di Giancarlo De Cataldo
[Esce, per i tipi ManifestoLibri, la riedizione di Minima criminalia – storie di carcerati e carcerieri, dell’autore di Romanzo Criminale. Pubblichiamo la sua introduzione a questa versione aggiornata]
Mi ha fatto una curiosa impressione riprendere fra le mani, a quindici anni di distanza dalla prima edizione, Minima Criminalia.
Quindici anni, nella giurisdizione, possono essere un’eternità così come un attimo. Sono un attimo, se li si rapporta all’iconografia più convenzionale del mondo giudiziario, dominato ancora, nella percezione di molti, da toghe, da divise, da formule e da riti che risalgono alla notte dei tempi: con l’odore stantìo e il vago sentore di muffa di scenari che, nella loro immutabilità, sono concepiti per comunicare, allo stesso tempo, un senso di sgomento e di rassicurazione.
Ma quindici anni in Italia, in questa Italia, non sono nemmeno più un’eternità: sono un altro mondo.
La cronaca degli ultimi anni è stata dominata, sino alla nausea, dai periodici episodi di una guerra aspra guerreggiata, e non per volontà della corporazione togata, fra potere politico e magistratura. Siamo stati sommersi da una valanga di insulti che è persino superfluo richiamare alla memoria, tanto ne è in tutti vivo e fresco il ricordo. Abbiamo ascoltato le più alte cariche dello Stato rivendicare una forte azione politica «contro» la magistratura. Siamo stati definiti «antropologicamente diversi». La stagione di Mani Pulite, che aveva agitato tante speranze collettive, è stata letta alla stregua dell’ansia golpista di un drappello di Procure eterodirette dai Beria del Pci-Pds-Ds. Ci si sono imputati suicidi (dimenticando che ad agitare il macabro cappio a Montecitorio era stato un rappresentante eletto dal Popolo Italiano), vendette, faziosità, meschinerie, abusi di ogni sorta. La legislazione penale è stata più e più volte riscritta. Si è varato un codice disciplinare rigidissimo — in base al quale questa stessa prefazione sarebbe, con ogni probabilità, esercizio di attività illecita — lamentando, al contempo, che la Costituzione garantisca sciaguratamente ai giudici, come a tutti i cittadini, la libera manifestazione del pensiero. Poiché, si è autorevolmente sostenuto, un vero giudice, un buon giudice, non dovrebbe non solo mai manifestare alcun pensiero su nessun aspetto dell’esistente, ma sarebbe quanto mai auspicabile che di pensieri non ne avesse affatto. Nemmeno uno.
Era impensabile che tutta questa attività restasse sprovvista di ricadute sul carcere, che del processo penale costituisce, in moltissimi casi, lo sbocco naturale. Il carcere con i suoi carcerati, che come aveva scritto una volta (e ancora una volta di un altro carcere, di un altro mondo) Igino Cappelli, sono, del gran pasto della giustizia, gli avanzi.
Perciò, a rileggere oggi queste pagine sicuramente dettate da una fresca e recente passione, ma anche venate di una innegabile ingenuità, ho provato l’iniziale sensazione di ritrovarmi spettatore di un film in costume.
Ma era solo una sensazione iniziale. Legata a certe facce che ormai stentavo a ricordare, alla presenza incombente di una tipologia di detenuti — i terroristi dissociati, pentiti, o irriducibili o i vecchi recidivi — che ormai appartengono, in buona parte, all’archeologia criminologica.
Era una sensazione epidermica. A scavare, si capisce che sì, il film è in costume, ma, attenzione: è uno di quei film che gli autori sovraccaricano di rimandi e di allusioni al contemporaneo. Quasi volessero suggerire, attraverso una messa in scena formalmente rispettosa del tempo dell’ambientazione, ma sostanzialmente traditrice, che ciò a cui si assiste è in realtà un occulto anacronismo.
Per quel carcere. Per questa giustizia. Per me stesso. Quindici anni sono stati, nello stesso tempo, un’eternità e un attimo. O, se si preferisce, molto è cambiato, ma anche quasi nulla è mutato.
