di Giuseppe Genna
Ho l’onore di conoscere personalmente David Peace e di fruire, spesso, di dediche sui suoi libri che escono in Italia. Tra i quali, il più recente è il più sconvolgente e (si badi bene: intende essere uno stratosferico giudizio positivo) il meno bello: GB84, edito da Tropea (già recensito qui su Carmilla).
Siccome si tratta di uno scrittore che non è noto all’immane pubblico, ma soprattutto alla nicchia dei lettori di noir e hardboiled, spendo qualche parola per presentarlo, prima di addentrarmi in ragionamenti di carattere generale che si appoggiano su GB84. Peace è l’autore di una straordinaria quadrilogia, detta Red Riding Quartet, composta dai titoli 1974, 1977, Millenovecento80 e Millenovecento83 (i primi due per Meridiano Zero, i secondi due per Tropea). Essa ruota intorno allo Yorkshire del periodo pre- e thatcheriano, laddove una vastissima e complessa caccia allo Squartatore, efferato serial killer, dà la stura a Peace per fare ciò che soltanto Ellroy sta facendo attualmente: la saga epica della contemporaneità.
A differenza di Ellroy, Peace è non solo anagraficamente più arretrato, ma stilisticamente più involuto e, per questo, più difficile a leggersi. Questo significa (parere mio, di cui mi prendo tutta la responsabilità) che Peace è più avanti di Ellroy, come dimostra la svolta stilistica di Sei pezzi da mille, che dichiaratamente opta per una sorta di rap che ha nell’esametrica del genere epico il suo corrispettivo arcaico. Ho avuto la fortuna di assistere dal vivo alla lettura di Ellroy da Sei pezzi da mille e di quella di Peace da Millenovecento80 (il capolavoro, l’acme della sua quadrilogia): stesso ritmo, stessi accenti, stessa foga, stesso piede destro che batte sotto il tavolo. E, soprattutto, stessa materia. Che si tratti dell’America ellroyana o della più squallida regione della Gran Bretagna, la materia di cui sono fatti i nostri sogni, trasformatisi in incubi della Storia, è lo tsunami che questi due scrittori solcano con le tavole da surf di uno stile contratto all’esasperazione, criptico e strappato, spezzato, brachilogico, paratattico fino all’annullamento del respiro.
E sarebbero, e sono, due scrittori di noir (o hardboiled che si voglia). Di genere, comunque. A conferma di ciò, valga la recente classifica stilata da più di duecento tra scrittori, editor, giornalisti e critici convocati dal New York Times per decretare quale fosse il romanzo americano decisivo negli ultimi 25 anni: di American Tabloid non c’è traccia (di King non si parla). Assistiamo a una situazione paradossale: il genere trionfa, il genere traina la letteratura al di là delle secche di un egotismo che non mobilita più nemmeno una granello di immaginario, e gli addetti ai lavori lo snobbano come paraletteratura; d’altro canto, ciò che viene considerato genere e amato con tutela di segreto iniziatico da “quelli che hanno capito”, non è genere nei suoi esiti più alti, ma romanzo corale storico e fantastico. E’ chiaro che sto seguendo la strepitosa analisi della prefazione dell’ultimo Alphaville di Valerio Evangelisti con l’opportuna integrazione del Termidoro di Tommaso De Lorenzis, segnalata dallo stesso Evangelisti in calce al suo intervento.
Questa situazione paradossale, in cui il genere slitta tra pubblici abominii e successi colossali che lo fanno implodere e vette apicali di cui ci si rende conto solo parzialmente, ha in realtà un nome ed è: fine della poetica di genere. La poetica dei generi non è un’invenzione letteraria ma una creazione ex abstracto della critica, che oggi non esiste e non è assolutamente in grado di comprendere alcunché del genere (per questo, per frenare la lettura devastante dei reazionari post-adorniani, bisogna aggiugere al grande intervento di Evangelisti la postilla di De Lorenzis). La critica, del resto, è una secrezione secondaria, e tra l’altro molto più giovane, di quella potenza umana che è la narrazione e della sua primogenita, cioè la letteratura. Intorno all’Ariosto la capacità canonizzatrice proveniva dai medesimi scrittori e intellettuali, che però non motivavano secondo modalità della critica – dico quella che conosciamo ora – le loro canonizzazioni. Il genere saggistico, che certi critici come Berardinelli vorrebbero regnasse nella nostra contemporaneità sul genere narrativo e/o poetico, è un’ipotesi fantasiosa che solo un saggista poteva partorire. E’ la critica a essere in crisi, perché l’attuale critica è una degenerazione romantica passata per il setaccio del Novecento, e la sua crisi produttiva ed esegetica corrisponde in toto alla crisi di quella letteratura contemporanea che discende dall’epoca romantica ed è passata a maggior gloria nel Novecento.
