di Babsi Jones
Emir inizia a sentirsi angosciato, 9 novembre. Emir si dichiara disponibile a rinunciare al suo salario, 10 novembre. Emir si sveglia sempre più tardi, arriva sul set a tarda sera improvvisando, 17 novembre. La tensione fra gli attori è al culmine, Emir non fa altro che acuirla, 19 novembre. Emir aveva promesso che avrebbe tagliato la sceneggiatura, invece continua incessantemente ad aggiungere pagine supplementari, 24 novembre. Emir è nervoso, continua a dire che non può lavorare più velocemente di così, 10 dicembre. Emir è molto depresso, la situazione in Bosnia lo opprime, 14 dicembre. Emir si aggira per i corridoi mormorando che ha problemi esistenziali, 11 gennaio. Ogni volta che Emir esce a bere un caffè temiamo che non torni più, 26 gennaio.
Questi sono brevi stralci dall’esilarante diario di bordo redatto nel 1993 da Pierre Spengler durante le riprese di quello che resta il più grande capolavoro della storia del cinema jugoslavo: “Underground”. Lavorare con Emir Kusturica, il genio nato nel ’54 a Sarajevo e cresciuto alla scuola praghese di Milo Forman, per molti è un incubo. Io ho incontrato Kusturica tre volte.
Una di queste, in conferenza stampa al cinema Anteo a Milano: il regista, dimenticandosi di presentare il tour “Effetti Collaterali” della sua No Smoking Orchestra, deliziò per un’ora abbondante la platea con lunghi racconti di suini intenti a divorare vecchie Trabant, e descrizioni di uova rotte. Si accingeva al montaggio del suo “Super Eight Stories”, un film-documentario in super otto che non ha avuto il successo che meritava. Il Kusturica-pensiero è spesso ai limiti della provocazione; di lui si è detto tutto il peggio, persino che lavorasse per il KOS, i servizi segreti jugoslavi; la sua opera, più irrealista che surrealista, ha un impianto chiaramente epico che viene sistematicamente corroso dal sarcasmo e dalla farsa; “è come Shakesperare senza Shakespeare”, ironizza Kusturica; il piano temporale di tutti i film è inesistente, e in questa utopia ucronica lo spettatore viene costretto a muovere l’attenzione dalla fiction alla realtà senza comprendere dove finisce il sogno e l’illusione e dove comincia il documentario come testimonianza (popolare, perché il regista ricrea sempre dimensioni collettive). Essere spettatori degli imponenti lungometraggi di Kusturica significa entrare in un labirinto, in cui gesto politico e simbolismo si fondono in un carnevale tragico e picaresco; in un’orgia pagana il lutto si mescola alla farsa, e il kitsch, che serve a stigmatizzare i tanti squallidi personaggi che si aggirano nel dedalo jugoslavo, è anche scialuppa di salvataggio: in contrapposizione al cool e al politically correct, il kitsch è il simbolo dell’irregolare e del sovversivo. Kusturica è un regista inafferrabile.
E’ appena uscito in Francia un libro utilissimo per avvicinarsi al cinema kusturiciano certi di smarrirsi con soddisfazione: si intitola “Le lexique subjectif d’Emir Kusturica” (edizioni L’Age D’Homme) e lo ha scritto Matthieu Dhennin. “E’ una biografia multitraccia del regista nato a Sarajevo. I suoi film sono popolari e ultrapremiati, ma la personalità di Emir Kusturica resta un enigma; giudicato troppo in fretta, poco compreso a causa dei suoi prolungati periodi di isolamento o di certe affermazioni forti travisate e lette fuor di contesto, spesso vittima di attacchi sistematici da parte di personalità culturali con qualche prurito antiserbo (si pensi a Bernard-Henri Lévy o a Finkelkraut che, pur dichiarando esplicitamente di non aver visto “Underground”, lo accusarono di essere ‘un nuovo Céline schierato dalla parte dei nazisti’), di Emir Kusturica sappiamo troppo poco.” Così dice l’autore.
