di Jadel Andreetto
Intervista ad Aureliano Amadei e Francesco Trento, autori di Venti sigarette a Nassirya, Einaudi Stile Libero, 2005, pp. 182, € 12,50.
Possiamo anche pensare sartrianamente il nulla, la non esistenza del mondo, ma il mondo non scompare, è sempre lì, nella sua evidenza, e anche il pensiero del nulla rientra nell’insieme delle cose esistenti. Allo stesso modo potevamo pensare che non ci fosse una guerra in corso. Poi il 12 novembre 2003 a Nassiriya due palazzine in cui risiedevano i carabinieri e i militari dell’operazione “Antica Babilonia” venivano sventrate da un’esplosione, e noi ci ritrovavamo d’improvviso faccia a faccia con l’evidenza del mondo. Il regista Aureliano Amadei era a Nassiriya per girare un film. Unico civile sopravvissuto, da quell’esperienza ha scritto con Francesco Trento, un romanzo-reportage per Einaudi. Abbiamo incontrato gli autori di Venti sigarette a Nassiriya.
Aureliano, come sei finito in iraq?
AURELIANO: Sono finito in Iraq per seguire un progetto cinematografico del mio amico Stefano Rolla, che purtroppo è morto laggiù. Il progetto aveva il patrocinio del Ministero della Difesa, del Ministero dei Beni Culturali e del Ministero degli Esteri. Dicevano che in Iraq non c’era pericolo.
La storia ci ha dimostrato, purtroppo, che non era affatto così.
FRANCESCO: Una cosa folle: stiamo parlando di un film di fiction, non di un documentario… che senso aveva girarlo lì? Il film doveva essere ambientato fuori dalla base italiana e prevedeva la ricostruzione di un villaggio nel deserto. Nella migliore delle ipotesi gli attori sarebbero finiti tutti sequestrati…
AURELIANO: sicuramente girare un film in quelle condizioni è stata una follia. Però ci siamo lasciati convincere, come buona parte degli italiani, della discontinuità tra la guerra e la “missione di pace”.
FRANCESCO: sì, non dimentichiamo che tutto questo accade dopo il festoso “mission accomplished” di Bush dalla portaerei…
AURELIANO: Stefano aveva preparato un finale alternativo per il film, con un messaggio pacifista. Mah, col senno di poi direi che abbiamo sottovalutato il pericolo, forse. Ma quanto lo ha sottovalutato chi ci ha mandati lì dicendo che non c’era problema?
Com’è nata l’idea del libro?
AURELIANO. Da subito, una volta rientrato in Italia, seppur in condizioni di
salute precaria a causa dell’esplosione in cui mi sono mio malgrado trovato
coinvolto, ho sentito l’esigenza di sfogare la mia indignazione. Era chiaro
che le versioni ufficiali non combaciavano affatto con la realtà che avevo
visto con i miei occhi. Ho cominciato a parlarne, dapprima confusamente,
poi con maggiore convinzione con Francesco, che è mio amico sin dai tempi del liceo e che all’epoca stava terminando il bellissimo documentario “Matti per il calcio”, per la regia di Volfango De Biasi. Con lui abbiamo iniziato a ragionare su come impostarlo, e piano piano è nato “Venti sigarette a Nassirya”.
Cosa succede\succedeva laggiù?
AURELIANO:
Quel che succede è che i nostri soldati sono lì a far la scorta al petrolio:
Uun eccellente reportage di Sigfrido Ranucci, che abbiamo visto su Rai News 24 — e stranamente non in prima serata sulle televisioni nazionali – ci mostra che gran parte dell’impegno delle nostre truppe è profuso nel piantonare le zone di nostro interesse petrolifero. Infatti a Nassirya ci sono i pozzi concessi per lo sfruttamento dell’Eni. L’hanno mascherata come missione di pace, ma è evidente che svolgiamo operazioni di guerra… appena sono arrivato, il giorno prima dell’attentato, i militari parlavano di una escalation di violenza nella zona. Raccontavano di sassaiole verso i mezzi italiani.
Calcola che, come raccontiamo nel libro, ci sono anche molti militari delusi e incazzati per il comportamento del governo e dei comandi, uno di loro chiamava la missione, ironicamente, “missione umanitaria di guerra”.
FRANCESCO: quello che raccontiamo, anche attraverso la loro voce, è che quella di Nassirya è stata una strage “annunciata”. Sono stati ignorati ripetuti allarmi del SISMI e della CIA, e nonostante l’insistenza di molte voci su un possibile attacco dinamitardo alla caserma, non è stato mai chiuso il traffico intorno all’edificio…
AURELIANO: Ora i miei amici militari mi dicono che, per quel che riguarda le operazioni “umanitarie”, con l’acuirsi della tensione l’esercito ha progressivamente abbandonato ogni azione, anche quel poco che veniva fatto come faccciata. Dalla battaglia dei ponti in poi le truppe hanno lasciato Nassirya e dintorni per asserragliarsi a camp Mittica, sotto il comando degli angloamericani.
