di Girolamo de Michele
Questo intervento, pubblicato su Liberazione dell’8 aprile 2006, risponde agli stimoli di Luisa Muraro, «Possiamo dire la verità?» e Marco Mancassola, «La lingua italiana dopo Silvio Berlusconi» (g.d.m.).
La condanna dello storico David Irving e la “battuta” sui bambini cinesi hanno riproposto il problema della verità storica, su cui è intervenuta sul Manifesto del 21 marzo Luisa Muraro, allargando la questione al problema dell’uso della menzogna, dell’indifferenza verso la verità e delle strategie di accertamento della verità. Irving, è noto, nega (o negava) l’esistenza della Shoà. Nei suoi confronti la questione della verità coincide con l’accertamento del fatto storico: l’ideale sarebbe poter accertare empiricamente che nel tal giorno e nel tal luogo accadde il fatto X. Purtroppo il fatto storico non è atemporale come le leggi della fisica (benché abbia anch’esso le sue leggi, con buona pace di Popper): quindi siamo il più delle volte costretti a sostituire l’impossibilità di una verifica diretta con un rigoroso utilizzo dei dati in nostro possesso — e un altrettanto rigoroso controllo delle strategie di correlazione di dato a dato — che ci porti alla più verosimile delle ricostruzioni.
Che il fatto storico sia una nozione ambigua, dipendente dalle fonti in nostro possesso e dalle loro interpretazioni, è un’acquisizione della ricerca storica quantomeno dalla nascita della Scuola degli Annales (ma già Vico lo aveva compreso). Ma contrariamente a quel che può sembrare, il negazionismo finisce addirittura col giocare in favore del ricordo di quel che è stato. I negazionisti cadono nella loro pretesa pseudo-scientifica laddove pretendono di far ricorso a un concetto di oggettività costruito in modo da non concedere alcuna possibilità di risposta: su un loro sito si possono trovare domande come: «quanti ebrei morti nelle camere a gas conoscete personalmente?» «quante camere a gas avete effettivamente visto in funzione?». Il modo migliore per confutare questi storici è proseguire la ricerca e aggiungere prova a prova, scacciando la cattiva storiografia con quella ben fatta. Oggi sappiamo molto di più sulle tecniche di costruzione e di funzionamento delle camere a gas, sull’uso del Zyklon B, sulle modalità dello sterminio da ricerche che hanno reagito alla pretesa negazionista. La possibilità che un fatto storico possa essere modificato da nuovi dati non comporta solo la possibilità di negare la verità effettuale: che dipende non tanto dallo statuto epistemologico delle scienze storiche, quanto dai concreti rapporti di forza e di assoggettamento. Il negazionista, come il Mefistofele goethiano, «eternamente vuole il male, ed eternamente causa il bene». Insomma, pur con le sue ambiguità epistemologiche, il “fatto storico” non costituisce un problema in sé. I problemi nascono quando dal fatto, inteso come un caso empirico verificabile, si passa alla sua generalizzazione attraverso l’interpretazione. Qui viene buona, suo malgrado, la «discutibile battuta» di Berlusconi, che ha ribadito di aver citato «un fatto storico inoppugnabile».