L’idea di Dhennin, che da anni conosce il regista e dirige il sito kustu.com, era di preparare un volume che dipingesse – attraverso aneddoti, e grandi e piccole narrazioni – un ritratto a tre dimensioni del regista ex-jugoslavo, un ritratto sicuramente contraddittorio ma esauriente. Operazione riuscita, a mio parere, che si spinge oltre il cinema e la musica di Emir Kusturica: il libro è una breve ma indispensabile guida alla “ex-Jugoslavia” e ai Balcani, che aiuta il lettore a ricostruire il difficile mosaico culturale e politico di un paese che “c’era una volta”, di una terra di mezzo che non si è mai affrancata dalla colonizzazione degli Imperi. Dalla questione del Kosovo e da Peter Handke alla paccottiglia jugoslava che ispira i nostalgici del Maresciallo Tito, “Lexique” offre al lettore una rosa di tragitti possibili, e di potenziali approfondimenti.
Appena ho aperto il tuo libro, ho pensato: è costruito con una geometria che ricorda quella del tuo ormai celebre sito; se a far da guida tra le migliaia di pagine virtuali è una mappa di un’ipotetica rete metropolitana, un underground, a facilitare la lettura di “Lexique” c’è lo schema caro a Milorad Pavić nel suo “Dizionario dei Chazari”: il bianco, il blu, il rosso; fonti europee, fonti balcaniche, altre fonti. Abbiamo bisogno di schemi per comprendere la complessità di Kusturica e dell’universo balcanico? Dobbiamo semplificare e ridurre all’osso? Non è un rischio?
Io temo che, nonostante tutti i miei tentativi di dare al sito e al libro una struttura scientifica, il caos prevalga: nel sito, se osservi attentamente, le pagine nascoste sono in gran numero; così nel libro, dove le voci del lessico si accavallano, si intersecano e fondono l’una nell’altra. E’ una geometria solo apparente: ho improvvisato molto, anche per sorprendere il lettore con collegamenti fortuiti. Credo che inconsciamente io abbia tentato di lavorare sul testo seguendo il metodo di Kusturica, che parte da un’immensa conoscenza di trucchi del mestiere e dei grandi classici del cinema per poi lasciarsi prendere la mano dall’emozione e dall’improvvisazione.
Il prologo è costruito sui tuoi sogni, o incubi, che sfociano in una vera e propria diagnosi medica: overdose di Kusturica. In un testo pubblicato in rete lo scorso dicembre, io ironizzavo sulla “balcanite” intesa come “dipendenza inguaribile dai Balcani”. Sembra che, una volta penetrati nella jugo-giungla, non si sia più capaci di uscirne.
E’ una cultura totalizzante, che ti fagocita se ti ci avvicini. Io avevo bisogno di scrivere questo libro; scriverlo è stato un sollievo. E’ un’intossicazione, e me ne accorgo dalle reazioni delle persone che, entrando in contatto con me e accettando i miei suggerimenti cinematografici o di lettura, poi mi ringraziano: come se avessi dato loro un’opportunità prima inimmaginabile, la chance di una scoperta fantastica. Non so perché la cultura slava crei dipendenza; in soggetti particolarmente predisposti è una droga. Ma non tutti sono predisposti, è risaputo.
Decisamente. Abbiamo entrambi esperienza diretta dei pregiudizi culturali e politici nei confronti dell’universo jugoslavo. Gli italiani non hanno idea di quel che accade nei Balcani; persino i grandi eventi – penso ai bombardamenti del ’99 su Belgrado – e i personaggi leggendari, come Tito, sono dimenticati. Nel libro tu ironizzi sulla classica svista degli operatori culturali europei, che spesso confondono Emir Kusturica con Vojislav Kotunica (l’attuale premier serbo, ndr). Com’è la situazione in Francia? Quanto i mass media si occupano di ex-Jugoslavia, e come?
