di Girolamo De Michele
«Tutto ok? Respiri meglio? Tanto per la puzza di questo paese di merda te lo potevi risparmiare»
(SMS di un amico, dopo un intervento al setto nasale)
Senza nulla togliere a Nanni Moretti e Michele Placido, credo che La terra sia il film italiano più importante e più politicamente impegnato del 2006. Per capirlo bisogna guardare alle date di aprile, che com’è noto è il mese più crudele.
Il 2 aprile è stato abbattuto il primo troncone dell’Ecomostro di Punta Perotti. Il 24 aprile la demolizione è stata completata. L’evento ha assunto un valore simbolico: l’Ecomostro era proprietà della famiglia Matarrese, una delle famiglie (assieme ai Fitto, ai Mantovano, e via dicendo) che in Puglia dominano la terra e signoreggiano i cafoni da tempo immemorabile, forse da prima di Garibaldi. Nel 2005, la prima volta, un vento di primavera aveva spazzato via dai loro scranni i signori della terra, con le loro pagliette chiare: comune e provincia di Bari prima, e regione Puglia poi. La primavera pugliese, appunto. Il 9 aprile, con una impressionante dimostrazione di forza, i padroni della terra hanno mostrato i loro muscoli: il centrodestra ha sorpassato il centrosinistra (che pure è cresciuto, in un anno, di 40mila voti), riconquistando 80mila voti nelle due province del barese e 10mila nel brindisino [qui il dettaglio]. L’11 aprile un sorridente Alfredo Mantovano compariva sulle televisioni pubbliche e private a commentare la cattura di Bernardo Provenzano, intessendo per primo l’agiografica immagine del capomafia mistico (5 Bibbie!) e povero (cucinava cicoria!) nel casolare isolato. Detto da Mantovano, qualcosa vorrà dire. Soprattutto, qualcosa avrà voluto dire: semiotica e buon senso ci insegnano che non sempre è necessaria l’intenzionalità per lanciare un messaggio. Non sempre.
Ma cosa c’entra tutto questo con La terra e il suo personale aprile (candidato a 6 David di Donatello, non ne ha vinto alcuno)? E perché Tonino, il “cattivo” del film, puzza?
Questo film di Rubini si sposta, geograficamente, verso Mesagne, nella provincia di Brindisi. Completa un percorso: nei suoi film “pugliesi” Rubini ha tracciato una linea immaginaria che descrive le tre province nelle quali più forte è l’intreccio tra malavita organizzata e baronie politiche. Le terre dei caporali e dei paglietta, della Sacra Corona, dei contrabbandieri con le auto blindate e dei mercanti di carne. Un percorso che appare tagliato e cucito su misura per il corpo di una Puglia che diventa metafora dell’Italia, proprio nel senso in cui Sciascia parlava di Sicilia come metafora. Ciò che Rubini sta facendo da tempo è questo: un viaggio, attraverso un mondo che non gli appartiene più, ma dal quale non riesce a staccarsi, nei luoghi mentali dell’Italia. Una geografia dell’anima, all’interno della quale si muovono figure emblematiche. Quattro fratelli: Luigi, il “ragionatore” senza passione; Michele, l’affarista mediocre con ambizioni politiche, l'”italiano”; Mario, l’idealista esaltato; Aldo, l’impulsivo, il furioso. E Tonino, l’usuraio che sta comprando, un pezzo dopo l’altro, case, terre, uomini e donne. I quattro fratelli rappresentano, a ben vedere, una sorta di mappa platonica dell’anima: la ragione, i desideri mondani, l’impulso all’azione irriflessiva. Rubini ci aggiunge l’idealismo un po’ cieco, una forma anch’essa di alogicità, di ragione parziale. Tutti insieme, nella variazione continua dei loro rapporti, descrivono movimenti di animali chiusi nella gabbia mentale del recinto familiare nel quale sono ripiombati, o dal quale forse non sono mai usciti. Tutto ruota attorno a un pezzo di terra: la terra, la roba, la merce simbolica per eccellenza, da mastro don Gesualdo allo zio Binnu. E tutto sembra risentire della corruzione dell’anima di cui è capace Tonino, con i suoi capelli unti, la sua forfora, la sua pelle macchiata. Ha detto Rubini in un’intervista ad Arianna Finos [qui]: il cattivo odore di questo personaggio si doveva sentire fuori dallo schermo. Tutto è maleodorante, dentro e fuori lo schermo. Il fetore dell’anima di Tonino è il tramite tra la favola noir del film e la realtà di cui Rubini vuole narrare. Tonino è il vero caimano: non il Caimano con la C maiuscola, che rischia persino di essere autoassolutorio (non nel film di Moretti, nel quale la parte più politica è la descrizione del mondo del cinema come nido di vipere). Troppo facile attribuire ogni colpa, ogni responsabilità al Caimano: così facile che qualcuno ha finito col pensare: “Aridatece er Puzzone” (e così è andata, o quasi). Rubini va più a fondo, si inoltra nel lerciume delle coscienze. Porta sullo schermo il piccolo caimano che è dentro di noi, quel caimano che ci fa amare il potere, ce lo fa desiderare, ce lo fa invidiare. Quel caimano che respiriamo ogni giorno. Quel caimano che porta metà di questo paese a riconoscersi nel suo odore, nei suoi desideri, nel suo gretto attaccamento al denaro, alla roba, alla terra. dal quale non si può sfuggire se non entrando nel ventre della bestia, se non riconoscendo quella bestia come parte di noi: solo a questa condizione la bestia può essere sconfitta, solo riconoscendo dentro di noi l’orrore della gabbia familiare, la violenza dell’attaccamento proprietario. La Puglia di Rubini è il nostro paese, inutile negarlo. Scavando dentro questo paese, Rubini combatte una battaglia imprescindibile: il suo film ci ricorda che, al di là dei giochi parlamentari, quand’anche si riuscisse a far ri-astenere un milione o due di elettori e si mandasse definitivamente altrove il Grande Caimano, resterebbero sempre i piccoli, untuosi, puzzolenti Tonino nel negozio sotto casa, seduti al bar, nel condominio, in strada. Nella nostra città, nel nostro paese. Per raccontare questo Rubini è dovuto tornare nei luoghi che ha abbandonato a 18 anni: per poter raccontare la possibilità di una Puglia, di un Sud, di un’Italia diversi. Il mondo è abbastanza grande, un luogo per andare via ci sarà sempre: è da se stessi che è impossibile fuggire. Per espatriare da se stessi bisogna distruggere quelle patrie che ci imprigionano, disindividualizzare la nostra vita. Per poterlo fare bisogna addentrarsi nella balena, non come Giona, ma come Pinocchio: non per tornare ad obbedire al Grande Padre Castratore, ma per donare al piccolo vecchio padre falegname quella vita di cui non ha goduto, dopo aver schiacciato col martello il Grillo parlante della nostra falsa coscienza. Per diventare altri.
Riconoscere come nostro ciò da cui vogliamo liberarci è il primo passo.
Anche La terra è un piccolo germoglio di espatrio.