di Gabriele Ferraresi
[Quello pubblicato di seguito è uno stralcio, con intervista finale a Tommaso Labranca, della tesi Estetica popolare e giornalismo: indagine sul pubblico e sulla storia di Cronaca Vera, discussa nel 2006 da Gabriele Ferraresi. Le immagini di corredo sono ingrandibili cliccandoci sopra: vi consigliamo caldamente di farlo]

Cronaca Vera è un caso unico nell’editoria italiana; si tratta di un periodico popolare, settimanale, che si occupa principalmente di cronaca nera e casi umani nascosti negli angoli più reconditi della penisola. Si passa dal sanguinario delitto d’onore — rigorosamente commesso in Sicilia -, allo studioso — presunto tale — incaricato dalla Santa Sede di combattere il Maligno, rappresentato da Satana in persona, in Puglia. Sparsi tra le pagine, troviamo i fatti più disparati, dal barista bergamasco innamorato della sua Golf elaborata, all’aspirante attrice in cerca di fortuna invariabilmente discinta, all’incredibile storia dell’ultimo ippotrasportatore d’Italia.

Questa, la portata principale; il contorno è in grado di mettere a dura prova i palati più resistenti; un paio di pagine dedicate ai misteri dell’occulto, intitolate “L’angolo dell’inconscio” dove si profetizzano segreti della vita svelati da extraterrestri, annunci matrimoniali di donne residenti a Cuba desiderose di fuggire dalle braccia di Fidel, corrispondenze e annunci di carcerati prossimi alla libertà desiderosi di ricominciare una vita nuova, angoli della posta dei lettori dedicati alla salute — “Dottore mi dica”-, al sesso —“I Misteri del Sesso”— o a piccoli problemi legali o pratici -“I vostri problemi”- . Il condimento prevede anche programmi televisivi delle reti nazionali — con un’impressionante veste grafica ferma agli anni ottanta nei loghi delle sei reti nazionali -, commemorazione di defunti — anch’essi spesso deceduti lustri fa -, felicitazioni per nascite, responsi grafologici, previsioni di numeri del lotto. Al primo impatto “Cronaca Vera” è visivamente violento, quasi disturbante; la copertina propone solitamente — ora non più, come vedremo nei capitoli successivi – corpi femminili seminudi accompagnati da titoli interminabili e urlati, come; “Rispettato parroco che vive nell’assoluta povertà — diffondendo il messaggio della “preghiera del cuore” — arrestato con l’infamante accusa DI ATTI DI LIBIDINE AI DANNI DI UNA TREDICENNE”; il mio maiuscolo cerca di riprendere le dimensioni dell’enorme carattere utilizzato.
I colori combattono una guerra che non vedrà vincitori; il bianco e nero delle immagini abbinato al rosso e al giallo utilizzati per i titoli e al grigio utilizzato come sfondo per alcuni articoli, compongono un ensemble quasi futurista.
Poco al di sotto del nome della testata, la sottolineatura; “Settimanale di fatti, attualità e politica” contenente un piccolo falso; trovare tracce di cronaca politica tra le pagine di Cronaca Vera è come avventurarsi alla ricerca di spiedini di maiale alla Mecca durante il pellegrinaggio annuale alla Ka’Ba. In realtà negli anni ’70, Cronaca Vera fu ingiustamente accusato di essere un giornale legato all’estrema destra. Per gli accusatori il capo d’imputazione più grave era la propaganda subdola di Cronaca Vera, che travestito da settimanale di cronaca e attualità, si schierava dalla parte delle destre, senza dichiararlo apertamente. Per non incorrere in guai peggiori, si aggiunse sotto la testata, la denominazione “Settimanale di fatti, attualità e politica” e la questione si risolse. La politica in realtà è di fatto completamente esclusa dalle pagine del settimanale fatta eccezione per alcuni degli editoriali intitolati “Momento” firmati dal direttore del giornale sotto pseudonimo, editoriali in grado di dare voce all’immaginario dell’uomo della strada, l’eroe comune nel significato a lui attribuito da De Certeau.
Lo scrittore Tommaso Labranca si è occupato per primo di questo settimanale, già nel 1994;

