di Cesare Battisti
3. La dissoluzione del sottoproletariato e le sue conseguenze
Ma da dove venivano quelle orde selvagge di giovani che volevano tutto e subito? Anche la risposta a questa domanda esige un passo indietro.
All’inizio degli anni ’60 i più poveri tra i poveri in Italia avevano ancora il comportamento archetipico della società dei miserabili. La purezza della povertà che li contraddistingueva valeva loro l’appellativo di “sottoproletari” Erano portatori di valori antichi, di vecchie culture regionali e di un modello di relazioni sociali privo di qualsiasi legame con le regole urbane. Vivevano nelle loro grandi riserve ove dimoravano ancora usanze feudali, dimenticati da Dio e visitati dai candidati politici durante la campagna elettorale.
Erano poveri ma totalmente liberi. L’unico elemento che li condizionava era la loro stessa povertà: un elemento che li marcava e che era parte integrante del loro mondo (Pier Paolo Pasolini, 1976). A differenza degli operai, questi sottoproletari si erano mantenuti ai margini della storia borghese. Rimanevano degli estranei. I più poveri tra i poveri, i nomadi, i figli di ragazze madri, gli uomini e le donne abbandonati, chiunque avesse un marchio di nascita finiva per radunarsi ai margini dei margini della società Per tali ragioni, e fino alla fine degli anni ’60, chi sapeva adattarsi trovava velocemente un posto in questa struttura prevista da un ordine sociale quasi immemorabile, preciso e fatale. In questo universo, ciascuno cercava di adattarsi ad attività ineluttabili ben stabilite e identificate fin dall’inizio, in certo modo. Diventava un bandito, un delinquente o semplicemente un miserabile.
Ma ecco che durante il boom economico degli anni ’60, la massiccia emigrazione dall’Italia profonda, questa riserva di voti e di manodopera, spazza via i recinti che contenevano la massa dei poveri rinchiusa nelle vecchie riserve Dalle brecce aperte, fiotti di giovani miserabili si riversavano in altri territori, popolando il mondo proletario o borghese. Tale flusso generale darà origine a un nuovo tipo di disadattato, privo di un proprio modello di vita, senza alcun punto di riferimento.
Simultaneamente, lo spirito della classe dominante, fino ad allora contenuto entro le frontiere delle cittadelle urbane, finì per penetrare l’intera società fino agli anfratti più remoti. In pochissimo tempo si diffuse in tutto il paese un diverso modello di vita, conosciuto fino ad allora soltanto dai privilegiati, annullando le antiche culture locali, rendendole bruscamente inutili e grottesche, annichilendo le tradizioni, fossilizzando i dialetti, ridicolizzando i particolarismi. I poverissimi si trovarono così brutalmente privati della propria cultura, spossessati della propria libertà e dei modelli di vita che attestavano la loro esistenza nel mondo. In questo modo emergeva un secondo genere di disadattati, che finì per aggiungersi a coloro che avevano lasciato le riserve e a chi ancora ci viveva.
Ed è qui che si pone la domanda cruciale: che faranno questi giovani per i quali, ormai, l’appellativo di “disadattati” è divenuto intollerabile? Be’, faranno quello che fanno i figli dei ricchi, gli studenti, modello di realizzazione sociale. Si pone a questo punto il problema dei mezzi. Hanno bisogno di un alloggio, di vestiti, di musica, di una Vespa per uscire la domenica. Ma il furto, un tempo “riconosciuto” nelle riserve sottoproletarie, non è più la soluzione giusta. Non ne vogliono più sapere, si sono integrati in un altro ambiente, hanno accesso all’istruzione: ormai il furto è malvisto. Senza contare che con la nuova legge Reale (dal nome del ministro della Giustizia che, nel 1975, autorizzò i poliziotti ad aprire il fuoco anche in assenza di legittima difesa) l’opzione criminale è divenuta una professione qualificata, un privilegio da brivido riservato al grande banditismo.
Nel frattempo qualcos’altro vibra nell’aria, un nuovo territorio da esplorare verso cui volgere lo sguardo. Questi marginali hanno degli amici studenti che parlano di contestazione, di riappropriazione. La loro lingua è senza dubbio complicata, ma la rabbia e l’obiettivo sono gli stessi. Gli studenti vengono nei quartieri ghetto accompagnati da professori coi capelli lunghi. Miraggio favoloso, sembra non esserci più differenza tra poveri e studenti. E tutti sembrano volere la stessa cosa.
Questo riavvicinamento diviene via via più frequente. Per strada, nei posti di lavoro, a scuola, questi nuovi disadattati assetati di vita frequentano quotidianamente i giovani borghesi, lanciati in una violenta polemica contro la loro stessa classe. Con loro appaiono anche i nuovi diseredati del Partito Comunista Italiano, ex militanti, operai, sindacalisti, membri del corpo insegnante e anche qualche quadro di partito, che si organizzano in gruppi, teorizzano e predicano una nuova via rivoluzionaria. Da questo triplo incontro nascerà l’onda di violenza politica che sommergerà l’Italia negli anni ’70.