Vedere la guerra in tv ce la sta rendendo banale. Cosa significa vivere la realtà della guerra anche se per poco?
AURELIANO: E’ un’esperienza atroce. Io, poi, non ho nemmeno fatto il militare, ero davvero la persona meno addestrata a quella situazione…
FRANCESCO: Quella di Aureliano è davvero una testimonianza unica: oltre ad essere l’unico sopravvissuto civile della tragedia (e quindi l’unico che abbia veramente libertà di parlare), è anche un testimone atipico dell’attentato: uno che è nato da genitori hippy, è stato a lungo punk, per evitare la naja s’è finto omosessuale.
Il vostro non è un libro di guerra o un racconto bellico, è più una sorta di taccuino…
FRANCESCO: Quel che abbiamo cercato di rendere, nel libro, è proprio questo suo sguardo particolare: lo sguardo di uno qualunque di noi che si trova proiettato in un’esperienza inimmaginabile. Una delle parti più riuscite del libro è proprio l’altalena di pensieri assurdi, grotteschi, anche buffi, che Aureliano vive nel momento di maggior pericolo, sotto l’autocisterna. Quella sorta di dissociazione mentale che sembra averlo salvato dall’impazzimento. Non ci interessava fare un racconto di guerra, quanto raccontare l’effetto che un’azione di guerra può scatenare su una persona che è lì per caso. Invece di rimuovere l’orrore, Aureliano l’ha come diluito in un mare di pensieri “altri”. Che è poi quello che facciamo tutti noi quando col telecomando passiamo dai morti di un attentato ai Simpson. O anche, all’interno dello stesso telegiornale, dalle immagini di bambini dilaniati dalle bombe alla ricetta del pollo alle mandorle. Ecco, riuscire a riprodurre quella dissociazione, farla rivivere al lettore, dirgli continuamente: “ridi”, cioè, no, aspetta, “piangi”, è stato il nostro primo obiettivo scrivendo il libro. Trovare una forma letteraria che permettesse al lettore di “perdersi” con Aureliano, tremare di paura con lui, elaborare con lui i meccanismi di difesa che gli hanno permesso di sopravvivere.
Perché venti sigarette?
AURELIANO: Perché è l’unità di tempo che racchiude la mia esperienza irachena. Le venti sigarette corrispondono alla giornata media di un fumatore. Io sono arrivato in Iraq l’11 novembre, e sono saltato in aria il 12. Giusto il tempo di fumarmi un pacchetto di sigarette.
Da quando è uscito il libro siete stati parecchio in giro… qual è lareazione della gente alle presentazioni?
AURELIANO: In generale, la reazione è di grande sorpresa e di grande coinvolgimento emotivo. E’ incredibile constatare come si sappia ben poco della situazione delle nostre truppe in Iraq. Una cosa che mi fa sempre piacere è notare come molti siano colpiti dal tono totalmente antiretorico del libro: forse la gente è finalmente stufa di sentir parlare di Patria, Eroi e Tricolore, di sentir pronunciare queste parole con la maiuscola. Io, personalmente, sono stufo di partecipare a funerali e celebrazioni in cui i morti vengono chiamati per ordine di grado, e non per nome. Dentro quelle bare ci sono delle persone, ed è questo che noi abbiamo cercato di fare nel nostro libro: parlare delle persone.
FRANCESCO: Ormai in Italia chiunque si azzardi a non chiamare Eroi i morti di Nassirya viene subito considerato antipatriottico o, come è stato scritto, “amico dei terroristi”. Noi abbiamo voluto scrivere un libro del tutto antiretorico. Parlare dell’umanità di alcuni dei caduti, del sorriso di Ficuciello, della generosità di Silvio Olla, dell’energia e dell’entusiasmo di Stefano Rolla è il nostro modo di rendere loro omaggio. Senza bisogno di aggettivi altisonanti.
Non c’è nulla di eroico nel saltare in aria ed essere fatti in mille pezzi. D’un tratto e senza senso, senza frasi altisonanti da lasciare ai posteri. E’ così che muore un italiano, così che muoiono, ogni giorno, decine di iracheni.
Cosa vi aspettate dalla pubblicazione del libro?
AURELIANO: Sicuramente ci auguriamo di fare un po’ di rumore, di richiamare l’attenzione delle persone sul fatto che i nostri soldati sono ancora lì, e che lì c’è ancora una guerra. Il libro è il nostro piccolo contributo perché la guerra cessi, perché le truppe tornino.