di Gioacchino Toni
[Continuiamo, con questa di Gioacchino Toni, le nostre “recensioni inattuali”, riguardanti libri non più in commercio ma meritevoli di una rivisitazione. Potrebbe diventare una vera e propria rubrica, se riceveremo altri contributi di analogo tenore.] (red.)
Folke Fridell, Una settimana di peccato, Iperborea, 1990, pp. 212, € 9,50
“Una vaga sensazione di nausea aleggiava continuamente nell’aria. Tutti avrebbero voluto vomitare, ma nessuno ci riusciva”.
Di questi tempi la sensazione di nausea che aleggia nell’aria è davvero pesante ed entrando, nuovamente, in periodo elettorale la ripugnanza, al pari del conformismo, se possibile, aumenta ulteriormente. Indubbiamente dare di stomaco potrebbe, almeno, alleviare un minimo il disgusto. È proprio l’insofferenza per il conformismo dilagante a essere di scena in un romanzo uscito in Italia nel lontano 1990 e scritto nell’ancora più lontano 1948.
Konrad Johnson, operaio n. 403, ha deciso di sfidare la fabbrica, di rivoltarsi radicalmente contro di essa sottraendosi al suo dominio. La sfida durerà una settimana. Dopo aver invano richiesto una settimana di convalescenza, il nostro Konrad decide di prendersi “una settimana di peccato”, di “creazione”, senza dover rendere conto a nessuno e senza doversi nascondere dietro motivazioni compatibili. “Semplicemente, questa settimana non voglio lavorare, e per questo rimango a casa”. La settimana di libertà servirà a farlo sentire, una volta tanto, libero dalla routine quotidiana ormai data per scontata da tutti e, soprattutto, vissuta dai più come ineludibilità da cui soltanto un pazzo può decidere di sottrarsi.
Il lunedì mattina, rifiutata la dittatura della sveglia, Konrad inizia la sua settimana di vita con una passeggiata nelle vie cittadine, durante l’orario in cui gli operai devono essere al lavoro. “La mia scandalosa passeggiata è una sfida a ciò che la nostra epoca conosce di più sacro: un tentativo di frenare la corsa alla velocità e di dare un nuovo valore al lavoro (…) Alla gente è permesso avere tutte le idee più strambe che vuole, minacciare e trasgredire nel tempo libero. Basta che ubbidisca agli ordini. Ecco qual è il limite che ho varcato: rifiutare di ubbidire agli ordini significa infrangere il vangelo della velocità.”
Da subito la disobbedienza di Konrad provoca reazioni preoccupate non solo da parte della dirigenza della fabbrica, timorosa che “la malattia” possa dilagare, ma anche del sindacato, dei parenti e, in pratica, dell’intera comunità. “Uno schiavo è fuggito, e non l’hanno ancora ripreso”. “E se diventasse un’epidemia?”
L’impresa di terminare l’intera settimana lontano dal lavoro senza voler fornire scuse compatibili si mostra da subito come titanica: gli sguardi della portinaia e dei vicini, l’incomprensione dei famigliari e degli amici, i paternalistici consigli a rientrare nei ranghi dei sindacalisti e dei responsabili della grande fabbrica, oltre alla non abitudine alla libertà, saranno ostacoli non semplici da superare.
È di questo ammutinamento individuale che narra il romanzo Una settimana di peccato (Syndfull skalpelse, 1948), scritto dallo svedese Folke Fridell (1904-1985), operaio tessile libertario che, nell’immediato dopoguerra, si inserisce in coda a quella “letteratura operaia svedese” sviluppatasi tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta con scrittori come Rudolf Värnlund, Eyvind Johnson, Ivar-Lo Johansson, Josef Kjellgren e Moa Martinson (provenienti dal lavoro nelle fabbriche, nei campi o in mare).
Il romanzo di Fridell evita la descrizione dettagliata propria della narrativa realistica preferendo adottare un registro essenziale: pochi scenari, tratteggiati più dal punto di vista dello stato d’animo con cui il protagonista li percepisce che non da pretese di resa oggettiva. Attraverso la personale ribellione del protagonista, Fridell mette in scena l’umano tentativo di riconquistare il controllo sulla quotidianità, sui ritmi e sul corpo. Konrad Johnson, operaio n. 403, figlio di un sindacalista, è consapevole che non sarà questa sua rivolta individuale a liberare l’umanità dai ritmi e dalla logica della grande fabbrica, logica che pervade anche i compagni del sindacato, i famigliari e l’intera comunità al di fuori delle mura di cinta della ditta. Il bisogno di una “settimana di creazione” si pone come ribellione comportamentale che, per quanto limitata, rappresenta prima di tutto una necessità a cui un individuo ricorre al fine di riconquistare dignità e, con essa, la forza di tirare avanti.
“Una piccola comparsa ha rifiutato di esibirsi; si è compiuto un piccolo miracolo che può far ridere i grandi uomini ma che forse permetterà a uno schiavo di continuare a vivere”.