di Daniela Bandini
Eraldo Baldini, Come il lupo, Einaudi Stile Libero, 2006, pp. 235, € 14,50.
Questo romanzo ne contiene almeno altri tre, e tutti di una suggestione tangibile. Per chi apprezza Baldini come scrittore, per chi si trovasse sulla sua stessa lunghezza d’onda per la prima volta, non cambia nulla: è una scoperta emozionante. Come il lupo parte da una vicenda accaduta nel 1651 in una località chiamata Valchiusa, dove una squallida vicenda di saccheggio e violenza verrà scongiurata per lasciare il posto a una leggenda destinata a perdurare fino ai giorni nostri. Una leggenda legata all’inarrivabile San Guilatrone, un vino prodotto unicamente nei vigneti della Valchiusa, talmente particolare e pregiato che tutte le vendemmie future sono già prenotate, tutte le bottiglie suggellate già da un patto tacito coi loro futuri proprietari, tutte le bottiglie vendute a prezzi altissimi, inimmaginabili ai comuni consumatori, attese e agognate come un dono del cielo.
Ma San Guilatrone non è il nome di un santo: deriva dal latino, da sanguis latronum, che significa ‘sangue dei ladroni’, sangue dei briganti”. Effettivamente le caratteristiche del vitigno lasciano sbalorditi: si tratta infatti di acini di uva rosata attraversati da venature rossastre, che ricordano dei capillari sanguigni. La caratteristica di questo vino, la sua unicità, sta proprio nel fatto di poter assaporare la freschezza del bianco nella corposità del rosso, in un unico bicchiere.
9 gennaio 1950. Sei i morti per i fatti di Modena. Una manifestazione di piazza trasformata in una carneficina voluta. Alle Fonderie riunite il padrone, tale Orsi, dopo un mese di serrata aveva dichiarato il licenziamento di 500 operai e ne aveva riassunti meno della metà, chiaramente tra quelli più accomodanti, i non sindacalizzati, i più docili e sicuramente i più ricattabili. La manifestazione era la risposta: o tutti o nessuno. Insomma, ma cosa credono le forze dell’ordine, di avere ancora la camicia nera e proteggere i padroni contro i diritti dei lavoratori? Ma cosa l’abbiamo fatta a fare allora la Resistenza, se gli apparati di governo sono sempre gli stessi, difendono sempre e solo la borghesia padronale? Questi i commenti al bar, quando la città si anima di figure nervose, col manganello agitato platealmente, e la coscienza si ribella al pensiero che questi ragazzi siano lì a menare le mani, a difendere interessi che non sono i loro. Loro, invece, la parte sana e attiva della società, che chiede solo giustizia e diritti per tutti, senza discriminazioni. Ma Nazario non ha molti dubbi: c’è troppo nervosismo nell’aria, la Celere carica i fucili, vede passare parecchie bottiglie di liquori, è un brutto segno. Per Nazario, maresciallo del Corpo forestale dello Stato, ex partigiano, sposato e padre di Elisa, il 9 gennaio sarà per sempre il giorno che ha visto la morte di sua moglie.
Scesi in piazza per solidarietà, convinti di manifestare un sacrosanto dovere di partecipazione contro un’ingiustizia che gridava al cielo, si ritrovarono all’improvviso di fronte ad apparati statali che non riuscivano a identificare in quelle divise che avrebbero dovuto rappresentare la repubblica e la fedeltà ai princìpi democratici. Angela morta, e la figlia con una malattia subdola e forse latente, l’epilessia, si collegavano nella mente di Nazario alla figura di Mario Scelba, come una collana di perle che ritorna sempre su se stessa, nel suo circolo vizioso di dolore e sofferenza in quegli anni di autentico regime para-golpista.
Veruska, ma non sappiamo quale fosse il suo vero nome. Era una partigiana che combatteva con Nazario in montagna. Non diceva una parola di italiano, combatteva proprio come una lupa, con disperazione quasi, per tornare timida e giovanissima com’era alla fine dello scontro. In una notte gelida Veruska si infilò sotto le coperte di Nazario, tremando dal freddo. Cercando di abbracciarla, lei si contrasse terrorizzata, una fascio di muscoli e di nervi, chissà cosa aveva passato, poverina, non sopportava più il contatto con un uomo. Infine, semplicemente, si addormentarono, e un giorno si dispersero, dopo un’azione. Veruska rappresenta ancora, rievoca ancora, quel moto irrefrenabile di libertà e disperazione, di lotta e di selvaggia, crudele e spietata armonia.
La Valchiusa incarna, per Nazario, il richiamo di un lupo, il richiamo di Veruska. Ci capita perché il suo lavoro lo ha portato lì. Nel Corpo forestale si immerge nelle province più remote dell’Appennino per scacciare quella modernità che lo ha solo disgustato, per allontanarsi dal dolore del viso e del corpo di Elisa in preda agli spasmi epilettici, per allontanarsi dai sensi di colpa per lasciarla troppo a lungo dai nonni. Nel luogo stesso, e nelle persone che lo incarnano, Valchiusa rappresenta una opportunità difficile da negoziare. Lì scopre una comunità da sempre avvinta su se stessa, con regole proprie, con riti incentrati nell’evento della vendemmia e nelle tradizioni particolarissime, dove però l’epilessia è vissuta come un dono, una faccenda che riguarda esseri eletti e non malati da sedare. Nazario scopre con stupore che tutto ciò che viveva come angoscia e disperazione, senza speranze per il futuro, all’improvviso viene sovvertito: il concetto di malattia viene soppiantato con quello di veggenza, di talento, di carisma.
Non anticipo il finale, splendido, sofferto e carico di libertà, però vorrei che questo libro fosse per voi ciò che è stato per me: una seconda opportunità. Ribaltare la dipendenza psicologica dalle convenzioni, stravolgere il concetto di ciò che deve essere conforme, sentire ancora e sempre il richiamo del lupo.