di Ubaldo Fadini
[Avvertenza. Quello che mi propongo in queste pagine è di riassumere un confronto con l’opera benjaminiana che ormai ha una non breve storia alle spalle. L’obiettivo è infondo sempre quello di riaffermare le ragioni del singolare materialismo antropologico delineato da Benjamin, che rappresenta uno dei vertici del pensiero radicale novecentesco.] (U.F.)
C’è un testo, breve ma denso, del 1933 — Esperienza e povertà — che contiene alcuni concetti fondamentali dell’analisi di Benjamin che non mi stancherò mai di sottolineare. Innanzitutto è da ricordare l’apertura sotto forma di favola, quella «del vecchio che, sul letto di morte, dà ad intendere ai figli che nella sua vigna è nascosto un tesoro. Loro non avevano che da scavare. Scavarono, ma del tesoro nessuna traccia. Quando però giunge l’inverno, la vigna rende come nessun’altra nell’intera regione. I figli allora si rendono conto che il padre aveva loro lasciato un’esperienza: non nell’oro sta la fortuna, ma nell’operosità» (1). Questo tipo di esperienza è perso, in quanto non si dà più quel tempo in cui si sapeva con precisione cosa fosse l’esperienza, vale a dire i contenuti di vita, le credenze, le regole, le abitudini che gli anziani comunicavano ai giovani.
Benjamin indica con chiarezza il fatto che le “quotazioni dell’esperienza” sono precipitate, in particolare per una generazione che nella prima grande guerra impetialista ha realizzato una delle “più mostruose esperienze della storia mondiale”. Questa generazione si è confrontata con la radicale contingenza dei tempi, tornando ammutolita dalle trincee, povera appunto di esperienza comunicabile, poiché «mai esperienze sono state smentite più a fondo di quelle strategiche attraverso la guerra di posizione, di quelle economiche attraverso l’inflazione, di quelle corporali attraverso la fame, di quelle morali attraverso i potenti. Una generazione, che era andata a scuola ancora con il tram a cavalli, stava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui niente era rimasto immutato tranne le nuvole, e nel centro in un campo di esplosioni e di correnti distruttrici il minuto e fragile corpo umano» (2).
Merita attenzione il rinvio benjaminiano alla sfera corporea, di un corpo separato — reso quindi “minuto e fragile” — dal suo stesso “spazio corporeo” Leibraum): così determinato, esso si ritrova collocato come semplice “cosa” all’interno di un “campo di forze”, ridotto allora a mero materiale per la produzione di merci o per la distruzione di queste attraverso la guerra. Questo “spazio corporeo” diventa un vero e proprio “spazio immaginale”, separato dal corpo, dalle relazioni innumerevoli di una soggettività mimetica, descritta con grande sensibilità nel suo strutturarsi e dissolversi nelle pagine della Berfiner Kindheit. Come è possibile intendere questo nuovo spazio, di cui varrà la pena riaffermare l’inquieta corporeità, comunque si manifesti, tra fantasmi e visioni non sempre orribili? Benjamin ripropone qui la pregiudiziale materialista: lo “spazio immaginale” è quello dell’esperienza espropriata, reificata, dispoticamente ordinata/comandata. Non bisogna, insomma, mai dimenticare che l’immagine è qui da afferrarsi spinozianamente come “idea corporis”, che essa rimanda ad affezioni di cui esprime gli effetti di variazione, di passaggio, di transito.