Diffusa tra immigrati italiani in tutte le nazioni, Cronaca Vera è arrivata lì anche dove la Farnesina non giungeva; oggi la si trova alla libreria del Beaubourg come allo spaccio aziendale Volkswagen. L’impatto di Cronaca Vera è notevole sin dall’inizio, sino dalla copertina modulare (…) passando all’interno si resta colpiti dai caratteri usati nella composizione: tutti bastoni, ma moltiplicati in un irresistibile avvicendarsi quasi psichedelico di dimensioni e inclinazioni (…)

La diffusione di Cronaca Vera è effettivamente impressionante, transnazionale; batte sul tempo qualunque fenomeno di mcdonaldizzazione, diffondendosi a macchia d’olio sul globo terracqueo già a metà anni ’70. Con gli esempi citati si resta in piena Europa, ma Cronaca Vera arriva ovunque nel mondo ci sia o ci sia stato un emigrato italiano, ed è tutt’oggi uno dei giornali italiani più venduti all’estero, senza finire di certo nelle rassegne stampa internazionali di “Le Monde”, ma probabilmente finendo in molte più case di “italiani all’estero” di quanto ci finiscano il “Corriere della Sera” o “La Repubblica”.
Il tono, la linea editoriale, il linguaggio del giornale sembrano costruiti appositamente per compiacere il lettore più disimpegnato; la titolazione non lascia scampo. A pagina 3 del numero 1716, titolo a caratteri cubitali; “ARRESTATO IL MAROCCHINO CHE STUPRAVA LE VECCHIETTE”, con abbinata immagine del presunto colpevole ingrandita a dismisura. Si tratta di un fenomeno che Labranca definisce “sgranamento garantista”;

(…) ma l’elemento grazie al quale Cronaca Vera non potrà mai cadere nell’oblio è quello che si potrebbe definire sgranamento garantista. Vittime e assassini, pie missionarie e delinquenti incalliti, tutti ricevono lo stesso trattamento fotografico. La tecnica è precisa e personalissima: si prende una foto tessera in bianco e nero, realizzata rigorosamente nelle apposite cabine automatiche che si trovano in metrò o nelle stazioni e la si ingrandisce almeno del 500%, con conseguente esplosione della grana. L’effetto è assicurato; anche gli occhi più innocenti appariranno torvi, ogni pelo di barba raggiunge dimensioni da baobab, ogni graffio assume gravità di sfregio.

Un dato interessante su Cronaca Vera è la totale mancanza di pubblicità di beni di consumo. Niente Barilla, niente Fiat, niente Coca-Cola. Gli unici spazi commerciali sono riservati a telefoni erotici, chiromanti e lottologi che offrono consultazioni telefoniche a pagamento. Come mai? Il direttore del giornale, Giuseppe Biselli risponde così;

“Io potrei anche avere la pubblicità del Dash o del Mulino Bianco…ma se me la offrono vuol dire che ho sbagliato a fare il giornale”

