di Lucio Angelini
[I ricordi di Andersen non sono inventati da Lucio Angelini (nella foto a sinistra), ma tratti di peso dalla sua stessa autobografia.
Qui tutte le puntate di questo romanzo on line]
Cap. XX
“Da bambino, a Odense, quando andavo a teatro a seguire le rappresentazioni in tedesco, avevo visto ‘Le fanciulle del Danubio’, un’opera comica di Ferdinand Knauer, e il pubblico acclamava ogni volta l’attrice principale, a cui andavano gli onori e gli omaggi. Ai miei occhi, lei era la creatura piú fortunata della terra. Anni dopo, quando ero all’Università, mi recai un giorno in visita all’ospedale di Odense, e in una stanza abitata da povere vedove, dove, come all’ospizio, tutto l’arredamento consisteva in un letto vicino all’altro, con un armadietto, una sedia e un tavolo, vidi appeso sopra uno dei giacigli un ritratto femminile in una cornice dorata: l’ ‘Emilia Galotti’, di Lessing, che sfoglia una rosa. Ma la figura contrastava singolarmente con tutta la povertà circostante. ‘Chi rappresenta?’, chiesi. ‘Oh’, mi rispose una delle vecchie, ‘quello è il viso di madama tedesca’ e vidi una piccola donna, sottile e delicata, con le guance raggrinzite e vestita di un abito di seta liso, che un tempo era stato nero. Era la cantante famosa, che avevo vista nella parte di ‘Donauweibchen’ e che tutti applaudivano. Mi fece un’impressione indimenticabile e spesso mi tornò in mente. A Napoli, poi, avevo sentito la Malibran, la cui voce e recitazione superavano tutto quanto avevo udito, ma il mio pensiero non si staccava dalla povera cantante dell’ospizio di Odense. Entrambe le figure si fusero nel personaggio di Annunziata del romanzo che stavo scrivendo e di cui l’Italia ero lo sfondo: ‘L’improvvisatore’.
Il libro uscí nel 1835 e venne tradotto in tedesco con il titolo ‘Giovinezza e sogni di un poeta italiano’. Lo portai anche al principe Cristiano, il futuro Cristiano VIII. In Inghilterra fu tradotto da Mary Howitt. Dopo appena due mesi da ‘L’improvvisatore’, sempre nel 1835 apparve il mio primo fascicolo di fiabe, che, almeno all’inizio, ricevette accoglienze tutt’altro che incoraggianti. Alcuni si lagnarono che fossi regredito a un genere cosí infantile. Laddove mi aspettavo elogi e complimenti per la nuova direzione impressa alla mia attività letteraria, ricevetti soltanto biasimo. Diversi miei amici, al cui giudizio tenevo assai, mi consigliarono caldamente di abbandonare il campo delle fiabe, adducendo che me ne mancava il necessario talento, e che non era un genere adatto alla nostra epoca. Altri suggerirono che, se proprio volevo cimentarmi in quel settore, avrei fatto bene a studiare prima i modelli francesi. La rivista letteraria ‘Dannora’, redatta e diretta da J.N. Höst, pubblicò una recensione che mi afflisse non poco. Diceva, infatti: ‘Queste fiabe potranno divertire i piccini, ma è talmente improbabile che essi ne siano edificati, che chi scrive non può assolutamente garantire l’innocuità di una simile letteratura. Nessuno vorrà sostenere, infatti, che nel bambino si affini il senso delle convenienze a leggere di una principessa che nel sonno si reca cavalcando un cane da un soldato che la bacia. Quanto a La principessa sul pisello, essa appare non solo indelicata, ma addirittura sconveniente, in quanto il bambino può derivarne la falsa idea che una dama di cosí alto lignaggio debba essere cosí ridicolmente insofferente’. Il critico terminava augurandosi che l’autore non sprecasse altro tempo a scrivere fiabe per bambini.”
“Stento a credere a quello che mi dici! Proprio tu, Hans Christian Andersen!”
“Ci rimasi davvero male, lo confesso. Le fiabe continuavano a presentarsi alla mia mente con tale vivacità che non potei rinunciare a scriverne di nuove, ma per lunghi anni fui apprezzato piú all’estero che in patria. In compenso, durante il regno di Federico VI, venne disposta per me una sovvenzione annuale di ben 200 Specie e mi sentii comunque pieno di gioia e di gratitudine. Non dovevo piú, come spesso in passato, scrivere per sostentarmi. Avevo un appoggio sicuro in caso di malattia, e dipendevo in minor grado dagli uomini che mi circondavano. Cominciava un nuovo capitolo della mia vita, la mia vera gioventú, giacché fin allora era stata soltanto una lotta contro i marosi che mi sommergevano. Realizzai l’ ‘Album illustrato senza figure’, che ebbe una diffusione incredibile. Nel 1840 intrapresi un nuovo viaggio in Italia, di dove intendevo proseguire per la Grecia e la Turchia. A Norimberga vidi per la prima volta i dagherrotipi. Quando mi dissero che il ritratto sarebbe stato pronto in dieci minuti, mi sembrò una stregoneria, benché quell’arte fosse solo agli inizi, e ancora ben lontana dal punto a cui sarebbe arrivata in seguito. Il dagherrotipo e la ferrovia, le due nuove meraviglie dell’epoca, costituirono da sole un eccellente profitto del viaggio. Volai in treno fino a Monaco, dove rividi amici e conoscenti. Il 19 dicembre ero a Roma. Venne un terremoto, il Tevere inondò le strade, dove si andava in barca, e molti morirono per la febbre. In pochi giorni il principe Borghese perse la moglie e tre figli. Proseguii per Napoli, torturato dal mal di denti e dalla febbre. Sfuggii alla morte solo grazie a un tempestivo salasso, a cui fui sottoposto dal mio gentile ospite napoletano. Il 15 marzo partii per la Grecia su una nave da guerra francese, la ‘Leonidas’. Mi fermai ad Atene un intero mese, festeggiando il mio compleanno sull’Acropoli. Poi fu la volta di Costantinopoli, con le sue stupende moschee e il Serraglio fluttuante nella luce del sole. Ah, che vista meravigliosa!”
