macavale.jpgdi Paola De Luca

Cesare Battisti – «Ma Cavale» – Prefazione di Bernard-Henri Levy e postafazione di Fred Vargas – Grasset/Rivages – 18.50

«Augusto pensava a questo, e immaginava ogni sorta di cose, giusto per bloccare la porta alla paura. Si sentiva male dietro alla maschera, la sentiva spostarsi di continuo. Non appena frenava il rumore dei ricordi, sentiva la maschera cigolare come un paio di scarpe nuove. Ci vuole tenacia per costruirsi una maschera solida. La sua non aveva mai il tempo d’asciugarsi, ce ne voleva una nuova ogni giorno».

Parole tratte da Ma cavale, ultimo libro di Cesare Battisti, scritto dalla fuga, volato in Francia con un low cost misterioso e specialissimo, rara avis. Lui, il suo testo, come un resto di storia collettiva cristallizzata e ficcata dentro un involucro trasparente, che a capovolgerlo si mette a nevicare.

C’è gente che ha un destino bizzarro, magari predeterminato da una alchimia di nome/cognome, o dal taglio impudente degli occhi, chissà. Il prescelto come simbolo del male di tutta una generazione e chiamato a un ruolo mitopoietico di redenzione nazionale, non era certo destinato a diventare romanziere. Ma non gli restava altra scelta. Se non scrive, muore. Eppure deve scrivere ogni giorno, per morire ogni giorno, ciò che è il destino dei simboli. La comune fatica quotidiana per lui assurge a fato inesorabile. Chissà quali meccanismi regolano la storia della gente che vive su un determinato territorio e parla la stessa lingua. René Girard ne parla in termini d’invidia, mimetismo, capro espiatorio, violenza e sacro. Meglio non azzardarmi sul terreno filosofico, ma come spiegare che tutta una nazione di rissosi cronici ritrovi all’improvviso un’effimera ma innegabile unità nel designare un malefico assoluto, nell’isolarlo dal suo contesto per farne un deviante, un geneticamente modificato, se non per bisogno collettivo di rito purificatorio? Purtroppo, in era berluschiana, le cerimonie prendono tutte un aspetto publicitario, chiassoso e cheap, leggi del mercato obligent. Un enorme dito d’indignazione collettiva puntato su un ritaglio. Ma l’uomo e il suo ritaglio scappano. Gli anni passano, dieci, e quello riscappa, poi venti, trenta, e lui riscappa ancora, mentre altri, suoi cloni, identici di storia e di colpe, ma magari con occhi meno conturbanti, sono riusciti a fermarsi, a scavare un buchetto dove sotterrare il passato, così fan tutti. La fuga ha fatto di quest’individuo uno scrittore. «Esiliati, dicevano. Il giorno in cui non ci saranno più cani randagi al mondo, concluse Augusto, non ci sarà più vita».

Parigi 27 aprile 2006