di Giuseppe Genna
[La Fabula Orphica, da un testo del sottoscritto, verrà rappresentata a Mantova, a Palazzo Te, il 30 giugno alle 21, per la regia di Federica Restani. E’ in corso di facimento un’installazione web che riguarda testo e spettacolo e che potete raggiungere qui. Pubblico alcune considerazioni che concernono la narrazione del mito (e non solo orfico), che possono valere come polaroid della cucina di un testo]
Si necessita di molto coraggio e di parecchia irresponsabilità nel momento in cui si decide di scrivere di Orfeo. E tanto più se l’ambizione è quella di cogliere ciò che di quel mito è vivo (sempre lo è stato e sempre lo sarà), per riproporlo oggi, in tempi di nebbia cognitiva ed emotiva, fenomeni atmosferici tutti mentali, che impediscono di cogliere il semprevivo del mito medesimo.
Poiché qui, come recita il titolo dell’intervento, mi applico a considerazioni di ordine artigianale, dispongo della fortuna e della possibilità di non appoggiarmi teoreticamente all’immensa tradizione che, nel definire cosa è vivo nel mito, si è dilatata come un universo in espansione nel corso della storia umana. Piuttosto, il metodo sarà positivo e impositivo: esattamente come un artigiano racconta come ha fatto un vaso, tento di dire con quali modalità ho lavorato sulla Fabula di Orfeo. Si prescinda dall’esito del vaso, ovviamente, che è storto per alcuni, levigato per altri, squilibrato per altri ancora.
Procedo quindi per asserti del tutto personali: la teoria della mia strumentazione e i miei strumenti.
Il mito è una radiazione. Esso vibra. La sua frequenza è unica e, spostandosi di frequenza, si entra in un altro accadimento formale. Ogni forma è una sommatoria di vibrazioni che qualificano fisicamente gli oggetti e sottilmente i nomi e i pensieri. La radiazione mitica è tale che, se intercettata, permette di percepire ritmi che si traducono negli snodi apicali di una storia o di più storie. Tale radiazione è lanciata nello spazio sconfinato ed eterico della coscienza umana, sicché ogni umano può intercettarla, a prescindere dal luogo e dal tempo in cui avvenga tale ricezione. Gli snodi che la vibrazione della radiazione mitica impone vengono tradotti dall’uomo in forme visibili, auditive, tattili, formali insomma, che di necessità appartengono al periodo storico e all’influenza ambientale in cui tale uomo vive.
Qual è il nucleo radiante del mito orfico? Qui ci si trova di fronte a un’ambiguità doppia: poiché doppia è l’evenienza di fatti fondamentali che furono raccontati intorno a Orfeo, e, della seconda evenienza, cioè la vicenda con Euridice, doppia è, per necessità che suppongo iniziatica, la valenza da assimilare. Dopotutto il mito si concretizza dalle frequenze coscienziali nelle forme mentali anche per istruire circa la dualità che il mondo formale comporta. Si può anzi sostenere che ogni mito è una sottofrequenza di una frequenza generalissima, quella coscienziale in toto, che istruisce, attraverso le radiazioni che emana, circa le modalità e gli esiti dell’umano stare nel mondo.
La prima ambiguità: nella tarda epica greca, Apollonio Rodio pone Orfeo a bordo della “solida nave” degli Argonauti, a cui sarà necessario per superare la zona dominata dalle Sirene, miti che irradiano un canto a cui la mente (ma non la coscienza, che ha elaborato le Sirene quale mito) cede. Il canto di Orfeo supera in frequenza quello delle Sirene e gli Argonauti saranno salvi (per inciso: un sottosignificato dell’episodio è che il mito di Orfeo costituisce una frequenza coscienziale più intensa e potente di quella che si condensa mentalmente nell’archetipo delle Sirene). La vicenda argonautica di Orfeo precede nel mito quella dell’incontro con Euridice, mentre vale il contrario nella produzione storica della narrazione mitologica. Nella Fabula ho scelto la cronologia mitologica: disceso dalla nave di Giasone, Orfeo va incontro all’innamoramento per Euridice.
La vicenda con la donna gronda duplicità a ogni passaggio. Euridice muore morsa da un serpente, mentre Orfeo la sta osservando fuggire inseguita da uno spasimante nel momento in cui, tra lei e il Divino Cantore, si celebrano le nozze. Perché Orfeo non fa niente? Il suo canto è talmente paralizzante che potrebbe arrestare la corsa dello spasimante, o almento irrigidire il serpente. Eppure Euridice muore. E, con il coraggio che prima non aveva mostrato, il suo sposo discende nel mondo infero a recuperarla. Siamo a uno snodo fondamentale. Quando Orfeo, sconfitto da se stesso, riesce dagli inferi, giungerà all’illuminazione sul monte Emo, dove, nella fonte originaria che ho utilizzato per l’interpretazione del mito (e che qui non è dato rivelare, come del resto è irrivelabile ogni origine), àncora di colpo un nuovo culto: quello del Dioniso orfico (cioè un’ascesi che potremmo definire tecnicamente parmenidea o platonica, e sincreticamente induista, buddhista o talmudica al Dioniso del Pantheon greco, una tradizione quest’ultima che non aveva raggiunto i vertici metafisici). Nell’illuminazione perde completamente di consistenza l’intero mondo infero.
