di Alessandra Daniele
Quando il giovane Asimov varcò per la prima volta la soglia della redazione di Astounding, le colonne che reggevano dallle fondamenta quel leggendario tempio laico della Golden Age erano due: Robert Heinlein, e Alfred Elton Van Vogt la cui pirotecnica immaginazione faceva da degno contraltare al pragmatico rigore di Heinlein.
Van Vogt era infatti, come dal titolo d’un suo romanzo del 1953, uno sfrenato Universe Maker, e non era tipo da adattare le proprie storie alle leggi della natura: preferiva adattare le leggi della natura alle proprie storie, spesso inventando anche le relative nuove scienze per illustrarle. Come la teoria dell’ “Universo Ombra”, o quella sulla ”Totipotenza delle cellule del corpo umano”, che, per quanto possa suonare bizzarra, nasconde sorprendenti profetiche assonanze.con le recenti scoperte sulle reali potenzialità delle cellule staminali.
Una creatività scatenata nell’attingere piratescamente alle branche più varie del sapere umano, dalla fisica alla psicologia, dalla matematica alla mitologia, per mescolarle e manipolarle a suo piacimento; un gusto anche autoironico per l’iperbole galattica, gli infiniti spazi, i millenni eterni, gli immensi poteri, le cospirazioni cosmiche, come per i particolari scintillanti, misteriosi, sorprendenti, e per i fulminanti colpi di scena e le spericolate sterzate narrative con cui beffare la propria stessa logica e infrangere le regole che ci si è appena divertiti a inventare, per reinventarle ancora. Un’attitudine immaginosa, capace di spaziare dal semplice divertissement, all’interrogativo più inquietante, che fa di Van Vogt uno dei maestri di quel sense of wonder che è ingrediente fondamentale dell’autentica SF, e uno di coloro che Philip K.Dick considerava i propri maestri.
La definizione “trama vanvogtiana”, associata spesso alle visionarie, catafratte e spiraleggianti shifting realities di Philip K. Dick, deriva infatti proprio dai migliori “incubi” di Van Vogt, come il racconto Asylum (1942) uno dei suoi capolavori, il cui protagonista passa da uno straniamento all’altro, da uno shock cognitivo all’altro, in un crescendo – anche stilistico – dal fanta-noir, alla science-philosophy, fino ad approdare a una sconvolgente metacoscienza cosmica. Il protagonista-tipo di Van Vogt è spesso destinato a questo tour de force, destinato a ”esplodere”, per germinare nuovi mondi, in senso metaforico, come il Cross di Slan, o addirittura in senso proprio, come il McAllister de L’Altalena (Seesaw,1941), che, diventato una sorta di Big Bang-man, di uomo\uovo cosmico, esploderà nel remoto passato, liberando l’energia accumulata in millenni di viaggi nel tempo, per dare origine al sistema solare.
Alfred Elton Van Vogt nasce in Canada nel 1912. Si trasferisce presto negli USA, ma, nonostante la passione per la SF, all’inizio si fa le ossa scrivendo un po’ di tutto sotto vari pseudonimi, dal racconto rosa al radiodramma mistery. Il suo debutto nella SF del 1939 con Il distruttore nero (Black Destroyer) è subito clamoroso: la sua beffarda e affascinante nuova incarnazione del mito del vampiro in chiave insieme felino-aliena e horror-metafisica conquista i lettori, e dà origine a una delle sue molte saghe, quella Crociera nell’infinito (The Voyage of the Space Bearle, raccolta in volume nel 1950) per la quale inventerà la neo-scienza sincretica del Connettivismo. Quasi il prototipo della space opera ”adulta”, un’odissea fra mostri più inquietanti che solo banalmente orridi (da cui nascerà l’Alien di Ridley Scott) e prove più di intelligenza, che di forza (modello che verrà poi più o meno esplicitamente ricalcato anche da Star Trek).
