Cosimo Argentina, Cuore di cuoio, Sironi, Milano, 2004
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di Girolamo De Michele

Questo articolo è compreso nel nuovo numero di Vertigine, il periodico di scrittura e critica letteraria sinora curato e autoprodotto da Rossano Astremo, ed ora edito da Luca Pensa Editore. Vertigine sarà presentata al Fondo Verri di Lecce domenica 28 maggio 2006 a partire dalle ore 20. Il numero è dedicato ai romanzi del 2005 passati sotto silenzio, o comunque sottostimati dalla critica.

qui una videointervista a Cosimo Argentina

Per comprendere questo libro bisogna immaginarselo come un’intersezione di luoghi dell’anima e luoghi della città: luoghi che si intersecano, e compongono possibili punti di passaggio, o di trasformazione. Questo libro è, in fondo, la storia di passaggi che sarebbero potuti avvenire, di trasformatori che sarebbero potuti attivarsi, di passaggi che ci sarebbero potuti essere.
Topografia del rione. Il libro ha una sede fisica, tra via Calabria e piazza Messapia, e tra questi due luoghi nella piazzetta che i panarìedde hanno chiamato “Maracanà”, e che è già un luogo dell’anima. Chi conosce Taranto sa che in questo punto corso Italia, la direttrice principale del “nuovo” Rione Italia, si inserta col tradizionale Tre Carrare, il rione proletario alle spalle del signorile Borgo, ma anche dell’Arsenale Militare. In quelle strade abitava il nuovo proletariato, quello che, grazie alla Fabbrica (il complesso dell’Italsider, primo in Europa per capacità produttiva e per mortalità operaia) era sfuggito alla rigidità sociale e si affacciava al benessere: la casa di proprietà, i figli scolarizzati, il salario garantito, la macchina e la gita domenicale — le mille lire al mese, arrivate alla buon’ora. In quegli anni il più popolare dei capipopolo tarantini era un figlio di pescatori, che la lotta politica aveva strappato a un destino già scritto.

Ma la rigidità sociale si era già ricreata, proprio attorno al mito piccolo-borghese del posto fisso: Camillo Marlo, figlio di operaio, ha già sul collo il fiato della Grande Fabbrica. I figli ricominciano a seguire le orme dei padri, la scolarizzazione professionale o tecnica diventa l’anticamera dell’Italsider: il trasformatore sociale comincia ad incepparsi. Camillo Marlo lo sa, e sa che solo il calcio può salvargli la vita: il miraggio di un ingaggio nelle giovanili della Juventus è lì, a un palmo di mano. Appena oltre la punta delle dita.
Secondo luogo di passaggio: il calcio. Millenovecentosettantasettantasettesesettantotto: per noi tarantini bisogna pronunciarlo così, lettera per lettera, assaporando ogni suono. Perché non c’è mai stato, e mai ci sarà, un anno come quello. Abituata al lato destro della classifica di serie B, a lottare per salvarsi all’ultima giornata, o alla penultima se l’anno era buono, il Taranto si trovò quell’anno catapultato al secondo posto, grazie a una irripetibile combinazione di classe e guasconeria. C’era Ciccio Selvaggi, l’artista, l’inventore del ruolo del 10 moderno, né vero regista né centravanti, ma capace di fare l’uno e l’altro, alla Baggio: arriverà in nazionale, fino ai mondiali di Spagna. C’era Graziano Gori, il cavallo matto, capace di entusiasmare gli osservatori di mezza Italia (tra questi Helenio Herrera) col suo gioco e di spaventarli con la sua “vita spericolata”. E c’era soprattutto lui, Erasmo Iacovone, una media gol impressionante, quasi una rete a partita. Un sogno da cui Taranto si svegliò alla mezzanotte del 5 febbraio, quando una BMW rubata sbucò a fari spenti da una laterale e fece strame del corpo di Iacogol e della sua Dyane di plastica. A ripensarla oggi, la vicenda di Iacovone sembra il segno d’una tragedia: non si sogna nei ghetti, non si sogna di uscire dai ghetti. La forza dei padroni non è nella capacità di vincere: è nella capacità di attribuire al destino il peso delle nostre sconfitte per toglierci il diritto al sogno.cuoredicuoio.jpg
Terzo luogo di passaggio: la scuola. Istituto tecnico Professionale: l’anticamera della fabbrica. I figli dei una certa Taranto al liceo, i figli di quell’altra Taranto al tecnico o al professionale, e poi al lavoro. La catena si allenta, ma non si rompe. La scuola che avrebbe potuto trasformare quella generazione non riusciva a parlare ai figli degli operai condannati a diventare operai padri di operai. Certo non fu colpa della scuola, non fu mancanza di generosità dei docenti del Righi, dei professionali, delle serali: lasciata sola a combattere la battaglia, la scuola non poteva farcela. I giovani proletari entravano a scuola perdendo la schiettezza, senza uscirne acculturati: restavano in un limbo rassicurante, buono a perpetuare gli equilibri sociali esistenti di una Taranto che aveva perso la veracità popolare mantenendone la grettezza, ed aveva acquisito dal modo borghese il culto del denaro, ma non l’apertura mentale. Per noi che parlavamo di rivoluzione e di proletariato, quella generazione semplicemente non esisteva. La logica dell’avanguardia ci rendeva impermeabili dall’insuccesso dei nostri cortei: i Camillo Marlo sarebbero arrivati, prima o poi.
Non arrivarono mai: né la scuola né la politica riuscivano a trovare un linguaggio comune con quei ragazzi che vivevano rinchiusi dentro i loro codici linguistici basati sul calcio, con le loro ragazzette che portavano i nomi delle squadre europee e gli eventi del gran mondo che scivolavano via. Moro, in quell’anno, era una mezz’ala dell’Atalanta, il terrorismo un’eco sbiadita: «eravamo nel 1978 e quello che volevamo, noi compari, era solo di fare un po’ di macello, spingerci, ridere, fare battute e sfotterci l’un l’altro. Le ragazze a quell’epoca venivano dopo. Venivano dopo gli amici e dopo il pallone; un terzo posto onorevole, direi». Il mondo è tutto quello che è fuori dallo schermo, ha detto un filosofo parlando i cinema: su questo schermo scorre il film del romanzo di formazione del giovane proletario tarantino che ha sognato di sfuggire al destino attraverso il calcio. La Taranto degli anni Novanta, la Taranto della crisi profonda, della perdita del posto di lavoro garantito, la Taranto del potere malavitoso, la Taranto dei Cito e delle Di Bello è già tutta qui: nasce dall’inceppamento dei trasformatori della politica, della scuola, del sogno.
Tutto questo Cosimo Argentina lo racconta, con qualche generosa (voluta?) concessione agli errori della memoria, con una lingua particolarissima: come il protagonista, che ha perso il dialetto “vero”, quello che si parla solo nella Città Vecchia, senza aver acquisito l’italiano, la narrazione si piega a un registro basso, sgrammaticato, un falso dialetto che non vuole scimmiottare quello “vero”, quanto piuttosto rilanciare l’effetto-Amarcord col riproporre un linguaggio che richiama quello del Pasolini di Una vita violenta. Effetto-Amarcord: o, come diciamo noi, m’a recuèrde.