I richiami, a questo punto, nella prospettiva che qui si propone, sono extra-genere. Per tentare di definire i romanzi di Peace ed Ellroy, sono stato costretto a parlare di narrazioni corali storico fantastiche. Una definizione che non può valere come etichetta e che dimostra, costruita com’è attraverso l’onomanzia della critica moderna, l’incapacità della strumentazione di cui essa critica soffre irrimediabilmente. Siamo a una svolta, quindi: fine della critica moderna e rovesciamento della narrazione praticata massivamente (certo, con grandiose eccezioni, è ovvio) nel Novecento.
Una lunga premessa per arrivare a dire, ad accennare cos’è GB84 di David Peace. Detto che è la storia dell’epico e tragico scontro tra i minatori e il governo conservatore di Margareth Thatcher, è detto niente ed è detto tutto. Perché qui la battaglia ha l’ampiezza di uno scontro da libro sacro e il primo riferimento che mi è venuto alla mente è all’episodio del pre-battaglia di Arjuna nella Baghavad Gita. Per Peace è qualcosa di meno, ma in realtà è la stessa cosa: nella dedica che mi ha vergato in apertura del libro, scrive che questo è “il suo Gérminal“. Finanche all’interno di questo molosso letterario uno dei molti protagonisti (segnatevi questa: molti protagonisti) getta contro un muro una copia di Gérminal. E cos’è Gérminal? Tredicesimo romanzo del ciclo dei Rougon-Macquart, è la medesima operazione di Peace: il racconto di una sommossa generalizzata dei minatori francesi, l’instillarsi di sistematiche socialiste nella visione dello scontro e dei suoi esiti, una premessa maggiore alla sconfitta che prelude al successo novecentesco del socialismo – e poi del suo crollo (riflettiamo su cosa sia oggi il labourismo). Se uno apre GB84 e pensa che, nella testa di Peace, questo è Zola, ha due reazioni: pensa che Peace sia pazzo oppure pensa che i nuovi narratori stanno riprendendo proprio da certo Ottocento alcuni paradigmi fondamentali della narrazione. Vale la seconda ipotesi. Di Zola non i critici, ma soltanto gli scrittori sono i portatori di un’interpretazione che più distante dalla categoria di “naturalismo verista” o “scientifico” non si può. Con Zola siamo nel mito della sua contemporaneità che si rovescia nel mito della nostra, viviamo nella visionarietà assoluta, tocchiamo una materia metastorica che l’epica porta in sé come quintessenziale attributo. Che, poi, non si riconosca per tale ciò che Zola è, non fa scandalo: perché dopotutto la critica moderna non ha capito cos’è Dumas, cos’è Salgari (non ha capito che America di Kafka è la medesima cosa).
In Peace si avvera una volta di più questo straordinario processo di metamorfosi della storia in Storia e della Storia in storie, che è l’epica – e oserei dire tanto più è l’epica contemporanea. Devo discostarmi qui dal primato dell’intreccio che Evangelisti, in giusta polemica con l’approccio altostilistico, concede alla letteratura popolare, che è l’espressione con cui egli denota l’epica. Infatti, stando a Peace, l’intreccio risulta quasi incomprensibile: è contorto, mancano tratti che coniughino avvenimento ad avvenimento. Eppure è impossibile smettere. E’ impossibile smettere anzitutto per il gigantismo con cui Peace, usando la psicologia ma superandola verso anni luce di distanza da ogni psicologismo, crea e muove personaggi che divengono memorabili: protagonisti di una battaglia istoriata sulle metope di un tempio. Sono i destini dei personaggi, mai chiariti con linearità, a trascinare magneticamente il lettore. Questi destini sono l’intreccio, compulsato all’interno di un più vasto affresco, dell’inconsistenza materiale che ha l’aria. In quest’aria, satura di ozono, scattano archi voltaici, fulmini violentissimi: sono fatti e personaggi che richiedono al lettore un’attenzione impossibile da concedere. E, infatti, si smette di concedere quest’attenzione che sarebbe da entomologo e storico universale allo stesso tempo. Del resto, come si vede una battaglia standoci dentro? Che coerenza ha una battaglia ciclopica? Che intreccio ha una battaglia? Osserviamo soltanto il livido cielo, la polvere da cui emergono a lampi i corpi, i cozzi tra lance e scudi, occasionali cadaveri calpestati, singoli duelli a caso. Non siamo Napoleone sulla collina che vede il disegno generale di Waterloo – e perde.
Ciò significa che David Peace riesce, con questo libro che non può essere definito bello, perché la bellezza non ha nulla a che vedere con la memorabilità, a stringere un patto fortissimo col lettore. E a indicare la strada futura della narrazione, fuori da ogni genere: una narrazione epica, corale, sovrannaturale, appassionante, inesplicabile nella sua totalità, magica nel racconto delle premonizioni, tragica nell’andamento e nella costruzione di strutture che crollano appena messe in piedi a patto che subito si installi un’altra struttura tragica. E’ la letteratura che fa spreco di sé: il nuovo genere destinato a passare sotto l’arco di trionfo della memorabilità.