“E l’idea che non si trattasse d’altro che di un esercizio di bravura, uno squallido esercizio della volontà, mi ha portato via, ha disintegrato l’ingorgo. Ho abbandonato lo specchio al suo ovvio destino, e ho deciso che la strada era quella buona, probabilmente, ma se perseguita con distrazione maggiore, per vie indirette, scorciatoie, quasi smarrimenti”.
E’ un passo delle pagine iniziali di Procida, il romanzo d’esordio che Franco Cordelli pubblicò nel ’73 per i tipi Garzanti e che ora esce, riasciugato e se possibile più contratto e cartesiano, per Rizzoli. Uno dei romanzi più impossibili che si possano, più che scrivere, celebrare, come nozze a cui si presenta un unico sposo: un romanzo che tenta di dissolvere la mente in una forma più larga della mente, laddove la forma è sempre una storia e, quindi, un romanzo. E il fallimento di questo cartesianesimo (ma anche nietzschianesimo del tutto atipico) è il successo di un libro che, oggi, sembra necessarissimo nell’impartirci il valore conoscitivo della lingua, tanto bistrattata nella narrativa contemporanea: una lingua perfetta, al tempo stesso classica ed espressionista, ma deviante, borderline, fino all’apice del romanzo stesso, che è la narrazione come profezia su se stessi.
L’irrisorietà della trama rende conto del tentativo di algebra letteraria verso cui Cordelli, di colpo e magnificamente, come capeggiando i quaranta ladroni (che però non aveva alle spalle), si apre un passaggio in maniera mirabolante, levando il fiato per una maturità (allora) che è perfezione (ora). La trama, o ciò di cui si tratta, dunque. In un periodo storico che inizia a imporre una delusione ideologica ed esistenziale (siamo ad altezza Piazza Fontana), un intellettuale si isola, approdando alla casa che possiede su Procida, una magione devastata ben lontana dal paese. Non lo segue la stanca moglie, una sorta di costellazione di luoghi comuni o semplicemente antropologici della borghesia metropolitana che, a distanza di 33 anni possiamo misurare non essersi esaurita nei suoi microvizi che fanno il tutto, nel suo sordido movimento per cui il vero è un momento del falso. Lascia Roma, lascia le relazioni, questo intellettuale deciso a vivere la solitudine sotto Natale, un eremitaggio totalmente privo di qualunque ombra ascetico-misticheggiante, pronto a fare i conti con sé e con le forme dei suoi pensieri, delle sue ossessioni, capace di non darsi un compito e determinato a vedere se una simile abilità (sorta di walserianesimo violentissimo e non angelico come nello scrittore dello Jakob von Gunten) regga la prova del tempo. Ha una figlia, l’intellettuale. C’è di mezzo una poetessa. E dopo i primi raggelanti giorni, nonostante la volontà, nonostante il destino diaccio, nonostante la riduzione al minimo fisiologico dell’economico (l’affitto di un cane), nonostante il contatto mediato con la natura bruta (insetti per casa, un topo, le lenzuola inzuppate di umidità), la vita dei corpi e dei fatti lo raggiunge e si dà una forma e la forma è quella contemporanea di romanzo familiare atipico (la figlia in visita) e di una ricerca al nero, un delitto, un accenno a ciò che, nel ’73 (e, per molti, anche oggi!) è una forma principiale di meccanismo vitale ma al tempo stesso è uno stilema sottoletterario e ignorabile (non più ignorabile da quando, ne La Democrazia magica, edita da Einaudi più di vent’anni dopo Procida, Cordelli affrontò Hammett scrivendone come si può scrivere di Rabelais o di Thomas Moore).
Il flaubertismo del libro (richiamato anche nella splendida bandella, autentico atto critico) sta tutto in questa forma del vuoto in cui Cordelli sfonda, e lo fa da subito e suppongo lo faccia contro la propria volontà, senza accorgersene (e non con il contraddittorio movimento del passo citato all’inizio, quella tautologia che è la trappola di ogni scrittura: “decido di andare contro la volontà, per sviamenti”…). Ma cosa è il nulla in Cordelli? Cosa sarebbe questo approccio flaubertiano alla storia nel momento in cui si dà la narrazione? Bisognerà procedere ex contrario, osservare da vicino cosa sia il pieno – cioè la natura, cioè la storia, e, via di seguito, il mito, la cultura, l’idea di umanismo – per lo scrittore romano:
“I segni, che lo si voglia o no, sono generalmente riconducibili a un alfabeto. E’ qui che comincia l’antinatura, con il principio di un sospetto. Avere dei sospetti intorno all’esistenza di qualcosa che non si vede, o che si vede come deposito inconcluso, se non come residuo, o accenno ad altro, è il primo passo dentro un labirinto, ed è anche l’uscita da una condizione di solitaria normalità. E’ l’emancipazione da un pensiero selvaggio, se questa espressione ha un significato. Già una tana, già un nido, sono anche il segnale, del tutto implicito, duttile, germinale, che la condizione dell’innocenza non esiste più. In ogni caso, quando arrivano i giorni della fame, le cose cominciano a cambiare, iniziano senz’altro, almeno da qui, i salti di qualità, le ragioni dialettiche, gli scarti, come quelli dei purosangue davanti agli ostacoli, nei concorsi ippici. Ha termine l’unico continuum vero dell’universo, quello prenatale”.