Tralasciamo di pronunciarci sulla certezza delle sue fonti, ed esaminiamo l’uso del fatto storico con un esempio pratico: se esco di casa e vedo che la strada è bagnata, ipotizzo, unendo l’osservazione a una regola generale, che ieri notte ha piovuto. Naturalmente l’ipotesi è, proprio perché verificabile, suscettibile di una diversa interpretazione: forse ieri notte hanno lavato la strada. Ora, nel caso dei bambini bolliti, qual è la regola generale? Chi uccide i bambini: i comunisti, i cinesi, i comunisti cinesi? O gli esseri umani che, in stato di carestia, “regrediscono” al di sotto della soglia di umanità? Si obietterà: uccidere i bambini è comunque cosa atroce. Vero: ma lo è anche uccidere le amiche e saponificarne o mangiarne le parti sezionate del corpo, come fece Leonarda Cianciulli nel 1939: per follia o per reazione alla miseria? Cosa dovremmo concludere su ciò che facevano al tempo del fascismo gli italiani? Torniamo alla regola di cui è privo il cattivo ragionamento di Berlusconi. Connettere un evento empiricamente provato (le camere a gas fumanti fotografate da un ricognitore britannico) a una regola (la soluzione totale) produce un’affermazione (ad Auschwitz, il 23 agosto 1944 alle ore 11, ebrei incolonnati entravano nelle camere a gas) che tiene conto del fatto che lo sterminio degli ebrei era un elemento consustanziale, e non occasionale, della dottrina nazista, e financo della parte più radicale di quella fascista, da Pavolini a Preziosi. L’uscita di Berlusconi farebbe dunque parte, stante la sua inverificabilità, di quel «ricorso alla menzogna» che Muraro attribuisce all’attuale capo del governo? Io direi di no: nella sua inverificabilità, le parole di Berlusconi attengono piuttosto a quell’area che, negandosi tanto all’affermazione quanto alla negazione della verità fattuale, viene definita dal filosofo Harry G. Frankfurt come stronzata. Quel «disordine simbolico demoralizzante» che Muraro individua come effetto del linguaggio berlusconiano mi sembra sia l’effetto non tanto della negazione della verità, quanto dell’insignificanza di verità e falsità. Il “regime della stronzata”, contrapposto al “regime della verità” di foucaultiana memoria, è l’effetto dell’onda lunga della deresponsabilizzazione etica, dell’effetto sedativo della facoltà di giudizio critico riflessivo provocato da un uso accorto dei media e dal ventennale deperimento (dalla fine degli anni Settanta sino alla nuova stagione dei movimenti) delle forme di socializzazione e collettivizzazione dell’esperienza comune, di produzione dell’immaginario, di dismissione del lavoro sulla sfera del simbolico. Una caduta che ha avuto conseguenze verificabili anche sul linguaggio: Marco Mancassola lo mette in relazione con «una vita sempre più flessibile, multipla, frammentata, una vita-collage di identità provvisorie cui corrispondono, per mancanza di tempo e risorse, esperienze sempre più standard», una lingua «di parole innocue, di frasi da montare e smontare senza dolore come un mobile dell’Ikea». Questo vuoto è stato riempito dall’ideologia della fine delle ideologie, dalla falsa alternativa tra indifferentismo (il post-modernismo da hard discount di Mediaset, ma anche della Rai di Guglielmi e Zaccaria) e nuovo teo-conservatorismo (l’asse Ferrara-Pera-Ratzinger): sia il berlusconismo che le sue alternative sul versante del comando e del capitale sono più l’effetto che la causa della degenerazione etica prodotta dal crollo di un blocco sociale sedimentatosi nel cinquantennio di potere democristiano. A questo punto Muraro propone, dopo una qualche presa di distanze dal relativismo e dall’indifferentismo, di «cominciare a pensare alla verità nei termini di un processo in cui sia coinvolta la comunità dei parlanti, fatto di pratiche e di ricerca, processo di «generazione» della verità dicibile e riconoscibile dal comune delle persone». Su Left Wing Massimo Adinolfi sostiene che Muraro ha «trovato una buona definizione per quel che c’è già, ovvero le società liberal-democratiche». Io obietterei a Muraro che relativismo non è sinonimo di indifferenza: quest’ultima è funzionale al processo di astrazione dei corpi e delle pratiche del capitale globale, alla trasformazione della materialità di corpi e passioni in enti astratti e scambiabili, in cui consiste per Christian Marazzi (Capitale e linguaggio) la vera dimensione “imperiale” del capitale post-moderno. Il relativismo invece è il riconoscimento della caduta (del disvelamento della menzogna) dei valori, e al tempo stesso il punto di partenza per quella pratica costituente della verità cui allude. Ad Adinolfi ricorderei che il relativismo, nella sfera politica liberal-democratica, non sempre si configura come processo costituente, come creazione comune di regole e valori a partire dal farsi comune dell’individuo. In democrazia per Adinolfi «tutti, insieme, camminano verso la verità»: quel cammino è il farsi stesso della verità, il germinare di un’etica nella quale l’individuo singolare interseca la dimensione comune senza esserne schiacciato.