Cap. XXI
“Al ritorno in Danimarca, passai da Odense durante la fiera di San Canuto. Fuori Slagelse, la cittadina dei miei studi, feci un incontro che mi commosse profondamente. Da alunno in quella scuola avevo visto ogni sera il degno pastore Bastholm fare con la moglie la stessa passeggiata: dal cancelletto del loro giardino, su per il sentiero che passava per un campo di grano, e poi a casa per la via maestra. Ora, trascorsi molti anni, tornavo dalla Grecia e dalla Turchia, e passando per la strada vidi la vecchia coppia fare lo stesso tragitto per il campo di grano. Mi commossi straordinariamente. Di anno in anno avevano percorso il loro sentiero, mentre io avevo spaziato cosí lontano! Questo evidente contrasto mi occupò la mente in maniera singolare.”
“Avevi ormai avuto successo con le fiabe?”
“Sí, per mia fortuna. Proprio esse, infatti, in Danimarca, a poco a poco, avevano finito per essere poste incondizionatamente al di sopra di qualunque altra mia composizione. Nel mio primo fascicolo di fiabe, come ti ho detto, avevo ripreso, benché con stile mio, le vecchie storie udite da bambino: il tono in cui mi risuonavano nella memoria mi era parso il piú naturale, ma temendo che i critici colti potessero condannarlo, le avevo intitolate ‘Fiabe raccontate ai bambini’, per fornire al lettore una precisa prospettiva. In realtà le avevo sempre ritenute adatte tanto ai bambini, che ai grandi. Il primo fascicolo si era concluso con una fiaba di mia invenzione, ‘I fiori della piccola Ida’, che aveva sollevato minori critiche delle altre. Il barlume di approvazione con cui era stata accolta proprio quella fiaba mi aveva incoraggiato a scriverne altre, e l’anno seguente era uscito un nuovo fascicoletto, poi un altro ancora, contenente la piú lunga delle mie fiabe originali, cioè ‘La sirenetta’. Questa fiaba aveva avuto un tale successo che era diventata presto una consuetudine porre un mio libro di fiabe sotto l’albero di Natale. Il signor Phister e la signorina Iörgensen tentarono anche di leggerle a teatro, il che era una novità e un motivo di varietà in confronto ai soliti numeri di declamazione già uditi fino alla noia. Uno dei piú influenti critici tedeschi si dichiarò addirittura entusiasta dell’idea, aggiungendo che il pubblico danese doveva essere molto colto e raffinato per godere in tal modo del contenuto senza alcun apparato scenico. Non potevo desiderare di piú, ma mi impaurii. Temevo di non poter piú meritare un’accoglienza altrettanto lusinghiera con nuove opere. Nel 1844 terminai la fiaba drammatica ‘Il fiore della felicità’, con la quale mi ero proposto di dimostrare che la felicità umana non sta nella gloria immortale dell’artista, e neppure nello splendore della corona, ma là dove ci si accontenta di poco, e si ama, e si è riamati.”
Cap. XXII
“Nel 1840 avevo conosciuto Jennny Lind, la prima cantante di Stoccolma, ma fu solo nel 1843, quando tornò a cantare a Copenaghen, che diventammo profondamente amici. Posso dire che fu proprio lei a farmi intendere per la prima volta la natura sacra dell’arte. Fu lei a insegnarmi che bisogna dimenticare se stessi per mettersi al servizio di un fine superiore. Nessun libro, nessuna persona hanno operato su di me come scrittore in senso piú nobile di Jenny Lind. Se ripenso alla mia vita, mi sembra davvero una fiaba. Anche dal male è venuto il bene, dai dolori la gioia. È stata una poesia dai concetti profondi, quale non sarei mai stato capace di comporre. Sono davvero stato un beniamino della fortuna. Molti degli spiriti piú nobili e migliori della mia epoca mi hanno dimostrato una sincera amicizia, e cosí raramente la mia fiducia negli uomini è andata delusa. Anche i giorni piú tristi e amari hanno portato con sé i semi della felicità. Per quante ingiustizie abbia credute di patire, ogni duro colpo ha finito per rivelarsi benefico. Ricorda, dunque, che nel nostro procedere verso Dio, le amarezze e i dolori scompaiono, mentre le gioie restano, arcobaleno contro il fondo oscuro delle nuvole.”