[Questa recensione a firma Valerio Marchi è apparsa su Carta n.10 (13 marzo 2006). Ora fa parte di un bello speciale dedicato dalla rivista a Valerio. La riprendiamo perché ci sembra contenere in nuce tutta la passione storica di Valerio, e la sua voglia bruciante di riportare discussioni e “voghe” intellettuali alla concretezza della vita (e della morte) di ogni giorno. In molti hanno criticato aspramente l’operazione di Telese, ma Valerio ha fatto di più, ha smontato il libro dall’alto (anzi, “dal basso”) di una conoscenza diretta dell’argomento, dei contesti, dei personaggi. La recensione è molto acuta, porta allo scoperto caratteristiche di Cuori neri che nessun altro aveva fatto notare, es. la mancanza di rispetto nei confronti di questi caduti di ultradestra e del loro vissuto: il più delle volte vengono descritti come “fascisti per caso”, in fondo impolitici, divenuti bersagli di azioni violente per motivi banali anziché per scelte compiute in piena coscienza.
Il recensore non si lascia fuorviare dal cursus honorum bertinottiano di Telese e si sforza di “stare sul pezzo”, di dire le cose come stanno (anziché come si dice stiano), di esprimersi anche in modo brutale, purché sincero. Ecco, forse, il vero messaggio di Valerio Marchi in molti suoi scritti: una scorbutica sincerità, sempre ancorata ai dati concreti, è tra i migliori antidoti al machiavellismo di certe ricostruzioni storiche a orologeria. WM1]
Cuori neri di Luca Telese ripercorre le tragiche vicende di 21 vittime “fasciste” del sanguinoso scontro politico che ha segnato l’Italia a partire dal 1970, con un approccio destinato a suscitare polemiche sia nella destra radicale che nell’intera sinistra, senza peraltro poter essere considerato – in questo suo “scontentar tutti” – semplicemente “obiettivo”.
L’impressione prevalente, scorrendo le pagine del libro, è infatti quella di un testo che utilizza un passato doloroso in funzione della più stringente attualità politica.
Del resto, basta leggere gli articoli di Telese pubblicati sul Giornale [si trovano anche sul sito www.lucatelese.it], per comprendere gli umori di un giornalista culturalmente organico al Polo delle Libertà, ansioso di avvalorare la tesi di un’Italia da sempre dominata dai “comunisti”, al punto da riscrivere un buon pezzo di storia e di spalmare di uno sgradito – anche ai diretti interessati – “buonismo” un’area che il Polo tenta di inglobare nel proprio blocco elettorale.
Telese, del resto, non ha come obiettivo rendere onore all’area nazional-rivoluzionaria, che anzi viene “devirilizzata” attraverso la minimizzazione sia delle sue gesta che della stessa militanza di gran parte delle vittime. Chi ha vissuto quegli anni sa come, a sinistra come a destra, la passione e l’impegno per la politica fossero totalizzanti, assoluti, con un senso del sacrificio che sfiorava addirittura il fanatismo. Sapevamo – sono nato nel 1955, quel ventennio l’ho vissuto intensamente ed in prima persona, ed ancora oggi non avverto la necessità di pentimenti o di abiure, ma soltanto di una doverosa assunzione personale di responsabilità collettive – i rischi che correvamo e che facevamo correre al prossimo. Eravamo giovani e forse incoscienti, ma certamente non inconsapevoli di quanto ci avveniva attorno. Anzi, era proprio la consapevolezza della durezza dello scontro a renderci, a nostra volta, duri ed a tratti spietati.