La parola chiave è identità. Cronaca Vera nasce nel 1969: da allora il tempo, si è fermato. Si è fermato nel linguaggio dei titoli— “Laureato trentaduenne fulmina a revolverate l’amico studente”, riuscite a immaginarlo nella cronaca di Milano del Corsera? -, si è fermato nella qualità delle immagini inserite, si è fermato nella qualità della carta — nettamente inferiore a quella dei concorrenti -, si è fermato nel prezzo. Forse nessun altro periodico è riuscito a conservare in maniera tanto perfetta e quasi maniacale la propria identità di partenza. Molto spesso sia quotidiani che periodici hanno dovuto adeguarsi al pubblico, mutando radicalmente forma, stile, impaginazione, orientamento politico; tra i quotidiani basti pensare a “Il Giorno”. Passato dai fasti degli anni successivi alla fondazione, quando tra le proprie firme poteva inserire inviati come Achille Campanile, e poi Franca Valeri, Vittorio Gassman, Jacovitti, Giorgio Bocca, Natalia Aspesi, Giampaolo Pansa, Bernardo Valli, Gianni Brera e Arrigo Levi, alla decadenza degli anni scorsi.
Il reale oggetto della ricerca non è però tanto il giornale in sé, quanto il suo enigmatico pubblico. Chi legge Cronaca Vera? Come lo legge? Quali sono le sue pratiche di lettura?
Purtroppo non esistono dati ufficiali su Cronaca Vera, e le stesse indagini Audipress non aiutano; quanto di più simile a Cronaca Vera si possa rintracciare nella indagine sulla lettura dei quotidiani e dei periodici di Audipress è “Visto”, ma siamo comunque lontani, innanzitutto perchè i temi trattati da Visto sfociano inevitabilmente nel gossip più infimo — mentre Cronaca Vera non tratta di celebrità nazional-popolari, ma, per l’appunto, principalmente di cronaca, frequentemente la più cruenta — e per una serie di altri fattori, dal linguaggio utilizzato — semplice ma contemporaneo — alla qualità della carta — decisamente migliore – .

