di Giuseppe Genna
Non so se questa dichiarazione di voto rappresenti la totalità della vasta comunità che fa Carmilla. Ancora meno sono certo che una dichiarazione di voto qui esplicitata possa mutare di qualche preferenza l’andamento delle elezioni legislative di domenica e lunedì. Ma qui sta il punto, la democrazia è esattamente questo perno centrale e minuscolo, attorno a cui ruota l’intera piattaforma sociale. Perno la cui materia è metallica: è purissima responsabilità. Con i metalli si fabbricano astronavi o coltelli. Perfino coi coltelli si taglia il pane o si uccide. E’ un momento individuale e collettivo allo stesso tempo, delicatissimo – e di tale delicatezza, da scrittore e intellettuale, vorrei parlare.
Cominciando con la dichiarazione che voterò Unione e invito chiunque a farlo.
Lo spettacolo indegno a cui abbiamo assistito in questa campagna elettorale, che copriva tutto lo spettro dello schifo mediatico e morale di cui l’Italia è da almeno vent’anni la landa desolata, dal pedissequo alla rozzezza, dalla mistificazione all’ipnosi, dal linguaggio stercorario a quello vagamente patafisico, è non tanto il segno dei tempi: è il segnale dei tempi. Questa fanghiglia che è smottata catodicamente nelle abitazioni degli italiani tutti, volenti o nolenti, a cui era intermittente nel migliore dei casi un vuoto pneumatico assordante, segnala che la comunità di cui faccio parte, il popolo italiano, sta vivendo uno dei periodi più allucinanti (nel senso letterale del termine) della sua storia democratica. La comoda inversione di polarità tra vero e falso, propalata con una facilità sconcertante, il messianesimo isterico del candidato di governo, la claque pronta a rendere ultreme le affermazioni già estremistiche del loro boss, le gaffes, le contraddizioni più imbarazzanti, i miraggi allusi con faciloneria davanti ai telespettatori (poiché questo sono diventati essenzialmente gli elettori), le palinodie esplicitati su tempi brevissimi in materia di tasse scuola donne industria formazione lavoro, la confusione preterintenzionale imposta ad alte ottave: tutto ciò, tutto questo evidente rumore di un fondo divenuto primo piano, non ha schiodato minimamente gli italiani dalla loro rudimentale concezione delle elezioni, che è calcistica, derbistica, il che a tutt’oggi garantisce un’alta affluenza alle urne, nonostante il modello propagandistico e direi tutto il contesto testimonii di un’avanzata americanizzazione della campagna.
Dico in realtà una bugia: gli italiani, secondo i sondaggi, sembrano essersi minimamente schiodati, ma non è certo una consolazione. La vittoria della sottocultura, con cui un uomo si è messo solo al comando – battaglia strategicamente condotta nell’arco di un quarto di secolo – è assicurata da quella che, almeno ai miei occhi, rimane una realtà sconcertante, degna di una fuga alla Papillon da questa appendice dell’Impero: quasi la metà dei miei connazionali è ancora mesmerizzata da un fenomeno che, via via, per inserti di modifiche genetiche al cuoio capelluto, all’epidermide e chissà dove altro, è ciò che risulta più prossimo al post-human di cui si teorizzò anni fa e che nei fumetti osserviamo con godimento erompere ormai continuativamente.
Recentemente sono andato a vedere Il Caimano di Moretti. Vi risparmio un giudizio analitico sulla pellicola, che mi ha fatto schifo. Non posso però tacere il moto nevrotico che mi ha scosso quando è apparsa l’ormai celeberrima scena di Berlusconi al Parlamento europeo mentre dà del kapò al socialdemocratico tedesco Schultz: in Italia, ci hanno fatto ammirare quei due minuti sufficienti a constatare l’incarnato essangue dell’uomo prossimo al Presidente del Consiglio, un Gianfranco Fini trasfigurato dall’imbarazzo; Il Caimano invece include la quasi totalità del dibattito in aula europea, fitto di interventi indignatissimi, con Berlusconi che dà dei “turisti della democrazia” a insigni personalità straniere. Essangue come Fini, ho subìto una stretta allo stomaco, la tentazione era quella di abbandonare il cinema. La sottocultura con cui quest’uomo si è imposto al Paese colpisce financo fisicamente e, come è chiaro da quella lunghissima sequenza documentaria, aspira a risultare un prodotto d’esportazione, il made in Italy pronto per essere consumato da folle sarkosizzate, blairizzate, fortunatamente non più aznarizzate. E’ l’avanguardia dell’ignoranza qualunquista, è il trionfo di quello che Wu Ming 1 ha una volta genialmente definito “microfascismo antropologico italiano”. E’ la sussunzione della razza in epoca OGM, essa stessa una razza OGM, uno sterminato hinterland che non considera più la cultura, la ragione e l’emozione come mezzi di partecipazione alla comprensione del politico e alla comunità in genere. Fare lo scrittore di questi tempi impone una fatica supplementare: c’è poco meno della metà del Paese che ti considera un fancazzista votato al passato, che è fatto di cose inutili e viete.
Si parte sconfitti, dunque: anche se si vince. C’è da ricolonizzare l’animo delle persone, c’è da operare per fare sentire a ogni italiano che egli ha una propria individualità in relazione a una comunità. C’è da lavorare psichicamente, sì, ma su un concetto che è estremamente materico ed è l’alienazione: quella classica, a cui Marx cerca di fornire una terapia che non sia psicofarmacologica. Questo Paese ha recentemente superato la Germania nel consumo percentuale di psicofarmaci: simili primati vòlti al negativo fioccano da anni e costituiscono l’esito più naturale (cioè, per definizione, l’innaturale stesso) di una concezione della vita subumana, che riduce il grano da simbolo a unico concreto rappresentante del desiderio, che stilizza l’esistenza con trend imposti secondo metodologie che, dal fascismo, mutuano tutto tranne che la grossolanità dell’imposizione stessa, la quale è mielosamente persuasiva e sottile prima di diventare semplicemente volgare, ed è incrementale in quanto le difese emotive e cognitive del popolo sottoposto a queste pratiche vanno scadendo in un disagio che occupa le menti e i cuori, e abbisogna di pillole per non sentirsi.
Siamo a una svolta? Questo è un augurio più che una dichiarazione di voto. Non so se, vinte eventualmente le elezioni dal cosiddetto Centrosinistra (questo gergo da anni Cinquanta che si perpetua perpetrandosi: un altro sintomo dell’anomalia in cui siamo immersi), esso sia in grado di fornire una risposta al disagio generalizzato, avvertito da metà popolazione e non percepito dall’altra metà.
Poiché l’unica cura è l’immaginario, cioè un profondo lavoro di ricostruzione del modo in cui ci rappresentiamo la realtà, serviranno lavoratori dell’immaginario. Servirà, una volta ancora, come sempre è stato, la dura fatica dei proletari dell’immaginario, nelle cui schiere mi allineo, per un lavoro che, più che alacre, per realismo dico essere disperato. Valga il fatto che nessuno dei proletari e artigiani dell’immaginario, che hanno tenuto botta in questi anni di vessazioni fantastiche e realissime, i quali anni hanno fruttato financo processi penali per opinioni liberamente espresse, sembra volere venir meno a un’opera che, vista da fuori, potrebbe sembrare ossessiva, e che invece all’interno dei confini italiani è soltanto testarda e tesa al bene comune.