Se alcune di queste 21 vittime sono infatti totalmente inconsapevoli, come il piccolo Stefano Mattei o lo studente apolitico Stefano Cecchetti, nella maggior parte dei casi si tratta di militanti a tempo pieno, forgiati negli scontri di strada che allora – ed anche oggi, se a qualcuno interessasse leggere la realtà per quel che è – segnavano il paese. E l’opera di banalizzazione della passione politica che Telese compie è tale da mancare spesso di rispetto alle vittime stesse: nel caso di Emanuele Zilli si parla ad esempio di un suo avvicinamento alla Giovane Italia, che “Nel Sud ha un radicamento profondo, legato anche alle attività collaterali, ricreative o sportive. Spesso nelle sezioni del Msi c’è un accessorio ludico che a sinistra sarebbe considerato un segno di pericoloso degrado culturale: il flipper” (pagg.124-5); Mikis Mantakas “non vuole scegliere”, ma poi frequenta un bar vicino la sede del Fuan di via Siena dove conosce “Una ragazza, poco più piccola di lui e molto carina, che lavora come segretaria nella sede nazionale del Msi” (pag.220); Sergio Ramelli porta i capelli lunghi e diviene “forse proprio per questo un bersaglio” (pag.269). Anche Mario Zicchieri è una delle “vittime” dei flipper (pag. 334), mentre Angelo Pistolesi, fondatore di una sezione missina, viene definito “fascista per caso” (pag.426). Roba da far rigirare nella tomba chiunque abbia avuto un anelito politico e lo abbia pagato con la vita.
Ma i migliori – nel senso di peggiori – risultati l’autore li ottiene rivolgendo la propria attenzione verso l’intera sinistra e, soprattutto, verso gli intellettuali e la stampa democratica. L’Italia di Luca Telese non è quella che abbiamo conosciuto sulla nostra pelle, ma una sorta di piccola grande Bulgaria in cui i “comunisti” controllano tutto e tutti [Chi ci ricorda, questa impostazione?]
Così, già a pagina XII dell’introduzione, veniamo a sapere che “All’alba degli anni settanta il ghetto ideale e politico dentro cui è stato chiuso l’Msi diventa all’improvvisamente un fortino assediato”. Come se, negli anni cinquanta e sessanta, non si fosse registrata una sequenza impressionante di violenze fasciste, dagli assalti a colpi di bomba alle Botteghe Oscure fino allo strapotere squadrista in campo scolastico ed universitario che culmina con l’assassinio, a Roma, il 27 aprile 1966, dello studente socialista Paolo Rossi (che nel libro, a pagina 11, diviene inopinatamente “Walter Rossi”). Ma per l’ineffabile Telese, che accenna alla militanza politica nel Fuan del fratello maggiore di Carlo Falvella, gli anni sessanta registrano tutto un altro clima: “Un po’ di goliardia, qualche storia d’amore con le giovani amazzoni della destra” (pagina 33).
Insomma, chi lo dice che la pratica dell’antifascismo militante sia nata dalle diffuse violenze squadriste, dai tentativi di golpe, dall’impunità dello stragismo, in un paese dominato dalla Dc, dai desiderata degli Usa, dai crimini e dalle complicità degli apparati di intelligence? Niente da fare: nell’Italia di Telese i fascisti universitari si dedicano alla goliardia e all’ippica, mentre i golpe sono soltanto delle semi-burlette (pagina 149 e seguenti) o dei semplici alibi per l’antifascismo militante (pagina 152).
Infine, l’impunità dello stragismo: che sì, ci sarà pure stata, ma affogata nel principale vezzo della magistratura (rossa?) e della polizia (rossa?) di evitare ogni problema giudiziario alle orde assassine della “sinistra extra-parlamentare”, sostenute dagli intellettuali (rossi) e dal giornalismo (rosso). Mancano soltanto le cooperative (rosse), che forse sono tenute da conto per il prossimo libro.
La sinistra non porta del resto fortuna al nostro ambizioso giornalista: sbaglia nell’analizzare gli slogan ( “Camerata basco nero etc.” era dedicato all’Arma e non ai fascisti, vedi pag.466), mentre a Roma sono i fascisti di Colle Oppio a disturbare le manifestazioni di sinistra dall’alto della balconata di San Pietro in Vincoli, che s’affaccia su via Cavour, e non il contrario (pag. 483).
Ma il top dell’imprecisione si raggiunge con il breve accenno all’assassinio di Walter Rossi, in cui in appena quattro righe di pagina 487 si sbaglia luogo (non Piazza Igea ma viale delle Medaglie d’Oro) e contesto (nessun assalto alla sezione missina di Balduina ma un semplice volantinaggio a più di 100 metri di distanza). Anche nel caso di Alceste Campanile, infine, è ormai dimostrata, contrariamente a quanto si scrive alle pagg. 603 e 605, la pista neofascista, con la confessione resa dell’estremista di destra Paolo Bellini. Ma nessuno sembra averne messo al corrente Luca Telese.