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Cronaca Vera ha alcuni antenati degni di rilievo; “Crimen”, “Cronaca”, “Stop” e “ABC”.
“Crimen” e “Cronaca” sono due settimanali degli anni cinquanta-sessanta, che si occupavano principalmente di cronaca nera; racconti gialli, delitti, drammi vari, un accenno alle questioni di politica e poco altro, il tutto confezionato in maniera a volte piuttosto scadente. La svolta, ed il successo dell’editoria popolare avviene con tre pubblicazioni; “Stop”, “ABC” e “Grand Hotel”. “Stop” è il vero antesignano di Cronaca Vera; sia nella grafica che nei colori, i punti in comune sono molti, ma i temi sono differenti, in quanto “Stop” si occupa principalmente di quello che oggi definiremmo gossip, pettegolezzi, a voler essere raffinati si occupa di “favole moderne”, e raccontando le vita da sogno dei regnanti europei nel frattempo strizza l’occhio ad un erotismo che oggi ci appare teneramente infantile.
“ABC” è diverso; siamo sempre nel campo dell’editoria popolare, ma ad un grado di impegno diverso; la politica e l’attualità hanno un rilievo maggiore, c’è sempre un pizzico di eros all’acqua di rose, ma soprattutto, ad “ABC”, lavora Antonio Perria, personaggio chiave della storia di “Cronaca Vera” di cui riparleremo a breve. Un caso ancora diverso, ma sempre di successo nel campo dell’editoria popolare è “Grand Hotel”; composto di fotoromanzi a cui prendevano parte anche futuri divi della televisione e del cinema, ha un successo clamoroso e nei periodi di maggiore tiratura arriva al milione di copie. Sparirà inghiottito dal primato dell’immagine televisiva.
Manca però in questo quadro dell’editoria italiana sul finire degli anni 70, un periodico che si occupi specificamente di cronaca nera. La lacuna verrà colmata da “Cronaca Vera”; a finanziare l’operazione è Sergio Garassini, vulcanico imprenditore, attivo non solo nel campo dell’editoria — tra i suoi successi imprenditoriali ci fu anche un allevamento di branzini nella laguna veneta -. Garassini aveva già tentato l’avventura editoriale con “Kent” un periodico per soli uomini, una versione di “Playboy” all’italiana che rapidamente incorse nelle maglie della censura; è utile ricordare che a quel tempo non era poi così raro che per questioni di censura il direttore responsabile di un periodico o di un quotidiano finisse in carcere.
A “Cronaca Vera” Garassini riunisce vari giornalisti esperti di “nera” del tempo, come Carlo Gramegna e Nando Pensa, a dirigerli c’è Antonio Perria, giallista e giornalista, che in precedenza aveva lavorato come inviato a “L’Unità”, indagando sui casi più importanti di cronaca nera del tempo, come il delitto Montesi o l’omicidio di Mauro De Mauro. L’idea di Garassini è quella di realizzare un settimanale innovativo, con una grafica d’impatto, impostato principalmente sulla cronaca nera, di taglio popolare, e con bassissimi costi di realizzazione; quindi niente colore nelle immagini e carta di qualità inferiore alla norma. La scelta del nome non ha nulla di casuale; da un lato raccoglie l’eredità di “Cronaca”, altro periodico del tempo con cui condivide anche alcuni temi, ma non si tratta più di semplice cronaca, si tratta di “Cronaca Vera”, ed il cambio di prospettiva è totale. Le implicazioni e il risultato finale sono completamente diversi. Inserire nel nome stesso del giornale il termine “Vera” crea un rapporto di fiducia totale con il lettore, che come vedremo meglio successivamente, “crede” ciecamente a quello che legge nel giornale; se l’ha scritto “Cronaca Vera”, non può essere falso, non si chiamerebbe “Cronaca Vera”. Si tratta di una tendenza che non ha avuto in “Cronaca Vera” l’unico esempio; anche altri prodotti editoriali presentavano o presentano nel nome qualcosa che richiami alla “verità” o alla realtà, a qualcosa che non possa essere messo in dubbio o discusso. Pensiamo a “Visto”, storico rivale di “Cronaca Vera”, che nel titolo richiama la forza dell’immagine, che non può mentire — mentre sappiamo che non è così — in questo caso, se l’hai visto, è vero. Anche trasmissioni televisive degli ultimi anni si richiamano nel nome agli stessi principi; pensiamo a “Verissimo” rotocalco quotidiano di Canale 5, dove si tratta sia di cronaca, anche nera, che di pettegolezzi, e che impone al telespettatore, in una confezione patinata, qualcosa che va oltre la verità, qualcosa che addirittura travalica il vero, qualcosa che è “verissimo”. Naturalmente non c’è nulla di più lontano della realtà del telespettatore di “Verissimo” che “Verissimo” stesso, e la verità dei fatti e le storie che vi vengono narrate e rappresentate, ma non ha importanza, perché la forza evocativa del nome ha già compiuto la sua missione; far credere che sia tutto vero.
“Cronaca Vera” sceglie come pubblico di riferimento un pubblico spesso trascurato dagli editori; si cerca di realizzare un periodico più che popolare, dedicato ad un pubblico con una bassissima scolarità; sottoproletari, casalinghe, carcerati, emigrati, uomini delle forze armate, e di offrirgli un periodico che tenga conto dell’ideologia “dell’uomo comune”, se di ideologia si può parlare. Un periodico che nelle parole di P. F. doveva essere “un giornale da sconfitti”, un giornale che non era di destra, pur avendo una certa tensione al populismo, e che non era nemmeno di sinistra, pur cercando di annullare nello spirito ogni distanza tra lettori e redattori, creando un rapporto di fiducia e comunanza che sarebbe stato impossibile creare in qualunque altro giornale.
Lo stile di chi scriveva su “Cronaca Vera” doveva essere improntato su due fattori; l’aggressività nella titolazione e la semplicità della scrittura; se il primo problema veniva risolto — e viene risolto tuttora – con una titolazione sensazionalistica e urlata, il secondo presentava qualche difficoltà in più. Per dirla con un gioco di parole, non è per niente facile scrivere in maniera semplice.
Gli argomenti trattati dovevano essere quelli dimenticati dagli altri media; e quindi si scelgono storie di un’Italia di provincia, rurale, che ai tempi era molto più distante di quanto lo sia ora dalle grandi zone urbane. L’Italia del tempo era un paese profondamente diverso da quello che vediamo oggi, dove la distanza tra le grandi zone urbane e la provincia era sconfinata, un’Italia dove la televisione stava operando la “mutazione antropologica” che avrebbe cambiato il paese negli anni successivi;

Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane. L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo. Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria). Lo hanno accettato: ma sono davvero in grado di realizzarlo?

