di Giulia Gadaleta

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James Sallis, Drive, trad. Luca Conti, ed. Giano, 2006, pp. 160, € 14,00.

Driver, protagonista senza nome di Drive, è nell’America delle possibiltà, un ultimo. Destinato a una vita nei bassifondi da un destino familiare avverso, finisce a Los Angeles a fare lo stuntman. Diciamo che date certe condizioni di partenza, gli è già andata bene. Al di là della apparente mobilità della vita di Driver, fatta di continui spostamenti da un motel all’altro, con poco o nessun bagaglio, e di un lavoro veloce per eccellenza come quello dello stuntman, la sua vita è statica. Vive di una vita sommersa, conosce la parte che gli è concessa nel mondo: in fin dei conti ha avuto una possibilità, una chance, un dono: sa guidare da dio. E dunque il sogno americano, il regno dell’infinito possibile è solo una chimera.

Oppure come racconta Driver a Bernie Rose “un mio amico sostiene che la storia dell’America non è altro che la frontiera che avanza. Arriva fino al suo limite estremo […] non trovi più nulla, e il risultato è un gatto che si morde la coda”. Che poi è il pensiero dell’autore, diciamo noi. Driver, con fiducia, vive consapevolmente la sua parte. Poche amicizie e quasi nessuna donna. Driver ha trovato insomma un binario morto su cui portare la sua esistenza, le variazioni sono minime e quando sono troppo grandi portano scalogna e sventura. E infatti è quel che accade: in occasione di uno dei lavori sporchi che fa per arrotondare, resta impelagato in una faccenda sporca, con un bottino di quattrocentomila dollari e un sacco di gente che cerca di fargli la pelle.
Veloce e abile come la guida di Driver, la storia procede come in una sequenza cinematografica (non a caso ne verrà tratto un film). Presente, passato remoto e passato recente di Driver affiorano nell’ordito di capitolo in capitolo. Lungo questa treccia discontinua si consuma la sua vendetta: Driver è costretto ad uscire temporaneamente dal suo ruolo, agire, eliminare, uccidere. Come il regista onniscente della propria vita, Driver agisce lucidamente per riportare tutto al grado di immobilità iniziale. E lo fa quasi con una spietata dolcezza verso l’umanità altrui. L’omaggio a David Goodis del più esistenzialista dei noiristi americani.