
– Gli israeliani?
– Non lo so.
– I kataeb?
– Non lo so.
– Lo conosce?
– Sì.
– L’ha visto morire?
– Sì.
– Chi l’ha ucciso?
– Non so.
In tutta fretta si è allontanato dal morto e da me. Mi ha guardato da lontano, ed è scomparso in un vicolo laterale.
Quale vicolo prendere adesso? Ero strattonato da cinquantenni, da giovani ventenni, da due vecchie arabe, e avevo l’impressione di essere al centro di una rosa dei venti i cui raggi contenevano centinaia di morti.
Annoto quanto segue, senza sapere bene il perché, a questo punto del mio racconto: “I francesi hanno l’abitudine di usare questa scialba espressione: ‘lavoro sporco’; ebbene, come l’esercito israeliano ha ordinato il ‘lavoro sporco’ ai Kataeb, o agli hassadisti, i laburisti lo hanno fatto portare a termine dal Likud, Begin, Sharon, Shamir, questo ‘lavoro sporco’”. Ho appena citato R., giornalista palestinese, ancora a Beirut domenica 19 settembre.
In mezzo a tutte le vittime torturate, la mia mente non può disfarsi di questa “visione invisibile”: come era il carnefice? Chi era? Lo vedo e non lo vedo. Mi acceca gli occhi, e non avrà mai altra forma che quella disegnata da pose, posture, gesti grotteschi dei cadaveri divorati, sotto il sole, da schiere di mosche.
[Da: Jean Genet, Quatre heures à Chatila / Quattro ore a Chatila, a cura e traduzione di Marco Dotti, gli Euro, Stampa Alternativa, Roma 2002].