Esce il memoriale dell´ex terrorista fuggito per evitare l´estradizione in Italia. Sarebbe stato un pentito a dichiarare il falso, ma naturalmente è tutto da verificare. Per la prima volta si difende e nega i delitti per cui è stato condannato all´ergastolo. Nel libro si narra in modo un po´ romanzesco la fuga verso l´Oriente Bernard-Henri Lévy e Fred Vargas sostengono le ragioni del latitante
di Fabio Gambaro
[da Repubblica]
PARIGI – «Non ho mai ucciso. Sono colpevole d´aver militato in un gruppo armato a scopo sovversivo e di aver posseduto delle armi. Ma non ho mai sparato a nessuno». Da un nascondiglio dall´altra parte del mondo, Cesare Battisti spedisce ai lettori la sua verità, tutta da provare, ovviamente, nel tentativo di riconquistare il favore dell´opinione pubblica. A giorni, infatti, arriverà nelle librerie francesi un volume intitolato Ma cavale (“La mia fuga”, Grasset/Rivages, pagg. 374, euro 18,50), in cui l´ex militante dei Proletari Armati per il Comunismo racconta la sua fuga da Parigi e il lungo periplo per sottrarsi alla giustizia. E soprattutto dichiara per la prima volta di essere estraneo agli omicidi per i quali in Italia è stato condannato all´ergastolo, denunciando il voltafaccia della giustizia francese che, dopo avergli consentito di vivere legalmente in Francia per quattordici anni, quasi due anni fa ha deciso di autorizzare la sua estradizione in Italia.
Motivo per cui, il 17 agosto del 2004, l´ex terrorista diventato scrittore di successo ha fatto perdere le sue tracce, sparendo nel nulla. Venti mesi di silenzio, da cui rispunta oggi con la pubblicazione di questa lunga memoria autobiografica, che Bernard-Henri Lévy, nella prefazione, definisce «un inquietante, terrificante ma appassionante racconto».
E´ da un paese dell´Oriente, forse l´India (ma potrebbe anche essere una falsa pista per confondere le idee a chi lo sta cercando), che Battisti ha spedito il voluminoso manoscritto di Ma cavale. Un libro che giungerà in libreria insieme a L´eau du diamant (Editions du Masque, pagg. 304, euro 18), un giallo scritto da Battisti prima della fuga e finora mai pubblicato. L´autodifesa dell´ex terrorista viene pubblicata da una delle più prestigiose case editrici parigine, che ha aggiunto al testo, oltre che la prefazione di Lévy, anche una postfazione di Fred Vargas, la giallista parigina che si è molto battuta contro la sua estradizione.
«Se racconto la mia fuga è per pura necessità. E´ l´unico modo per sopportare la situazione», spiega Battisti, che però, prima di narrare le rocambolesche avventure della latitanza, sente il bisogno di ricostruire la sua storia passata, per provare a scrollarsi di dosso l´immagine del terrorista assassino che, dice, gli è stata costruita addosso dagli «specialisti della propaganda».
«Non posso essere io quell´uomo che i media hanno trasformato in un mostro e poi ridotto al silenzio delle ombre», scrive nella prima parte del libro, in cui scorrono la militanza durante gli anni Settanta, la rottura con il Partito Comunista, l´avvicinamento all´area dell´Autonomia Operaia, gli espropri proletari («una definizione che ci permetteva di abbellire con una connotazione politica i furti e le rapine»), la prima esperienza in carcere, dove conosce alcuni militanti del partito armato. Uscito di prigione, nel 1977, colui che si definisce «un ribelle» entra in contatto con i PAC e con uno dei loro fondatori, Pietro Mutti, un autonomo dell´Alfa Romeo passato alla lotta armata. «Un boia, la cui falsa testimonianza, resa in mia assenza, mi è costata la condanna all´ergastolo», lo definisce oggi Battisti, che pure era stato suo amico, dividendo perfino «lo stesso letto e la stessa donna».
La militanza nel gruppo armato, giura Battisti, fu però breve, poco più di un anno. I primi dubbi sull´inutilità della deriva terrorista si fecero largo quando Moro fu assassinato («un´esecuzione spaventosa»), ma fu dopo il primo omicidio rivendicato dai PAC, quello d´Antonio Santoro nell´estate del 1978, che egli decise di rompere con la lotta armata: «A farmi cambiare idea era la visione chiara di una via senza uscita. Era quel sangue versato che non avevo mai voluto, da una parte come dall´altra».
Con alcuni militanti della prima ora, decide di voltare pagina, restando chiuso in un appartamento di Milano dalla fine del 1978 fino al suo arresto, nel giugno dell´anno successivo. La sua situazione, scrive, era quella di «un clandestino armato senza organizzazione» che cercava solo di sopravvivere e di evitare l´arresto, mentre fuori i Proletari Armati per il comunismo continuavano la loro deriva violenta e sanguinaria.