Alla base di tutto questo ragionamento sulla povertà imprevista sta una idea dello “sviluppo della tecnica” come di un processo che colpisce gli uomini, all’interno della società capitalistica, con “una miseria del tutto nuova”, il cui rovescio, l’altra faccia della medaglia, è rappresentato dall'”opprimente ricchezza di idee” costituita dalla “rivitalizzazione”, anzi dalla “galvanizzazione”, di “astrologia e sapienza Yoga, Christian science e chiromanzia, vegetarianismo e gnosi, scolastica e spiritismo”. Benjamin ricorda i dipinti di Ensor, in cui “borghesucci mascherati carnevalescamente, contorte maschere incipriate di farina, corone di lustrini sulla fronte, si rotolano imprevedibilmente per le vie”, che si impongono come immagini di una “falsa ricchezza”, vuota nella sua ampollosità “barocca”, rappresentative dell'”orrida e caotica renaissance“, in cui molti hanno voluto cogliere barlumi di speranza. Questi dipinti sottolineano il legame intimo del barocco con la modernità e rinviano, con le “maschere” e le “corone” dei “borghesucci”, a quella soggettività borghese che è caratterizzata dalla separazione della “sfera privata individuale” dallo sviluppo sociale delle forze produttive: quanto più questa separazione si fa abisso, tanto più la soggettività borghese si maschera negli oggetti fantasmagoricamente “stravolti”, “trasfigurati”. È successo dunque qualcosa: l’esperienza attuale non si connette più all'”intero patrimonio culturale” e simulare o carpire con l’inganno una esperienza ritenuta vincolante produce unicamente un “guazzabuglio di stili e di Weltanschauungen“, talmente desolante e insopportabile da far sì che si possa confessare “senza disonore” la propria povertà. Scrive Benjamin: «Sì ammettiamolo: questa povertà di esperienza non è solo povertà nelle esperienze private, ma nelle esperienze dell’umanità in generale. E con questo una specie di nuova barbarie. Barbarie? Proprio così. Diciamo questo per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarie. A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? È indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il poco; a costruire a partire dal poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra» (3).
Questo concetto di barbarie può essere messo in relazione con alcune delle argomentazioni conclusive del saggio benjaminiano sul surrealismo (1929), soprattutto nel momento in cui si afferma il carattere positivo dell’azione di “annientamento” (appunto “barbaro”) nei confronti dei resti soggettivi del processo generale dell’alienazione, dell’espropriazione: Benjamin considera l'”uomo interiore”, la “psiche”, l'”individuo” come prodotti di scoria dello sviluppo capitalistico, della storia borghese. Questi ultimi vanno ulteriormente smembrati, in un’ottica “rivoluzionaria”, di sviluppo dei rapporti tra il singolo e il collettivo, che consenta il riconoscimento dell'”essenza” di fatto proprio collettiva dell’esperienza soggettiva. Scrive Benjamin: «Dovunque un’azione produce essa stessa l’immagine ed è questa immagine, se l’incorpora e la divora, dovunque la vicinanza si allontana da se stessa, si schiude questo spazio immaginativo di cui andiamo in cerca, il mondo dell’attualità universale e integrale, dove non c’è posto per il ‘salotto buono’, lo spazio, insomma, in cui il materialismo politico e la creatura fisica si dividono tra loro l’uomo interiore, la psiche, l’individuo (o che altro vogliamo rimproverare loro) secondo giustizia dialettica, in modo che neanche un membro rimane intero. E tuttavia — anzi, proprio in seguito a questa distruzione dialettica — questo spazio sarà ancora uno spazio immaginativo, e, più concretamente, uno spazio fisico. Poiché non c’è rimedio, è tempo di ammettere che il materialismo metafisico di osservanza vogtiana e buchariniana non può essere tradotto senz’altro nel materialismo antropologico testimoniato dall’esperienza dei surrealisti, e prima di loro un Hebel, di Georg Büchner, di Nietzsche e di Rimbaud. Rimane un residuo. Anche il collettivo è corporeo. E la physis che gli si organizza nella tecnica può essere prodotta, in tutta la sua realtà politica e oggettiva, solo se corpo e spazio immaginativo si compenetrano in essa così profondamente che tutta la tensione rivoluzionaria diventa innervazione fisica collettiva, e tutta l’innervazione fisica dei collettivo diventa scarica rivoluzionaria, solo allora la realtà ha superato se stessa quanto esige il manifesto. comunista» (4).
