di Giuseppe Genna
Non sarà uno spettro ad aggirarsi per l’Italia, ma una certa letteratura è indubbio che stia circolando come un soffio inquietante per le devastate lande del Belpaese. E’ una letteratura molto diversa da quella che si attendeva certa critica, la quale, impegnata ormai da un quarto di secolo a celebrare o ignorare al massimo l’esistente, ha perduto ogni capacità predittiva. Questo spettro letterario è un’abnormità, i cui confini non sono al momento osservabili, mentre il terriotrio è esperibile, nei suoi avvallamenti, nelle sue feritoie e nei suoi irregolari geomorfismi. E’ una mappa vivente, poiché il suo esito è quello di una colossale mappatura: della memoria, della storia, del presente e del futuro del nostro Paese. Si sta consumando in questo modo la poetica dei generi, e nell’affermarlo prescindo totalmente dall’audience, che è uno specchietto per allodole e tordi. Il thriller e i generi commerciali non la fanno da padroni rispetto a una sorta di macropetica che determina l’ormai avvenuto risveglio della narrazione all’italiana – narrazione che è in se stessa divisa per poetiche distanti se non contrastanti, ma che ha l’obbiettivo unico di testimoniare, per allegoria o assenza della stessa, la storia – tentando di farne letteratura. Di questo macrogenere storico fa parte a pieno titolo Vita precaria e amore eterno di Mario Desiati: storia di un personaggio emblematico che connette Sigonella alla legge Biagi, scavalcando la psicologia canonizzata dal genere intimistico.
Non è dissimile, il tentativo civile che Desiati conduce a termine con questo suo nuovo romanzo, dalla carica e dall’impatto di Gomorra di Roberto Saviano: altro genere, altra poetica, eppure medesima appartenenza alla frangia estesissima di chi privilegia lo snodo tra politico e poetico, adottando qualunque retorica a sua disposizione, senza che l’attenzione sia centralizzata sulla modalità o sullo stile, ma sulla potenza d’impatto rispetto a un enorme rimosso collettivo, che è non soltanto la storia recente dell’Italia, ma anche l’immaginario che doveva esserne partorito e non lo è stato.
Il protagonista del libro di Desiati, l’improbabile sagoma detta Martin Bux (con altrettanto improbabile tentativo di giustificare geograficamente l’ascendenza del cognome), andrebbe scritto secondo pronuncia, ma in altro modo: egli è Martin Books. Egli è infatti una totalità letteraria dinamica, in movimento, una sorta di ipotiposi della letteratura nell’epoca senza poeti, una caricatura da DSM psichiatrico di fine Novecento, che nella sua schizofrenia coincide con la nostra schizofrenia: è, cioè, l’incarnazione e la rappresentazione del devastato rapporto tra il Paese e la propria cultura. Ragazzo sottoculturato, emigrato con la famiglia dalla sicula località Castiglioni, nei pressi della base aerea militare americana ai tempi del dibattito sugli euromissili (do you remember Craxi vs Berlinguer?), in una Roma di colpo contemporanea, afflitta da precariato e anaffettività, Martino Bux passa indifferente dal suo precariato di telefonista al saluto romano davanti alla consorte del fondatore dell’MSI a una citazione di Lethem (cioè: cita il nome di Jonathan Lethem), mentre la sua controparte, la fidanzata Toni, assente perché in viaggio e santificata a livello allucinatorio da Martino, è una cultrice della letteratura di ogni tempo e soprattutto contemporanea straniera, una ragazza impegnata che non è mai riuscita a fare aprire un libro al suo compagno. Il quale è dicotomizzato tra idealizzazione della ragazza e deflagrazione pornografica del ricordo della stessa.
L’evenienza Martin Bux è, in pratica, una certa totalità italiana, non propriamente pop, deambulante tra San Lorenzo e le periferie più degradate della Capitale, mentre fatti capitali vengono compressi in bruscolini, che solo occasionalmente attraggono l’attenzione dello schizoide Bux. Altri fatti, minimali, vengono invece ad assumere un’ingiustificata ed esorbitante importanza. In ciò, pubblico e privato, intimo e mondano, subiscono un dissesto che sconcerta: chi vede il mondo in questo modo? Chi lo vive così? Siamo davvero noi? E sono domande a cui rispondere non è lieve bensì parecchio spinoso, se è vero che Martin Bux è il ritratto fedele del rapporto che l’homo italicus (nel quale si include, non tanto ovviamente, lo scrittore italiano) intrattiene con la letteratura, molto prima di essere un personaggio suppostamente neorealistico che ci permette un appoggio mimetico per denunciare le storture della legge Biagi.
