In nessun luogo andai / per niente ti pensai / e nulla ti portai per mio ricordo.
La prima frase fatta ascoltare al mondo dal duo di rivoluzionari Battisti-Panella mi fa pensare a una sorta di minimalismo esistenziale.
Il principale male dell’uomo -oltre che il suo principale bene, ma sono due campi separati, il godimento non smentisce la sofferenza- è la complessità. Ossia l’esistente stesso, rappresentato in primis dalle svariate possibilità che si presentano in ogni attimo davanti a ciascuna persona, e dal conseguente, temibile obbligo di scegliere, di prendere una decisione, seppure talvolta istintiva e involontaria, oppure obbligata.
Bene, un antidoto a questa ineluttabile situazione sarebbe l’atrofizzarsi simbolico della sensibilità della propria mente.
Pensate: vivere in una casa con le pareti bianche completamente spoglie (“chiodi senza quadri alle pareti”, ancora Battisti-Panella), non ascoltare musica non vedere film, non essere né intellettualoidi né ignoranti, non uscire (ossia non scegliere fra le varie destinazioni possibili), coltivare la noia, l’indifferenza (“noiosa come sei mi sei preziosa / monotona, ottimale: mi riposa” — B.-P.).
Il luogo mentale di questa riposante condizione c’è, esiste, e si tratta di un luogo che dalla finzione letteraria si è incarnato in un’esistenza reale, fisica: è il labirinto costituito dalla rete di protezione del giardino del signor Knott, all’interno del quale si trova intrappolato Watt, protagonista del romanzo di Beckett. Leggete una volta quella parte del romanzo: mentalmente non potrete mai più uscire da quello stretto labirinto, effetto inquietante ma in ultimo riposante, appunto.
Ancora, altro luogo immaginifico sono i negozi di Battisti-Panella, onnipresenti riferimenti di questo articolo (d’altronde, le 40 canzoni del duo in questione sono un formidabile compendio delle tecniche di resistenza al disagio di vivere, insegnano la tecnica dell’autoannullamento simbolico, a partire dalle indimenticabili copertine bianche). In Ecco i negozi, nell’estetica postmoderna si sostituisce al flaneur il visitatore di negozi: la protagonista della canzone trova sollievo (temporaneo ma eterno perché rinnovabile sia fisicamente sia mentalmente) nel passeggiare all’interno dei negozi, camminando “nell’uno e l’altro senso”. Nei negozi “non sembra più di stare a casa” e “si diventa fenomeni contraddittori […] immersi in un tripudio misto-seta, in una negligenza e oblio di sciarpe”.
Passando a dei minimalismi solo illusori, perché in realtà manifestazioni positive di realtà, invece che sottrazioni di parti dell’essere quali quelle fin qui descritte, si può comunque considerare fonte di un certo sollievo il minimalismo inteso come corrente artistica.
Rendiamo dunque grazie a Dan Flavin per i suoi neon, e sottraiamoli alle interpretazioni di alcuni critici d’arte che, appena scampati da problemi cardiaci, vedono la religiosità nella luce flaviniana (ovviamente Angela Vettese, comunque non solitaria in questa lettura banalizzante). E tuffiamoci nella visione delle opere minimaliste che presentano lineari figure geometriche fatte di metallo, che fanno da specchio alle forme urbane sottraendole al funzionalismo architettonico-infrastrutturale. Oppure fermiamoci per interi minuti davanti a dei quadri monocromi (mentre scrivo, nel persorso dal computer al bagno ho potuto contemplare tre monocromi di Phil Sims).
Proprio in questi giorni è uscita una canzone dei Pet Shop Boys, Minimal, che omaggia il modo di pensare in questione, fra l’altro nell’ambito di un album piuttosto minimalista nello spirito, a partire dalla copertina quasi completamente immersa in buio nero, nonostante la forma musicale sia ridondante.
Nonostante i suoi meriti, comunque, il minimalismo come corrente artistica è intrinsecamente contraddittorio, dato che prescrive un’estetica che non è veramente sottrattiva, in quanto produce poco al posto di lasciare il vuoto preesistente; dunque sembra che produca poco per contrasto col troppo pieno dell’opera d’arte più comunemente diffusa, ma in realtà compie un atto creativo potentissimo e quindi destabilizzante perché aumenta l’esistente e dunque la complessità.
Si torni dunque con la mente alla vera sottrazione, per esempio quella ottenuta nei romanzi di Beckett, laddove tramite l’accumulo di parole si giunge ad un blocco totale che annulla tutto, parole comprese, e si diventa L’innominabile, inestricabile dal bidone che lo contiene e con cui si è fuso psicologicamente.
Altra forma di allontanamento simbolico dal peso della realtà (storica e metastorica) è il benemerito operare artistico di Warhol: nel caso dei suoi film dove si rappresenta una afasia emotiva (e si viene inglobati da essa); e nel caso della sua pittura gelida, congelata, criogenizzata, dove si ricerca l’alienazione una volta constatato che non vi si può sfuggire.
Se invece non si volesse giustamente sottrarsi alla possibilità di vivere appieno, suggerisco un’altra strada, l’unica possibile per sopportare il postmoderno dell’anima. Si tratta del metodo pynchoniano. Bisogna immergersi nella sovrapposta complessità infinita dell’era postmoderna, accumulare le storie, le biografie, i miti, i nomi, i luoghi, gli stimoli ricevuti e tutto il resto. Tutto è materiale da fagocitare, a cui credere. Tutto è vero, davvero ci sono i coccodrilli nelle fogne di New York, la manipolazione esiste ed è dappertutto, assieme contingente e psicologica. Il metodo conoscitivo più efficace è quello della paranoia e della teoria del complotto. Spesso ci si becca, seguendo questo metodo, che comunque permette di tenere viva la mente: lo si persegua.
Chi, in nome di un illusorio principio di aderenza alla realtà, rifiuta entrambi gli stratagemmi, sia quello minimalista della sottrazione, sia la ridondanza del pynchonianesimo, allora ricadrà nel benzodiazepinizzato mare della postmodernità, intollerabile.