Il pubblico cui “Cronaca Vera” era rivolto non era un pubblico particolarmente interessato ad articoli lunghi e approfonditi, era un pubblico che si trovava più a suo agio con articoli brevi e immagini d’impatto, piuttosto che con lunghi editoriali di politica interna.
Ed infatti il giornale viene impostato proprio su questi canoni, con articoli lunghi intorno alle 70 righe, immagini a tutta pagina, titoli formati da un occhiello superiore che doveva essere un collegamento telepatico con la mentalità del lettore ( “Certa gente dovrebbe stare in gattabuia!” — “Dove sono finiti i valori di una volta?” ), e da un titolo principale enorme, frequentemente ad effetto (“Sessantottenne con il cervello tarlato si costruisce un rudimentale fucile(…) ” tanto per fare un esempio).
Dopo un primissimo periodo difficile, nel quale pare che “Cronaca Vera” non riesca decollare sul mercato dei periodici, le cose cambiano; le vendite iniziano a crescere — vedremo in seguito come – , e lo faranno per tutti gli anni settanta, restando stabili fino alla metà degli anni ottanta, e di lì in poi inizieranno a scendere. Le motivazioni sono molte, dall’avvento della televisione commerciale, alla sofisticazione dei gusti del pubblico; o semplicemente, alla fine di un’epoca.

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Extra
INTERVISTA A TOMMASO LABRANCA

tlats.jpgCronaca Vera è un fenomeno editoriale interessante, e non lo è da oggi. Negli anni passati lo scrittore Tommaso Labranca, ha indagato sul settimanale in questione all’interno di “Andy Warhol era un coatto; vivere e capire il trash”.
Per Aldo Nove, Tommaso Labranca è Dio . T-la, ricambia considerandolo il più grande scrittore vivente. Labranca attualmente conduce su PlayRadio un programma che lo costringe a risvegli antelucani, Plug & Play, dove con Lorenzo Campagnari si occupa di “Commenti non richiesti” ai principali fatti del giorno; scrittore, autore per la radio e la televisione, si è occupato di Cronaca Vera nel 1994 all’interno di “Andy Warhol era un coatto; vivere e capire il trash.” nel capitolo “Agiografie non autorizzate”; Cronaca Vera era in buona compagnia, tra Andy Warhol e “I Quindici”, insostituibile enciclopedia a volumi appartenente a un’epoca senza Wikipedia.

Una delle parole che ormai mi hanno definitivamente nauseato è la parola trash. Non la sopporto più; tu con un anticipo impressionante sei riuscito a decodificarne perfettamente le forme nel tuo libro, quando la parola trash era ancora solo una voce nel dizionario tra Trappist e Trauma: a distanza di dodici anni cambieresti o aggiungeresti qualcosa a “Andy Warhol era un coatto”? O addirittura eviteresti di scriverlo per evitare alla Storia di prendere la piega che ha preso?

L’unica cosa che farei è NON usare la parola trash perché così avrei evitato tutte le incomprensioni con cui mi sono scontrato dopo. Per me il trash è lo scarto che si ottiene tra l’intenzione che sta dietro le emulazioni di prodotti o personaggi di successo e il risultato effettivo. Purtroppo il mondo non la pensa così. Ci sono le giornaliste chic che considerano trash (o peggio kitsch) tutto quanto non serve a nobilitarle o tutto quanto abbia un vago riscontro popolare. Per cui Sanremo è trash e il festival della pizzica no. Si tratta di un atteggiamento che nasce chiaramente dall’ignoranza abissale di queste signore poco alfabetizzate e con forti complessi di inferiorità che sfogano arricciando il naso. Ci sono poi i ragazzetti poco più che ventenni che fanno rimare trash con tutto quanto esistente prima della loro venuta al mondo. Penso a certi piccoli dj che inseriscono nelle loro serate il momento-trash e suonano Califano. O certi cretinetti che esibiscono con orgoglio le magliette con Oronzo Canà, Fantozzi e Abatantuono. Poi c’è un comparto tipico dell’universo gay giovanile secondo cui è trash tutto quanto gli americani (e anche Arbasino) chiamerebbero camp: vecchie cantanti, elementi di moda eccessiva del passato, atteggiamenti sopra le righe. Ma nulla di tutto ciò è trash. A darmi particolarmente fastidio è l’atteggiamento di superiorità con cui questi personaggi trattano la materia “popolare”, sottolineando sempre il loro coinvolgimento momentaneo e a puri fini di divertimento. Io mi sono sempre detto immerso nel trash, sua parte integrante. Io sono l’emulazione fallita di Tom Wolfe. Quindi sono trash.