E’ rarissimo ritrovare, nei Settanta, negli Ottanta e fino a metà Novanta, nell’intera produzione non dico narrativa, ma addirittura saggistica, una simile lucidità e una capacità di penetrazione e sintesi in grado di condensarsi al minimo, alla pallina da ping pong che precedette l’espansione universale. Qui si fa filogenesi e ontogenesi non soltanto della società contemporanea, con le sue ideologie ridotte a secrezioni responsive della basalità alimentare, ma si addita, dribblando ogni freudismo (e nel ’73 non era così semplice come ora…), al continuum del senzatempo secondo il modello della coscienza prenatale (ci arrivò Fornari, dopo la teoria dei coinemi, qualche anno dopo). Una mente che non è più mente, ma è continuum coscienziale è l’unica risposta che possiamo fornire con efficacia all’assalto religioso: la metafisica (qui equivalente alla narrazione condotta da Cordelli) individua il continuum senza essere religiosa. La religione, invece, è già storia, è già credo, o per l’appunto deviazione e scarto, e quindi viene rifiutata da quello che, più che flaubertismo, definirei realmente husserlismo del libro di Cordelli: tutti a parlare di Husserl senza comprendere che le sue Meditazioni cartesiane sono pratiche, non teoriche da applicare dentro la storia (del resto, fuori della storia, non c’è nulla; dal continuum coscienziale emerge la storia, è cosa ben diversa). E infatti:
“Soltanto mettendosi completamente dalla parte della storia e, nella fattispecie, nel punto in cui si biforcano storia vissuta e storia raccontata, la si consegue prima e la si annulla poi, per la sua obnubilante, immonda imperfezione”.
Va concesso a Cordelli lo strumentario gnostico? No, poiché non gli serve. E’ uno scrittore (lo è dal ’73!) troppo consapevole per sputare nel piatto in cui mangia e, a partire dal piatto in cui ha sputato, sognare la prelibatezza degli chef, insultando ogni cuoco rusticano e ogni massaia ai fornelli. C’è infatti da prendere sul serio, sempre, lo scrittore, quando è un grande scrittore. E dunque interrogare il testo di Cordelli: che cosa sarebbe, nei fatti, il punto al bivio tra storia vissuta e storia raccontata? Anzitutto: il punto genera lo spazio ma non gli appartiene. Cordelli sta parlando di qualcosa che genera la storia, è nella storia, ma non appartiene alla storia: è lo scrittore scrivente, lo scrittore mentre scrive, l’interiore dello scrittore che sta scrivendo (buio interno, in cui: lampi, oggetti, frammenti, escoriazioni d’immagini e d’idee…). E’ lì che, forse, si toccano porzioni per nulla misticheggianti o ispirazionistiche del continuum prenatale?
Portatore di scontri, di irresolutezze, di delusioni, di scacchi a priori, lo scrivere la narrazione è uno strascico che lascia nel corso della storia un non visibile sangue, non caro, purtroppo:
“Non facevano altro che provocarmi, più insistevo con la teoria delle teorie e delle allegorie, della loro opportunità primaria, più quelli cercavano l’affermazione attraverso la prassi immediata, erano scontri ininterrotti, continui, sfibranti, a pugni, a calci, a calcioni, salti impossibili, masturbazioni, lancio del cacciavite e delle pietre e così via”
Se desiderassi metaforizzare, questo passo parrebbe descrivere una certa situazione tra comunità letterarie oggi, laddove sono bene identificabili i fascisti della prassi.
Finché si resta dentro la storia, immuni al percepirne l’effettiva sorgenza (che è la domanda: “cosa?”; oppure l’affermazione regina e buia: “non so”), si è preda di un simile trascinamento, tutt’al più di una distorsione degli eventi, che il giallo (il noir, hardboiled, thriller e quant’altre forme erette sulla deviazione e lo spostamento) coglie alla perfezione, perché la riconduce a una teoria totale del tempo:
“Queste ambivalenze trascinano la densità del tempo storico nel lento movimento, incessante, mutevole, obliquo, simultaneo del tempo sferico: ecco come sopraggiungono, spezzettate, scorticate, confuse, tutte queste mie cose, l’isola, la casa, i delitti, gli attentati al pudore, la scuola, il generale Radetzky e le sue otto battaglie”.
Questo sopraggiungere, il sopraggiungere in modalità spezzettate e scorticate, questo arrivare in simili modalità all’io che racconta, nel ’73 era un esordio e nel 2006 è il compimento di una profezia: Procida è a tutti gli effetti la letteratura oggi, come sta elaborando la sua nuova germinazione, le sue possibilità linguistiche e oltre-che-linguistiche, i suoi stili e non-stili, l’esplosione galattica della poetica dei generi – tutti fenomeni che Cordelli aveva intuito e messo su pagina 33 anni fa.