di Alessandra Daniele
Isaac Asimov, IA, ecco un altro acronimo evocativo, eppure insieme riduttivo. Perché, se Asimov, col suo ricco e ipertestuale ciclo dei Robots, può sicuramente essere considerato l’Omero dell’Intelligenza Artificiale, il complesso delle sue attività letterarie supera di molto il confine di questa definizione, e diviene vasto quasi quanto l’Enciclopedia Galattica di sua invenzione.
L’immenso affresco Asimoviano di Storia Futura, costituito dal sapiente intreccio di ben tre saghe, e giunto ad abbracciare 50 millenni dell’intera galassia, nasce dai racconti Fondazione (Foundation, 1942), e Reason (1941, il secondo racconto sulla robotica, quello in cui vengono enunciate le famose tre leggi). Due piccoli semi, dei quali però, già il mitico editore di Astounding, John W.Campbell, intuisce subito il potenziale.
Le storie degli uomini della Fondazione, impegnati a cercare di prevedere scientificamente il futuro con la Psicostoria allo scopo di ricostruire la civiltà dopo l’inevitabile crollo dell’Impero Galattico, e le variegate avventure di robots pensanti, autocoscienti, e a volte telepatici, in cerca della propria umanità, si sviluppano all’inizio come serie distinte, e parallele. A Fondazione seguono, prima a puntate su Astounding (1942-50), poi come romanzi, Fondazione e Impero (Foundation and Empire, 1952) e Seconda Fondazione (Second Foundation, 1953), che aggiunge alla precedente alchimia di space opera, metastoria, sociologia, e science-feulletton, un potente elemento di paranoia cosmica.
Verrà poi un ciclo-prequel sulla nascita dell’Impero, tre romanzi di cui due, Paria dei cieli (Pebble in the Sky, 1950) e Le correnti dello Spazio (The Currents of Space, 1952) di particolare bellezza e impegno, coi rimandi allegorici alle persecuzioni nazifasciste e alla guerra fredda del primo, e la perfetta miscela fra immaginose teorie scientifiche e intensa denuncia socioeconomica del secondo che richiama, anche attraverso la simbolica anamnesi del protagonista, le stimmate schiaviste di quegli Stati Uniti già protesi alla colonizzazione di ogni spazio, e nei quali ancora vigeva l’ apartheid. Due romanzi che rappresentano un ottimo esempio delle infinite potenzialità della SF d’associare il più godibile sense of wonder alla più acuta analisi macropolitica. Intanto, con Abissi d’acciaio (Caves of Steel, 1953) anche la catena di racconti “robotici” si evolve in una serie di romanzi, capaci di mescolare ancora una volta la SF a vari altri elementi, come la detective-story, e il mistery, senza mai rinunciare alla speculazione filosofica: attraverso l’esame delle tre leggi della robotica, successivamente arricchite di una quarta capace di acquisire priorità sulle altre, Asimov si spinge anche alla ricerca d’una possibile definizione razionale, quasi scientifica dei concetti soggettivi di “Bene” e “Male“, e seguendo l’evoluzione dei robots esamina quanto questi concetti siano implicati nella definizione di “umanità”. Così come nel ciclo della Fondazione saprà adoperare la capitale imperiale Trantor, città-pianeta ricoperta di metallo e rigidamente suddiviso in settori, come metafora dell’isolamento individuale, di classe, psichico e culturale. La maggior parte delle storie Asimoviane nasce già connotata da tratti stilistici e contenutistici che ne suggerisce l’appartenenza ad un universo comune. Ma è negli anni ’80 che la grande fusione ha luogo esplicitamente, con alcuni romanzi di “raccordo” IA trasforma le sue saghe in un unico meta-testo, rimettendole in discussione dalle fondamenta, e facendo poi convergere tutto il vertiginoso intreccio nell’ enciclopedico Fondazione e Terra (Foundation and Earth, 1986), il cui sorprendente finale, nella migliore tradizione SF, spalanca la possibile ultima risposta su tutta un’altra galassia di infinite nuove domande. Ma per IA l’infinito sembra non essere ancora abbastanza. Infatti, oltre che scrittore SF affascinato dalle prospettive cosmiche quanto votato alla massima credibilità scientifica e sociologica, associata a uno stile scorrevole ed immediato, IA è stato altrettanto prolifico come saggista, divulgatore scientifico (matematica, chimica, fisica, biologia, astronomia, storia…) autore fantasy (Azazel, 1988) e mistery (il ciclo dei Black Widowers, 1974-90) poeta satirico, biografo, aforista, esegeta shakespeariano e biblico (puntuale, quanto fieramente ateo) attivissimo estimatore di Sherlock Holmes, come dei musical di Gilbert & Sullivan, ed appassionato antologista. Esplorare le riviste (Isaac Asimov’s Science Fiction Magazine, fondata nel 1977) e le raccolte di racconti (ad esempio Le grandi storie della Fantascienza-Great SF Stories, 1979-92) curate in collaborazione da Asimov è uno dei sistemi migliori per imparare a conoscere anche quasi tutti i suoi colleghi più grandi, presentati spesso con simpatia umana e con quell’entusiasmo da SciFi geek che IA sembrò saper mantenere fino all’ultimo, quando confessava d’essersi messo a piangere nella metro di New York leggendo La fine del giorno (The day is done, 1939) di Lester Del Ray, e accettava una partecipazione come guest-star alla serie 91-92 di Star Trek-The Next Generation che solo la morte gli impedì di realizzare.