Negli ultimi anni la rivalutazione, a scopi prevalentemente commerciali, di ciò che un tempo si definiva cultura di serie B ha invaso vari settori della comunicazione; penso a programmi televisivi come “Stracult” per esempio, oppure ai vecchi film di Abatantuono offerti in abbinamento a “Oggi”, o anche a un negozio di Milano, Bloodbuster, che ha fatto la sua fortuna su film, poster e memorabilia di pellicole un tempo snobbate o stroncate dalla critica militante; credi che in tutto questo possa esserci una piccola fusione tra estetica dominante e estetica popolare alla Bourdieu? O semplicemente “i mercanti sono entrati nel tempio”?

In parte ti ho già risposto. A decretare il successo postumo di queste pellicole sono proprio quei ventenni sprovveduti che credono in tal modo di prendere in giro i “vecchi” usando i loro stessi materiali, i loro film, vestiti e così via. “Stracult” nasce dall’amore di Marco Giusti verso quell’universo anche se poi al pubblico quell’amore arriva deviato, appare come un invito a ridere delle schifezze del passato. Abatantuono è un caso particolarissimo. La comparsa del suo personaggio, il “Terrunciello”, causò l’effetto Calibano Davanti allo Specchio. Il popolo italiano si rese conto di essere tutto composto da terruncielli con coda di volpe e fiat coupè. Certo, come nel caso di Fantozzi, tutti ridevano pensando di vedere sullo schermo l’amico o il parente e mai se stessi. Però poi, tornati a casa, procedevano a far sparire le prove: la zampa d’elefante, la pettinatura finto-afro. Abatantuono segna davvero lo spartiacque tra l’Italia degli anni Settanta e quella degli anni Ottanta. Poi la scelta sciagurata di diventare un attore serio e gli scarsi risultati ottenuti hanno fatto in modo che il pubblico tornasse ad apprezzarlo e a richiederlo nella sua forma originale. Bloodbuster è un fenomeno a parte, l’unico luogo in cui gli appassionati di generi ben diversi dal trash, ossia pulp, gore, splatter eccetera, trova quello che cercherebbe invano nell’asetticità familiar-commerciale dei maledetti Blockbuster.

Alcuni autori, come Michel De Certeau ne “L’invenzione del quotidiano” o Shaun Moores ne “Il consumo dei media”, sostengono, in estrema sintesi, che l’uomo comune — una definizione che non mi piace particolarmente — è un bricoleur di significati testuali, non si adatta al testo, ma lo vive come un inquilino in affitto. E che come sostiene De Certeau; “(…) bisogna tenere presente la capacità presente in ogni soggetto, di convertire il testo tramite la lettura e di bruciarlo, come si bruciano le tappe(…)è sempre bene rammentare che non bisogna considerare la gente idiota.” Personalmente non sono d’accordo; tu cosa ne pensi? Hai fiducia nelle capacità di “guerriglia testuale” del pubblico?

Sono orgoglioso di non conoscere questi signori che sicuramente non avranno mai visto e analizzato “Champagne in paradiso” con Al Bano e Romina e quindi producono testi sterili pieni di bei termini che piacciono alle studentesse-cozze di Scienze della Comunicazione e che servono a farcire di nulla un discorso.
E comunque la gente è idiota come dimostrano le chat e gli annunci su Internet, i discorsi in palestra e durante gli happy hour, le telefonate che si ascoltano in radio e i testi degli sms che scorrono al piede delle trasmissioni su MTV. Altro che bricoleur di significati testuali.

Finalmente arriviamo a Cronaca Vera; un periodico unico nell’editoria italiana, bloccato nella grafica, nel linguaggio utilizzato, nel prezzo, nella qualità stessa della carta al 1969, anno della fondazione; come è nato il tuo interesse per C. V.?