4. Il “patto del silenzio”, o compromesso storico
In quest’epoca si crea un abisso tra il Partito Comunista Italiano e l’Italia. Il grande e potente PCI non è altro che un paese separato (Pier Paolo Pasolini), un’isola popolata da politici di professione il cui unico scopo è di mettere le mani sulle leve del comando centrale. Questa nuova situazione lo porta a instaurare, come non era mai successo prima, delle relazioni serrate col potere reale della DC. Relazioni sotto forma di rapporti democratici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali non avevano nulla in comune. Da un lato una DC corrotta e dall’altro un PCI con le mani pulite. Ma è precisamente a partire da queste inedite basi che diviene possibile progettare un compromesso realistico capace forse di salvare l’Italia dal disastro. Un compromesso non diverso da un’alleanza tra due Stati vicini, o incastrati l’uno nell’altro.
Un paese diviso in due schieramenti così differenti, come la DC e il PCI, non può sperare nella pace e nello sviluppo. Di fronte a questa impasse, gli uomini del PCI, anch’essi uomini di potere, cercano naturalmente una saldatura con lo schieramento opposto, per quanto diverso esso sia. Questo spiega il fatto, stupefacente a prima vista, ma in realtà profondamente coerente, che gli uomini politici dell’opposizione, pur avendo tutte le prove, non denunciarono mai le stragi di Stato e i colpi di Stato che iniziarono nel ’69, con il massacro di Piazza Fontana. fino agli ottanta morti della stazione di Bologna alla fine degli anni ’70. Perché questi uomini, a differenza degli intellettuali, distinguono tra verità politica e pratica politica. In tale logica, non si parla nemmeno di condividere questo genere di informazioni destabilizzanti, se non con chi è votato alla ragione della politica e soltanto con costoro. Insieme, DC e PCI sanno e tacciono. Insieme, proteggono innanzi tutto il governo italiano.
La scelta della legge del silenzio da parte del PCI, quasi una complicità passiva, non fu operata senza previa riflessione. Si trattò di un rischio calcolato. Il PCI rinunciò deliberatamente all’etica che lo distingueva dagli altri partiti, e quindi all’appoggio incondizionato della base operaia, in nome di una ferma fiducia nella strategia politica e nei principi formali della democrazia, al fine di raggiungere una possibile partecipazione al potere centrale. Non si può escludere che, in quest’ottica, gli uomini del PCI si riservassero la possibilità di tornare pubblicamente sui fatti di sangue una volta conseguita una posizione di forza all’interno del governo. Si tratta dell’applicazione pura e semplice del detto secondo il quale “il fine giustifica i mezzi”. I risultati di questa strategia si fecero attendere e non giunsero mai.
Avvolti da questo mutismo, i numerosi settori sociali che subiscono da molto tempo la sanguinosa presenza delle potenti organizzazioni criminali, che assistono allo scoppio delle bombe di Stato, così come alla violenza politica spesso praticata dai loro stessi figli, non arrivano a comprendere cosa stia realmente accadendo nel Paese. Non resta loro dunque che la semplice reazione di accusare la totalità della classe politica italiana. Fu in questa situazione che, seppure con molte reticenze, una minoranza di italiani, senza distinzione di classe (in un primo momento), soffiarono sul vento della rivolta che spazzava le strade. Non era tanto raro che un vecchio membro della Resistenza, spesso deluso dal PCI, dissotterrasse il suo arsenale di guerra per donarlo a qualche gruppo armato.
Tra questi giovani, e anche meno giovani, che verranno chiamati prima “Angeli” e poi “Terroristi”, molti possiedono un meccanismo raffinato che mescola reazioni sentimentali e intellettuali. Non si fermano alle “armi della critica e critica delle armi”. Essi coltivano già l’idea di “poesia delle armi e armi della poesia”. Sono individui, fra molti altri, che lavorano sul campo. Sono numerosi e largamente sostenuti dal malcontento generale. Distruggere per ricostruire, aprire gli spazi per poi riempirli, lavoro creativo e non più alienato, centri socioculturali e non più università concepite come fabbriche per l’allevamento della forza lavoro, più officine a misura umana e meno colossi multinazionali, più cultura e meno polizia. Essi parlano e spiegano. Se necessario si battono contro i fascisti o i poliziotti, oppure contro i manici di piccone impugnati all’occasione dal servizio d’ordine del PCI. Questi giovani sono abituati a lottare contro gli assalti fascisti. Resistono ai manganelli della polizia e non arretrano davanti al sibilo delle pallottole di caucciù. Ma quando, al posto del caucciù, appare del piombo, credono, a torto, che non vi sia che una scelta: le armi o la poesia. Questa è l’anomalia italiana.