Il più delle volte mi danno noia: producono una sequenza ininterrotta di clichés. La situazione in Francia è semplice, e te la riassumo in una riga: i mass media non si occupano di ex-Jugoslavia. A meno che non si tratti del Danubio che tracima o dell’assassinio di un primo ministro, ma è un coverage che dura solo poche ore. Un esempio concreto e attuale: del referendum montenegrino indetto per la fine di maggio nessuno scrive una riga. Né delle conseguenze geopolitiche che un simile referendum può avere sull’area balcanica. Non mi stupisce che, in questa assenza di conoscenza e di informazione, siano frequenti sviste ed errori. L’intento didascalico del mio libro è dovuto a questo: alla noia inimmaginabile che mi coglie quando per l’ennesima volta mi accorgo che la Slovenia, la Slavonia e la Slovacchia vengono mescolate come carte in un mazzo.
Questo “Lexique”, infatti, è molto più di un testo sul cinema e la vita di Emir Kusturica: è quasi un manuale che permette al lettore di conoscere un paese incoerente e ambiguo, è una guida agli avvenimenti storici, è una mappa geografica. E’ un libro che ho definito “necessario”. Mi chiedo quali siano stati i tuoi percorsi balcanici, e attraverso quali esperienze tu sia passato per arrivare a compilare questo glossario narrativo…
Ho fatto due viaggi nei Balcani. Più delle esperienze concrete di viaggio mi ha segnato la letteratura, però. Leggere gli autori jugoslavi è come aprire il vaso di Pandora. Ogni volta resto stordito dalla quantità di dramma e di bellezza che alcuni autori canalizzano. E’ superfluo che io menzioni Ivo Andrić, ovviamente, ma vale la pena di fare i nomi di Milorad Pavić, di Milo Crnjanski e di Danilo Ki. Di Goran Petrović, che è uno scrittore straordinario, solo “69 cassetti” è stato tradotto; lo stesso vale per Velibor Colić, che ha uno stile asciutto, jazzistico, persino quando descrive i massacri bosniaci come se rievocasse una performance di Ben Webster. Tu sai che la nostra comune frustrazione è dover attendere le traduzioni; penso ai sette volumi che compongono “Zlatno Runo” di Borislav Pekić, che in Francia sono fermi al terzo (inediti in Italia, ndr); ci vorranno decenni; eppure Pekić non ha nulla da invidiare a Balzac, né per stile né per complessità.
E’ vero. La vedova di Pekić, stanca di attendere, ha aperto di recente un blog sul quale pubblica, giorno per giorno, i taccuini e gli inediti del marito, in lingua inglese. La letteratura europea è incompleta, la parte slava è assente, e qui ritorniamo al soggetto centrale del tuo testo: Emir Kusturica. Aveva annunciato in pompa magna un’opera imponente costruita sul più celebre romanzo di Andrić, “Il ponte sulla Drina”; per anni abbiamo vissuto in attesa, poi il progetto è sfumato. Ne avrebbe fatto un capolavoro, e la letteratura jugoslava, contemporanea e non, ne avrebbe tratto grande giovamento. Cos’è accaduto?
