di Giuseppe Genna
Il Paese di Merda si conferma tale. Dicotomizzato nell’esasperazione, trascinato a un voto di massa paradossale, tale perché, in una nazione in cui il 7% della popolazione soltanto è in grado di acquistare e leggere un libro all’anno, il voto di massa fa venire a galla la sugna della sottocultura a cui Berlusconi, coerentemente, si è appellato fino alla fine, spingendo per la più larga partecipazione al voto. Una nazione divisa e polarizzata è, secondo l’interpretazione contemporaneista all’anglossassone, l’unica e la migliore democrazia possibile. Non è così.
Intanto, il primo dato: l’era del Berlusconi solo al comando è finita. L’uomo cuoiato potrà tentare dilazione o metamorfosi, ma la sconfitta di oggi è un discrimine definitivo nella storia italiana.
Non afferma questa banalità una persona che, di Berlusconi, concepisce l’ideologia della causa della patologia da curare. Berlusconi è un sintomo puro e semplice, e lo è da trent’anni, di una malattia che fu innescata proprio trent’anni fa dal riformismo craxiano (ma Craxi stesso era un sintomo), maturato fino a ridurre alle pezze le tasche e i lobi cerebrali di una nazione. E, si badi, quel riformismo costituisce la spina dorsale del programma delle componenti non comuniste del Centrosinistra.
Archiviata la gioia per questa definitiva eliminazione di un uomo che ha imposto un protocollo devastante (le istituzioni usate come clava politica: si veda la conferenza della Presidenza del Consiglio di oggi, presente Cesa, segretario di coalizione e non ministro – una situazione di cui nessuno pare più accorgersi), si consideri cosa va a fare il nuovo governo.
Il nuovo governo opererà subito sul piano economico. Problema dalla doppia facies: è un’emergenza assoluta, l’Italia rischia di uscire dall’area euro seriamente; d’altro canto, l’economia si propone come piattaforma unica da cui possono emergere le iniziative politiche. Questa è un’interpretazione unica che opera secondo le modalità con cui il continente europeo ha deciso di unirsi attraverso uno Zollverein devastante, dimostrando di giorno in giorno che lo Stato nazione non è tramontato affatto e agisce secondo peculiarità che sono esasperate da una globalizzazione realizzata a metà. Ciò impone di considerare la cecità di un internazionalismo delle moltitudini a breve respiro: accade che lo Stato sia in gran forma europea, intatta, unito soltanto da legacci fiscali e da politiche economiche che impongono una legge Biagi ubiqua, respinta tuttavia di Stato in Stato, come ha dimostrato l’eccezionale sollevazione democratica in Francia. L’impatto subìto dal continente in seguito all’abbattimento delle linee fondamentali dal trattato di Westfalia con la sciagurata guerra in Iraq è la dimostrazione palese che l’Europa dell’euro non è così lontana dal serpentone SME di antica memoria. Lo dico dichiarando senza imbarazzi di fare parte di quel 4% che più di dieci anni orsono votò contro l’Unione europea così concepita. E’, credo, il motivo per cui, a ogni bocciatura dell’indegna Costituzione europea ai referendum indetti negli Stati nazione europei, su Carmilla si sono dimostrati tracimanti soddisfazione. La tentazione sarebbe a questo punto entrare definitivamente in crisi: è necessario che il Paese subisca la scossa decisiva di un rifacimento istituzionale e strutturale (scuola, lavoro, industria, cultura), che permetta di abbassare il livello di aspettative materiali che la comunità nutre a colpi di mutui e rate, per giungere a un’effettiva liberazione delle residue energie creative di cui disponiamo – che sono risorse anzitutto umanistiche. Ma di ciò, a termine articolo.
Per il futuro governo le prospettive sono nerissime. Basterà qualche sospetto prostatico a un senatore per fare vacillare Prodi. La compagine non eseguirà alcuna politica massimalista, con tutta probabilità, tracheggiando tra il condiviso e il sottinteso, per evitare contrasti interni e conflitti con l’esterno. La piattaforma economica seguirà con servile accondiscendenza i rating e le modalità più imposte che suggerite dalla nube tecnocratica che incombe ovunque in occidente: FMI, Aspen, Trilateral, Ecofin, commissioni di Bruxelles dove agiscono funzionari non eletti da nessuno.
La situazione è questa. Il Paese, perfettamente bino, si è rivelato molto più di merda di quanto sospettasse lo scrivente. Va sottolineato, ancora una volta, che è comunque finita l’era di Berlusconi, e questo non può essere che un motivo di gioia per chi ha subìto con disdoro e disperazione lo svilimento delle istituzioni, della civiltà e della cultura della nazione in cui vive.
La terapia choc è da somministrare in termini di immaginario, cioè culturali. La sottocultura è l’autentico principio di inerzia italiana. Le premesse devastanti del politico consumatosi in quarant’anni di Democrazia Cristiana si sono rovesciate in una devastazione persuasiva non occulta, ma evidente e alla mano. A fronte di questo, che è il reale problema italiano, l’appello è a chi riesce a intervenire sulla rappresentazione del mondo e l’autorappresentazione di se stessi – cioè a chi lavora in termini narrativi e poetici e di immagini in movimento. Potrebbe sembrare, di fronte a colossali problemi storici che attraversiamo, una masturbazione intellettuale, e forse lo è. Ma non è tanto questione di masturbazioni, quanto di eiezione di spermatozoi: ci sono masturbazioni in grado di mettere incinte donne che sono nei paraggi.