Pur non trattandosi questo di un metaromanzo, è indubbio che il fuoco polemico e virulento di Desiati è la rappresentazione di come un immaginario e una cultura siano da anni carbonizzati in Italia, messi in implicito bando dalla comunità di riferimento. E solo adottando questa prospettiva Martin Bux resta in piedi, pur essendo una figura di carta – anzi, dopo il colpo di scena finale, di cartavelina. Nemmeno più cartina tornasole: il verdetto, la carta, l’ha enunciato, ed è un verdetto di annullamento e condanna a morte della carta stessa, da intendersi qui come totalità della tradizione letteraria.
Questo intento, che non so quanto sia consapevole in Desiati, è una sorta di autogenesi dei fini ma non dei mezzi per un autore che, al secondo romanzo, è comunque tra i giovani poeti più riconosciutamente apprezzati di questi anni. La schermaglia memoriale e la lotta civile che impegna Desiati in prosa è autenticamente figlia della sua poetica nell’attività in versi. Si tratta di una sorta di espressionismo a sbalzi, secondo cortocicuitazioni di ciò che è tradizionale e di ciò che si oppone alla tradizione (e non alludo qui soltanto alla lingua parlata), in un processo che include il ricorso a lemmi spiazzanti e a sonorità scientemente discontinue. E’ la lingua di Vita precaria e amore eterno: familismi, idiosincrasie nominali, intercalari popolari o del tutto inventati stanno in ruvida e rovinosa continuità con espressioni a volte auliche fino all’arcaismo ricercato. Provo ad accostare due passi, per farmi meglio intendere. Il primo, e tematicamente e linguisticamente, è sciatto con ricercatezza e modulazione (i nomi degli scrittori frenano il sospetto che qui si scriva male per ingenuità autoriale):
Al piano terra fanno compravendita di libri usati, al primo piano invece c’è ogni genere di perversione. Non ho molti quattrini da spendere per questa roba. Saccheggio un po’ la libreria di Toni: un Yehoshua, un Kadaré e un Nooteboom senza copertina per una Rocco Siffredi Production. E’ questo il valore delle cose. Forse è anche il valore della mia vita.
La frase finale, nella sua invariabile banalità e insostenibile rozzezza, sarebbe impensabile in un romanzo in cui un capitolo inizia con “Vai a una mattina blu.” o si assiste a una teoria di rivitalizzazioni di una metafore nel modo che segue:
Dovrei racimolare spiccioli di esperienza maturata sul campo ai tempi della vita in famiglia, quando mio padre si infilava sotto il lavandino e ne riemergeva sudato e paonazzo. Il getto d’acqua del ferro da stiro, lo strepito dello scaldabagno, il fischio della caffettiera o della pentola a pressione ingrossano la vena dei ricordi. Sono minuscole particole che riconducono al Dio delle piccole cose e del focolare domestico.
laddove la sequenza di allitterazioni (“-co“) nell’ultima frase lascia intendere quanto sia metricamente e foneticamente voluta la lingua strategicamente imperfetta e non totalmente espressionistica di Desiati.
Ciò che importa è che questa lingua è condotta a un grado di schizofrenia che corrisponde perfettamente a ben altro: cioè alla schizofrenia individuale e collettiva dell’Italia non soltanto contemporanea, ma anche di quella che trascorreva inerte sotto la pance in accelerazione degli aerei militari Usa nelle basi siciliane. Confondere Martin Bux con una psicologia alle prese con l’impatto devastante della realtà contemporanea o con una psicosi ambulante in preda a visuali psicotrope sarebbe un grave errore. Questo romanzo mette a nudo e rappresenta una crepa, una faglia, un grand canyon: quello in cui si è infilata una nazione, sussunta in un’apparizione, quella del protagonista di Vita precaria e amore eterno, che solo una distorsione ottica potrebbe farci sembrare fumettistica, mentre si tratta dell’esito di un trauma al lavoro, secondo le precise caratteristiche del lavoro del trauma: distorcere la verità della realtà, la sua percezione piana, stabile ed eventualmente rivoluzionabile.