Esiste un piccolo paese poco lontano da Varese che si chiama Casciago e che rappresenta la mia Combray personale. Lì è nato il mio interesse per il trash come emulazione fallita, osservando i gruppi di liscio che si esibivano nelle feste locali e che richiamavano nel nome le grandi orchestre romagnole. Ed è lì che vedevo la gente che alla domenica tornava a casa dalla messa con Famiglia Cristiana e Cronaca Vera arrotolati insieme sotto il braccio.
Ero molto piccolo allora e non capivo che dietro le foto dei pretini del settimanale paolino e le tette esibite sulla pessima carta dell’altro non c’era differenza, ma la stessa tensione al moralismo.
Famiglia Cristiana, ti parlo di quella degli anni Settanta, e Cronaca Vera erano due baluardi contro lo sfacelo del mondo moderno. Entrambi puntavano il dito contro drogati, adulteri, rapporti prematrimoniali, aborto, divorzio e altri grandi temi etici del decennio. Il percorso di Cronaca Vera era più tortuoso: mostrando le tette diceva nel contempo “che schifo queste ragazze senza dignità”.

Intervistando vari edicolanti in giro per Milano su Cronaca Vera, molti mi hanno confermato una fortissima riduzione delle vendite dagli anni ottanta ad oggi; in particolare un’edicolante di Stazione Centrale mi detto “Una volta ne vendevo 500 copie a settimana, adesso 15-20” mentre in Piazza Castello l’edicolante si è quasi offeso; l’ennesima prova della inesorabile sofisticazione dei gusti neoproletari? Secondo te, dove possono essere finite le 480 e rotte copie in meno? Cosa legge ora chi leggeva Cronaca Vera vent’anni fa?

Una parte di quei lettori oggi trova un comodo surrogato a Cronaca Vera nella tv. “Striscia la notizia” è il sostituto attuale di Cronaca Vera. Pensaci: ha le tette delle veline, il moralismo di certe campagne contro gli sprechi o i maghi, mette alla berlina i potenti. Il tutto confezionato con una carta luccicante e moderna. Settimanali come “Dipiù” sono la versione patinata di Cronaca Vera: ancora tette condite di miracoli, padripii, propensione al pulp (micidiale la serie di servizi sulle mestruazioni delle vip). Rispetto agli anni d’oro dei Cronaca Vera il popolo neoproletario ha sviluppato due nuovi fenomeni: una curiosità sempre più morbosa verso personaggi sempre meno interessanti e la convinzione di poter essere protagonista di questo grande spettacolo. Il lettore di Cronaca Vera era ben distinto da quello di Novella 2000, non era interessato alle gesta del jet set e non voleva essere protagonista: voleva solo osservare con una smorfia di disgusto le brutture del mondo. Salvo poi eccitarsi di nascosto per le foto e per la posta del dottor Kappa.

Cronaca Vera ha una delle sue peculiarità nel linguaggio e nella titolazione; cito da un numero a caso “Arrestato il marocchino CHE STUPRAVA LE VECCHIETTE”(il maiuscolo è per tentare di replicare le mostruose dimensioni della titolazione), “Laureato trentaduenne fulmina a revolverate l’amico studente”, “Dopo aver ammazzato la moglie colpendola alla testa con la mazzetta da muratore, l’ha lavata, profumata e vegliata per giorni”; uno stile costruito su misura per alimentare sentimenti di sicurezza o insicurezza sociale “dell’uomo comune” — e della donna comune – forse però su un canone di individuo che non esiste più da anni; tu cosa ne pensi?

Non esiste più? Evidentemente tu non hai mai letto “Libero” o “La Padania”. Lo stile scandalistico, urlato, maccarthiano, razzista è sempre quello. E anche il pubblico è sempre quello. O meglio, sono i figli di quel pubblico antico. Ma siccome la gente è idiota, non sa crescere, vanno a Sharm invece che a Igea Marina ma sono imbecilli, ignoranti e impauriti come i loro padri.