Non sono poi così convinto che una “Drina” kusturiciana sarebbe stata un capolavoro. Consideriamo il metodo di Kusturica: ha bisogno di grandissime libertà interpretative per girare. “Il ponte sulla Drina” ha una struttura poco elastica, e per di più è un mausoleo, è il monumento nazionale della letteratura jugoslava. L’avrebbe costretto a muoversi in una gabbia. Pensa a “Underground”: chi conosce il testo del drammaturgo Kovačević da cui Kusturica ha tratto ispirazione sa quanto e come lo ha tradito e rimaneggiato, e quanto il film, alla fine, sia lontano dalla piece teatrale. Tutto è accaduto nella sua testa in fase di ripresa e di montaggio. Credo che non abbia osato fare una simile operazione con il capolavoro dell’unico premio Nobel jugoslavo…
Sono costretta a provocarti. “Underground” è il punto più alto dell’opera di Kusturica. Kusturica è considerato un genio grazie a quel film colossale; la stragrande maggioranza degli spettatori — ma anche dei critici — sono rimasti in attesa di un bis che non c’è stato. Emir Kusturica, dopo “Underground”, è un regista quasi deludente. A tratti sembra che, sfinito da una tale impresa (le riprese sono durate anni, hanno causato parecchi feriti e un paio di morti, un numero incalcolabile di incidenti politici e diplomatici, e di polemiche) Kusturica si sia rifugiato in una specie di limbo regionalista, simile a quello da cui era partito con “Dolly Bell”; ha inanellato una serie di ottime commedie, molto sincretismo zingaro, un po’ di jugoslavian graffiti, con un linguaggio che sembra disarticolato…
Non posso non essere d’accordo. “Underground” è il capolavoro. Forse dovremmo dimenticarcene, dovremmo staccarci e valutare le produzioni successive senza fare continui riferimenti a quel film immenso; non credo che le opere successive siano di scarso valore, credo che semplicemente volesse raccontare altre storie con un linguaggio differente, forse sottotono. Avendo avuto l’opportunità di vedere come lavora Kusturica, ore ed ore di pellicola poi inutilizzata, posso dirti che è ovvio che girare un film, per Emir, è una vera sofferenza; si tortura, persino lavorando su una commedia. I film che sono seguiti (“Gatto Nero Gatto Bianco”, “La vita è un miracolo”) non sono più deboli; sono meno oscuri, meno macchinosi di “Underground”. La mia opinione è che si tratti di opere che stanno, in ogni caso, una spanna sopra la stragrande maggioranza dei film che abbiamo occasione di vedere al cinema.
E nell’immediato futuro, cosa accade? C’è questo progetto su Diego Armando Maradona, e si è parlato di un’opera punk nei teatri francesi…
Sì. “Maradona” non è un progetto semplice da raccontare: Emir ha seguito Diego per più di un anno in diversi paesi raccogliendo materiale e girando. Cosa uscirà da questo materiale è un segreto. Le riprese sono terminate da sei mesi ma, com’è tipico, nessuno ancora ha idea di cosa Kusturica stia approntando. Forse neppure lui lo sa, e attende il guizzo emozionale, la scintilla. L’uscita era prevista in occasione dei Mondiali, ma i produttori possono pure cominciare a versar lacrime: Kusturica non chiude un film se non è esattamente come voleva che fosse. L’opera punk, invece, è un progetto più definito. Andrà in scena all’Opéra de Paris e sappiamo che è liberamente ispirata al suo lungometraggio dell’89, “Il tempo dei gitani”. Al posto delle musiche di Goran Bregović ci sarà la band in cui Kusturica suona, cioè i rinnovati Zabranjeno Puenje/No Smoking Band. Se vuoi sapere cosa accadrà in palcoscenico, però, torniamo al mistero e alla sorpresa: credo che neppure Emir sappia cosa ne uscirà, ed è questo il lato divertente. Lo vedremo nell’estate del 2007.
E il tuo “Lexique subjectif d’Emir Kusturica”?
Sono dieci anni che lavoro intorno a Emir Kusturica, sicché avevo accumulato una quantità di materiale, edito e inedito, che attendeva solo di essere utilizzato e organizzato. Di fatto, a scrivere il libro ci ho messo solo sei mesi. All’inizio, le motivazioni che mi hanno spinto sono stati i pregiudizi, le malignità, i pettegolezzi che conosci: “è uno zingaro, è amico di Miloević”, quel genere di dichiarazioni demenziali. Lavorando, in realtà, mi sono accorto di star salvando dall’oblio tanti minuscoli aneddoti, frammenti che hanno a che fare con l’opera e la vita di Kusturica che forse si sarebbero smarriti. E sono felice di aver trovato un editore che, amando il lavoro di Emir, si è preso il rischio di pubblicare un testo così sui generis.