Con la sua consueta ironia, diceva di sè: «Ogni tanto mi viene l’idea di catalogare TUTTI i racconti SF che sono mai stati scritti. Allora scuoto la testa finchè l’idea non se ne va». E lo stesso converrebbe fare a chi avesse l’idea di provare a catalogare tutte i suoi racconti, dall’inquietante apocalittico Notturno (Nightfall, 1941) al suo preferito, l’affascinante metafisico L’ultima domanda (The last question, 1956) dal delicato E se… (What if…, 1952), quasi un’anticipazione di Sliding Doors, al suo ultimo premio Hugo, Oro (Gold, 1992), un autoironico spin-off di Neanche gli dei (The Gods themselves, 1972), il suo romanzo stilisticamente più raffinato. Di tanti meriti, quello che però vale forse più la pena ricordare e sottolineare in questi giorni è il suo costante impegno contro ogni oscurantismo, ogni maccartismo, ogni soffocante e infida mistica dell’appartenenza. Ogni pensiero unico, compreso il capitalismo cannibale che, nel suo commento allo stupendo Mercato Prigioniero (Captive Market, 1954) di Philip K.Dick, definisce più minaccioso per la sopravvivenza dell’umanità della stessa bomba atomica.
Certe attuali chiamate alle armi, involuzioni colonialistiche tardo-imperiali, demonizzazioni della ricerca scientifica e del dissenso sembrano infatti una sinistra scopiazzatura delle regressioni da Asimov sarcasticamente stigmatizzate nelle sue più riuscite distopie, specie negli anni 50 del maccartismo, quando diceva a Sturgeon «Il campo della SF è più libero perché i censori sono troppo stupidi per leggere e capire la Fantascienza».
Il pericolo del ritorno a una nuova Dark Age pareva la sua preoccupazione più grande di sempre. Come è facile capire innanzitutto dallo stupendo già citato Notturno, nel quale un pianeta illuminato da 6 soli, che conosce una sola notte ogni 2049 anni, vede crollare ogni volta in quella notte la propria civiltà, travolta, più che dalle tenebre cosmiche, da quelle mentali dell’ignoranza, della superstizione, e del panico, più che dall’eclisse di sole, da quella del lume della ragione, mentre i pochi riusciti a resistere savi alla tortura del crepuscolo impazziscono di fronte alla scoperta per loro inaccettabile delll’esistenza di altri mondi. Impazziscono alla vista delle stelle.
«È il destino di Sisifo, l’unico che l’umanità possieda? Spingere ogni volta il masso fin sopra la montagna, per vederlo ogni volta rotolare di nuovo a valle?» si chiede Asimov per bocca del suo (quasi) alter-ego Hari Seldon in Fondazione anno zero (Forward the Foundation, 1992). È questa la sua attualissima “Ultima Domanda”, alla quale cercava risposte nel progresso della libera scienza e del libero pensiero, da fortificare attraverso l’esercizio del dubbio e del contraddittorio, e il rifiuto di ogni dogmatismo, anche scientifico, come dimostra un suo famoso aforisma: «In ogni secolo gli esseri umani hanno pensato di aver capito definitivamente l’Universo, e in ogni secolo si è capito che avevano sbagliato. Da ciò segue che l’unica cosa certa che possiamo dire oggi sulle nostre attuali conoscenze, è che sono sbagliate».
Nessun’altra certezza, dunque, per IA, se non la libera ricerca continua. Nella speranza che l’umanità fosse, come nel suo struggente La fine dell’Eternita (End of Eternity, 1955) capace di scrollarsi finalmente di dosso l’occhiuto, castrante, oppressivo controllo di certe rapaci e sclerotiche élites, per avviarsi così verso l’inizio dell’infinito.