La reinvenzione fantascientifica del vampirismo tornerà poi ancora nella sua produzione (esempio L’occhio dell’infinito, The Chronicler, 1946) Leggendo un altro dei suoi racconti migliori, La cripta della bestia (Vault of the Beast, 1940) non si può non riconoscervi la geniale idea del mutaforma di ”metallo liquido” in grado di diventare qualsiasi cosa, da un pezzo di pavimento, alla subdola replica aliena di un essere umano, idea ripresa dall’astuto blockbuster Terminator II, come in parte dagli autori di Deep Space Nine nella creazione dei minacciosi Fondatori del Dominio.
Col già citato Seesaw nasce poi la saga di Isher e dei Negozi d’armi, impegnati – in modo obliquo, machiavellico, e politicamente trasversale – a controbilanciare lo strapotere dell’Imperatrice. I vari racconti saranno “cuciti” in tre romanzi, dei quali Le armi di Isher (The weapons shops of Isher, 1951) è il più armonioso. Infatti, la sua struttura ad anelli temporali concentrici dove causa ed effetto si identificano, e il continuum si morde la coda, sembra richiamare il mito dell’Ouroboros un po’ come la sostanziale androginia dei due antagonisti principali, Immelda, la gelida e autoritaria Vergine Imperatrice, e l’astuto ed elegante Hedrock, dei Negozi. Come androgine sono in fondo anche le armi stesse dei negozi: metà pistole, metà gioielli, metà laser, metà scudi, e sempre strumenti d’equilibrio.
Lo stile di Van Vogt è spesso discontinuo, alterna virtuosismi a forzature, a volte cesella, a volte ”tira via”. Ma il fascino evocativo delle sue storie migliori sopravvive, come l’umanità dei suoi migliori personaggi resiste agli a volte eccessivi entusiasmi ”trasumanistici” tipici della scuderia Campbell, alla quale A E Van Vogt apparteneva come socio fondatore, e il cui ”manifesto” fu proprio il suo Slan, uscito a puntate su Astounding nel 1940, e in volume nel 1946. Un’avventura rocambolesca, un romanzo di formazione, una denuncia delle crociate razziste di tutti i tempi e insieme un’ inquietante fantasia eugenetica, nonché un arguto – e un po’sadico – trattato sull’incoercibile attitudine del genere umano (e trasumano) alla paranoia e al complotto. Slan è un po’ tutto questo, ed è una space opera nella quale il protagonista, il ragazzo telepatico Jommy Cross, perseguitato con gli altri come lui per la propria”diversità”, evolve dalla condizione di piccola fragile vittima d’una suburbia crudele stile Dickens postatomico, a quella di stratega interplanetario e rifondatore dell’umanità.
Quanto la ”poetica” di Slan è lontanissima da quella di Philip K.Dick, che con queste derive trasumaniste del Clan Campbell polemizzava duramente, altrettanto il successivo dei classici vanvogtiani è animato da risonanze dickiane. La terribile scoperta che si trova infatti ad affrontare Gosseyn, protagonista della saga del Non-A (Null-A, 1945-1985) è che tutti i suoi ricordi sono falsi. E, come se non bastasse, a destrutturate ulteriormente la sua identità interverranno una morte violenta e la successiva rigenerazione in un altro corpo, e in un’altra mente. Chi è davvero Gosseyn? Un enigma, ostico persino per la stessa filosofia non-Aristotelica, ispirata alla semantica generale di Korzybsky che aveva affascinato Van Vogt, e sulla quale aveva perciò plasmato la società di Null-A. In seguito un’analoga fascinazione, quella per la Dianetica, purtroppo lo condurrà lontano dalla SF per molti, troppi anni.
Le pubblicazioni davvero degne di nota successive al suo ritorno – nel 1963 – non sono molte, fra esse sicuramente I polimorfi (The Silvie, 1964) un caleidoscopico ritratto di vita aliena. Nel 2000 Van Vogt non morirà però dimenticato: ha di certo lasciato il segno. Esplodendo come una supernova nell’immaginario collettivo, ha contribuito alla creazione della Fantascienza moderna. Dalle rive dell’attuale oceano di storie possiamo ancora guardare riconoscenti l’eco luminosa di quel lampo.