La via è dunque quella del superamento della separazione del corpo dal suo spazio, ridotto altrimenti a “spazio immaginale”: in questa prospettiva, s’impone la risoluzione di un compito che è dato dalla ripartizione dialettica, tra il “materialismo politico” e la “creatura fisica”, dei “resti soggettivi”, vale a dire appunto dell uomo interiore”, della “psiche” e dell “‘individuo”. Ciò va articolato all’interno di un processo di “annientamento” che si deve svolgere nello spazio del “mondo dell’attualità universale e integrale”, che “non può più essere misurato contemplativamente” nel suo manifestarsi come uno “spazio radicalmente, assolutamente immaginativo”: quest’ultimo diviene però insieme, proprio nel processo di “annientamento”, spazio corporeo, in grado di riassorbire la physis che “collettivamente” si organizza nella tecnica (da intendersi allora come una parte della “innervazione fisica del collettivo”).
A proposito del testo benjaminiano sul surrealismo, vorrei richiamare l’attenzione su alcune preziose pagine di F. Masini, del 1983, in cui il critico fiorentino proponeva una traduzione dell’espressione “hundertprozentigen Bildraum” diversa da quella del traduttore italiano dello studio di Benjamin (“spazio radicalmente immaginativo”), cioè: “spazio immaginale assoluto”. Una tale proposta viene giustificata col fatto che il termine Bild, che viene allora reso come “immaginale” (sulla scia dell’utilizzo fattone da J. Hillman, nell’accezione datagli dall’islamista H. Corbin), viene messo da Benjamin in relazione «con l’impossibilità di ‘senso’, con una particolare esperienza (quella dei poeti surrealisti, appunto), in cui è cancellata la soglia tra veglia e sonno, infine con gli esperimenti magicoverbali propri della loro scrittura»: «Il Bildraum assoluto, in cui ci introduce l'”illuminazione profana”, non è equivalente a un mero spazio immaginativo, prodotto, cioè, dalla immaginazione conscia e quindi del tutto chimerico, bensì ad uno spazio intermedio, tra sensibile e intelligibile, in cui vengono costellati contenuti inconsci mediante una sorta di amplificazione d’intensità (ecco l’ebbrezza!) al tempo stesso endopsichica e noetica, così che le ‘immagini’ di questo spazio ‘assoluto’ hanno un potenziale significante capace di trascendere la logica intellettual e del senso e d’innervarsi in quella corporea dell’azione rivoluzionaria. […] Questo Bildraum è dunque rivelato dalla ‘illuminazione profana’ in virtù della quale lo stesso rovesciamento della ‘rivolta’ nella ‘rivoluzione’ si presenta, nel luogo aporetico dell’ebbrezza, come una ‘rappresentazione statica — per usare le parole di Adorno — del movimento stesso’. L’epifania dell’ebbrezza sta nel cristallizzarsi del suo movimento come apertura dì uno spazio immaginale assoluto. Beniamin non usa l’espressione ‘immagine dialettica’, ma in questo Bildraum generato dall’ebbrezza v’è la stessa fulminazione propria del ‘dialektisches Bild‘» (5). Masini insiste sul costituirsi dell’ebbrezza come spazio immaginale rapportato ad una trasformazione della percezione del reale su cui si innesta il collettivo. Il compito di “conquistare le forze dell’ebbrezza per la rivoluzione”, per non lasciarle al “circolo del solipsismo autocontemplativo”, trova soluzione nel momento in cui l’azione riesce a produrre essa stessa l’immagine, diventando tale immagine: è così che si concretizza lo spazio immaginale all’intemo del quale si realizza la conversione delle forze, 1a Umfunktionierung dell’ebbrezza”. L’ebbrezza dischiude uno spazio immaginale assoluto che si qualifica in termini rivoluzionari quando essa riesce a plasmare quella nuova physis che il collettivo va costituendo nella tecnica (Benjamin scommette, per così dire, sull’ingranarsi rivoluzionario di corpo e spazio immaginale assoluto”): «Questo spazio immaginale assoluto che scaturisce dall’ebbrezza è il ‘mondo dell’attualità polimorfa e integrale’, è lo spazio corporeo del collettivo. Qui l’ebbrezza raggiunge il culmine della sua parabola, nel punto, cioè, in cui corpo e spazio immaginale si compenetrano così profondamente ‘che tutta la tensione rivoluzionaria diventa innervazione corporea collettiva e tutta l’innervazione corporea del collettivo diventa scarica rivoluzionaria’. La ‘illummazione profana’ rende manifesta questa ‘innervazione’, la cui sostanza materialistica sta nel fatto che non già ‘la materia astratta ovvero il cosmo’ […] sono da porsi alla base del materialismo, bensì il ‘collettivo corporeo’» (6).