Durante quei mesi, infatti, il gruppo rivendica gli altri tre omicidi per i quali Battisti verrà condannato (quelli di Pierluigi Torreggiani, Lino Sabbadin e Andrea Campagna), omicidi a cui, per la prima volta in maniera esplicita, in Ma cavale lo scrittore si dichiara del tutto estraneo. La notizia l´apprese dalla stampa: «Fu un colpo terribile, leggere che il figlio di Torreggiani, era stato ferito durante l´attacco. Si seppe che il bambino era stato colpito da una pallottola di suo padre e non dagli aggressori, ma per me non cambiava nulla. Era pur sempre il risultato di un´azione di un gruppo autonomo di quartiere che si era firmato PAC. Ero sconvolto. Con quel dramma non c´entro nulla, ma resta uno dei peggiori ricordi della mia vita».
E di fronte al dolore e al lutto delle famiglie delle vittime, un quarto di secolo dopo Battisti prova anche a chiedere perdono: «anche se non ho mai aperto il fuoco su nessuno, mi sento in un certo senso politicamente responsabile di ciò che è capitato loro». La responsabilità materiale degli omicidi gli venne invece attribuita da Mutti, che, arrestato nel 1982, si pentì, accusando l´ex amico, che nel frattempo era evaso dal carcere di Frosinone ed era fuggito in Francia, finendo poi in Messico, dove per molti anni non ebbe «un solo contatto con la famiglia o con l´avvocato».
Stando al suo racconto, l´ex militante dei PAC avrebbe scoperto la condanna all´ergastolo solo diversi anni dopo, nel 1990, una volta tornato in Francia, che all´epoca negò la sua estradizione in Italia.
Leggendo le parole di Battisti, viene spontaneo domandarsi perché non abbia dichiarato prima la sua innocenza e non abbia mai preso le distanze pubblicamente dal pentito che lo accusava. Ci si domanda perché abbia sempre evitato di dare una risposta precisa a chi gli chiedeva se fosse o meno responsabile di ciò che gli veniva rimproverato. A tale obiezione, Battisti oggi replica così: «Non potevo rispondere a questa domanda per non rompere la linea difensiva decisa dai miei avvocati: una difesa collettiva che, indipendentemente dagli addebiti specifici, lottava per la protezione di tutti i rifugiati italiani, senza alcuna discriminazione, che fossero innocenti o meno, contumaci oppure no».
Un «silenzio suicida», di cui oggi si pente e che, oltre a cambiare linea difensiva, lo ha spinto a scrivere Ma cavale, nella cui seconda parte (intitolata «Diario di un cane randagio»), pur senza entrare nei dettagli e senza dare indicazioni precise sui luoghi, lo scrittore racconta le peripezie della sua rocambolesca latitanza. In queste pagine più romanzesche, sulla cui veridicità i dubbi non mancano, egli abbandona il racconto in prima persona, preferendo utilizzare come controfigura un personaggio fittizio di nome Auguste, che viaggia con un falso passaporto ungherese.
Uscito dalla Francia con la complicità di un prete comunista che lo ha fatto salire su un charter di religiosi in partenza per un´isola dell´Oceano Indiano, il fuggitivo ha poi proseguito in barca fino a un paese che potrebbe essere lo Yemen. Da qui, aiutato ora da una prostituta compassionevole ora da un commerciante musulmano, ha proseguito il suo viaggio tra le isole dell´oceano, passando forse per le Maldive (dove deve tenersi alla larga dai turisti italiani) e raggiungendo infine «un paese più grande di un intero continente». Un luogo ideale per nascondersi e far perdere le proprie tracce provando «ad agire, pensare e sistemarsi come se non ci fosse ritorno possibile». Provando, insomma, a diventare «asiatico tra gli asiatici».
Il racconto di Battisti finisce qui, senza alcuna possibilità per il lettore di verificare le sue parole. Vedremo se l´opinione pubblica francese sarà sensibile al suo tentativo di discolparsi e se ciò avrà qualche conseguenza sulla sua vicenda giudiziaria. I suoi legali hanno infatti tentato un ultimo ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell´Uomo, nella speranza che questa ribalti le precedenti decisioni dei giudici francesi, consentendo a Battisti di rientrare in Francia senza più temere l´estradizione.
E´ proprio su quest´ultima battaglia legale che si concentrano Fred Vargas e Bernard-Henri Lévy, i quali accusano il loro paese di essere venuto meno alla parola data, oltretutto accettando una condanna resa senza la presenza dell´imputato e sulla base delle parole dei pentiti. Accuse che, insieme alle dichiarazioni dell´autore di Ma cavale, non mancheranno di rilanciare le polemiche sul caso Battisti. Un caso che in Francia e non solo farà ancora discutere a lungo.