Il punto che sembra avere più incuriosito i teorici e gli interpreti del mito orfico è: perché Orfeo si volta? Come sopra detto, evito le moltissime ipotesi che sono state formulate in merito e cerco di spiegare la prospettiva che si incarna nella Fabula. La discesa agli inferi, sotto l’aspetto alchemico, è una Nigredo che non riesce: la mente non si discioglie, i nodi problematici (cioè formali e qualitativi) non permettono l’accesso consapevole all’immensità della coscienza. Il reintegro tra componente femminile e maschile fallisce, l’Androgino alchemico, simbolo di realizzazione coscienziale, non è ricomposto. Orfeo riesce dal buco infero melanconico fino allo spasmo e diviene leggendaria la sua depressione, il suo isolamento. Ovidio, nelle Metamorfosi, fa in modo che egli nasconda, nella viriditas di una selva cresciuta d’incanto sul monte dove Orfeo si rifugia, il passaggio tra l’importo psichico dell’esperienza fallimentare all’illuminazione. E’ Orfeo stesso, col suo canto, che fa sorgere la viriditas: simbolo di “selva oscura”, essa è una frequenza mitica che significa anche il suo opposto: nascita, germinazione. E la nascita di Orfeo è la sua realizzazione coscienziale in consapevolezza: in questo movimento segreto, nelle alture (anche il Monte è una radiazione mitica) e non nelle profondità infere, conosciute e abbandonate, egli realizza con consapevolezza una vetta non visibile: lo statuto correttamente metafisico non della religione, ma della prassi interiore umana, che attraverso la consapevolezza disciglie la forma della mente nell’infinitudine della coscienza. Così facendo, egli ha ucciso Dioniso, il padre delle Menadi che, disperate, assalgono Orfeo nottetempo, lo fanno a brandelli (un altro simbolo archetipico della morte iniziatica, che richiama, per esempio, i riti funerari del buddhismo tibetano), senza che Orfeo opponga alcuna reazione, a principiare dall’emissione del canto, che paralizzerebbe le sacerdotesse dionisiache (nell’immagine, la celebre incisione a sfondo alchemico di Albrecht Dürer. La testa di Orfeo è comunque viva in eterno, e canta: la sua frequenza è stabile, è ancorata al mondo: è il mito onnipresente.
La scelta della lingua, che bordeggia, secondo imprecisioni metriche, quella della poesia, mi è parsa la più adatta a una performance vocale e corporea. Qui l’obbiettivo non è capire e nemmeno fare capire, non è sentire e nemmeno fare sentire. Le musiche su cui, concordando con Federica Restani, che condivideva in toto il percorso iniziatico con cui viene svolto il mito orfico nella Fabula, hanno il compito di esaltare la qualità della frequenza e del ritmo, a seconda delle scene. Valga per tutte, l’individuazione dell’incipit di Annum per annum di Pärt come canto scenico di Orfeo: una pluralità di frequenze stabili, che evocano perennità, senza alcuna idea melodica a fare da supporto – il minimo della forma.
Quanto all’ambiguità massima, c’è da dire che la Fabula si occupa di un mito che forse è ispirato a un realizzato occidentale (tracio, per la precisione), che ha dato inizio a un sistema metafisico che ha le sue pratiche di visualizzazione e meditazione nelle Lamine orfiche e negli omonimi Inni. Sarà vano, come in tutti i casi analoghi di avatar che hanno impiantato percorsi metafisici in terra, ricercare tracce storicamente accertabili di un uomo. Meglio concludere con la fonte che non si rivela, ma che molto rivela, nello stabilire cosa, dunque è, più che Orfeo, il lettore e lo spettatore di questa Fabula:
“La caduta dell’uomo orfico è sempre una caduta di un Dio per libera scelta. La dottrina e l’ascesi orfiche trovano però riscontro nella tradizione di Ermete Trismegisto: ‘E così, o Asclepio, l’uomo è un magnum miraculum, un essere degno di riverenza e onore. Poiché egli perviene alla natura divina come se fosse egli stesso un dio: ha familiarità con la razza degli dèi sapendo di condividere con essi l’origine; disprezza quella sua parte della natura che è soltanto umana, perché ha riposto la sua speranza nella divinità dell’altra parte di sé‘”.