La conquista rivoluzionaria delle forze dell’ebbrezza significa superare i confini di uno spazio immaginale riservato alla contemplazione nella delineazione di un Bildraum «in cui l’elemento creaturale-animale s’incrocia con quello politico-materialista».
Se nel saggio sul surrealismo si ha fondamentalmente una elaborazione della precedente dynamis del profano (tematizzata nel densissimo Frammento teologico politico) che la trasforma in dynamis dell’ebbrezza, rivolta alla delineazione dello spazio immaginale assoluto (da conquistare per la rivoluzione), in Esperienza e povertà si descrive anche la rimozione della facoltà mimetica nello “sviluppo della tecnica” vissuto da una soggettività borghese che vi si relaziona in termini fantasmagorici. È appena il caso di ricordare gli esempi benjaminiani di un modo “contemporaneo” di rapportarsi al mondo non caratterizzata soltanto fantasmagoricamente: Einstein, i cubisti, Brecht, Loos e Le Corbusier, Gide, Scheerbart. Di particolare interesse è però l’analisi di Mickey Mouse come concretizzazione del sogno di una tecnica mimetica non estraniante. Scrive Benjamin: «L’esistenza di Mickey Mouse per l’uomo di oggi è un sogno di questo genere. Questa esistenza è piena di meraviglie, che non solo superano quelle della tecnica, ma si prendono gioco di esse. Perché ciò che in queste è più notevole, è certo il fatto che tutte quante senza machinerie, improvvisate, saltano fuori dal corpo di Mickey Mouse, dei suoi partigiani e dei suoi persecutori, dai più comuni mobili, così come da un albero, dalle nubi o da un lago. Natura e tecnica, primitività e comfort qui sono diventati perfettamente una sola cosa e agli occhi della gente, stancatasi delle complicazioni senza fine della vita quotidiana e per la quale il fine della vita affiora solo come un lontanissimo punto di fuga in un’infinita prospettiva di mezzi, appare liberante un’esistenza che in ogni frangente basta a se stessa nel modo più semplice e contemporaneamente più confortevole, in cui un auto non pesa più di un cappello di paglia e il frutto. sull’albero si arrotonda così velocemente come la navicella di un aerostato» (7).
È significativo che in questa prospettiva il “sogno ricompensi per la tristezza e lo scoraggiamento del giorno”, indicando una “esistenza del tutto semplice ma grandiosa”, in cui la tecnica si propone, nel suo darsi immediatamente appagante, come fine in sé: è così che essa sembra porsi come produttiva della “magica” sintesi di uomo e natura, cancellando di un colpo tutti i suoi aspetti violenti e assolutizzanti. Non è un caso che si suggerisca, in questo contesto, un rapporto con la tecnica che si esprime al meglio in un suo attraversamento ludico-critico. Benjamin è particolarmente attento a tenere insieme il carattere distruttivo (storicamente determinato) e la possibilità di liberazione che contraddistinguono la tecnica: è capace quindi di individuare come il “il grande corteggiamento del cosmo” che gli antichi compivano nell’ebbrezza — e che sembrava scomparso nell’odierna povertà di esperienza — sia riemerso, sia pure in forme “perverse”, nella prima guerra mondiale, nel connubio tra le “potenze cosmiche” e nel furore nientificante della tecnica bellica.