Cosa non è mutato: i meccanismi di sopraffazione e di opportunismo che regolano l’esistenza quotidiana di persone private della libertà personale. E, nello stesso tempo, la tenace speranza che anima quanti, nel loro quotidiano operare per l’istituzione e dentro l’istituzione, interpretano il lavoro carcerario come una costante offerta di risocializzazione: secondo quell’alta finalità di emenda che l’art. 27 della Costituzione assegna alla pena. E che una non recente sentenza della Corte Costituzionale (la 313 del 1990) ritiene immanente all’irrogazione della sanzione, esplicitamente censurando il ricorso alla cosiddetta pena esemplare.
Cosa è mutato, e profondamente: la percezione sociale della pena. Sotto l’onda d’urto di una massiccia campagna propagandistica. Per impulso di una legislazione mirata contro l’immigrazione e la tossicodipendenza. Con l’assistenza di norme che rovesciano, a favore della prima, il bilanciamento costituzionale fra la proprietà e la stessa vita. Nel concludere Minima Criminalia paventavo il pericolo che il pendolo della politica criminale, perennemente oscillante fra garantismo e repressione, smaltita la sbornia della legge Gozzini tornasse a stabilizzarsi sulla seconda a tutto discapito del primo.
Imperdonabile ingenuità. Della quale il lettore non faticherà a rendersi conto, ora che siamo sotto l’imperio di una legislazione che ha compiuto il capolavoro di assicurare il massimo garantismo ai forti e la più dura repressione ai marginali.
Nella nuova percezione sociale della pena vi è qualcosa di profondamente antico, verrebbe da dire qualcosa di classico. Da che mondo è mondo chi è stato vittima di un crimine aspira, nel proprio intimo, alla vendetta, più che a una giustizia che ai suoi occhi appare tardiva, se non astratta. Il senso ultimo degli apparati repressivi dello Stato dovrebbe risiedere proprio in questo: nell’interposizione di una forza fredda, terza, neutra, estranea, imparziale, fra chi è stato ferito nei sentimenti più profondi e chi, di questa ferita, è il responsabile. È persino ovvio che il comune sentire sia ostile a concetti come rieducazione, reinserimento sociale, risocializzazione. Sta a noi, ai tecnici, fare da cuscinetto fra la voglia di forca e l’impunità. Sta a noi imporre la Legge contro la Legge di Lynch.
Ma usciamo invece (usciamo: si spera) da anni governati dall’ossessivo richiamo al comune sentire. Anni fatti di spietatezza contro i recidivi. Di platee mediatiche improvvisate che si sostituiscono alle aule di giustizia. Di un’ideologia sicuritaria che risale al trauma dell’11 settembre. La sicurezza come valore primario, a scapito anche della libertà. La sicurezza in ogni slogan che si rispetti. Il fascino della divisa che ha sempre e comunque ragione. Anche, e forse soprattutto, quando ha torto. Come nei vecchi classici film del poliziottese anni Settanta o in certe serie americane all’insegna del law&order: noi ci facciamo in quattro per sbattere in gattabuia i criminali e i giudici bolscevichi ce li tirano fuori in quattro e quattr’otto, liberi e impuniti. E magari osano pure criticare i nostri metodi! Guasti impressionanti che guastano anche le coscienze migliori, se è vero che persino nella frequentatissima (e spiatissima) mailing-list di Magistratura Democratica questo comune sentire non manca di affacciarsi: vent’anni a un seminfermo di mente sono pochi, si legge. Dovevano dargli l’ergastolo, si legge.
Il carcere, insomma, ancora una volta, cambia meno della società che lo circonda, e, ancora una volta, tende a isolarlo.
Il carcere di questo Minima Criminalia è il carcere di ieri, ma anche il carcere di sempre.
Non siamo riusciti a inventarci niente di meglio di questo contenitore di rabbia e di illusioni. Non ancora, almeno. Abbiamo il dovere di continuare a operare, se non per migliorarlo, perché almeno non diventi peggiore di com’è.