«Ma poiché l’avidità di profitti della classe dominante contava di soddisfarsi a spese di essa, la tecnica ha tradito l’umanità e ha trasformato il letto nuziale in un mare di sangue. Dominio della natura, insegnano gli imperialisti, è il senso di ogni tecnica. Ma chi vorrebbe prestar fede a un precettore armato di sferza che indicasse dell’educazione nel dominio dei bambini da parte degli adulti? Così anche la tecnica: non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e umanità» (8).
Benjamin sottolinea come la tecnica abbia il potere straordinario di mostrare la natura in prospettive sempre diverse e come possa, accostandosi all’uomo, modificarne “gli affetti più originari, le angosce e i desideri”. In questo senso, è proprio nella tecnica che si apre la possibilità di un’esperienza non devastante dell’universo, in quanto essa viene a costituire per l’umanità una physis nella quale avverrà un contatto con il cosmo in forme diverse rispetto a quelle abituali “per popoli e famiglie”. Ciò vuol dire prendere atto del delinearsi di una nuova messa in figura dell’esistente, rivelatrice di tendenze e virtualità ancora impensate. Là dove la tecnica cancella ogni via precostituita, qualsiasi tracciato predeterminato, ecco che si manifesta una “natura” collettivamente in trasformazione, in metamorfosi, a partire dal processo stesso di l’astrazione” dalla “prima” natura. Ciò è ormai avvertito in molteplici maniere: «Basti ricordare l’esperienza di velocità grazie alle quali il genere umano si prepara a viaggi vertiginosi verso il cuore del tempo, per imbattersi là in ritmi da cui i malati trarranno vigore come prima in alta montagna o in riviera. 1 lunapark sono una prefigurazione di futuri sanatori. Il brivido di un’autentica esperienza cosmica non è legato a quel minuscolo frammento del mondo naturale che noi siamo abituati a chiamare natura. Nelle notti di sterminio dell’ultima guerra una sensazione simile all’estasi degli epilettici scuoteva le membra dell’umanità. E le rivolte venute poi sono state il suo primo tentativo di acquistare la padronanza del nuovo corpo […]. Il delirio dell’annientamento è superato dall’essere vivente solo nell’ebbrezza della procreazione» (9).
Benjamin riconsidera i temi della perdita d’esperienza e del declino dell’aura in molte pagine di Parigi, capitale del XIX secolo; è sufficiente qui ricordare come l’Erfahrung, l’esperienza concreta, non sia tanto composta da eventi fissati nel ricordo, bensì da “dati accumulati, spesso inconsapevoli, che confluiscono nella memoria”; essa è determinabile soltanto a partire dall’Erlebnis (esperienza vissuta), prodotto della soggettività “vigile”, che per proteggersi dagli chocs metropolitani (“tecnologici”) struttura gli eventi conferendo loro “un esatto posto temporale”. Così facendo l’Erlebnis organizza una barriera difensiva che consente il riemergere delle immagini della memoria involontaria: la causa del declino dell’Erfahrung rende paradossalmente possibile una sua estrema riattivazione.
Al di là di queste osservazioni sull’esperienza espropriata, vorrei mettere in evidenza come nella nuova physis si possa realizzare la compenetrazione di spazio corporeo e corpo nel momento in cui quest’ultimo non si trova più nella condizione di essere “minuto e fragile”. A ciò si accompagna una comprensione della “età della tecnica” come crisi di ogni direzione prefissata, il che significa radicale contingenza: è questa rilevazione che permette di concepire nei seguenti termini la potenza “ebbra” e “rivoluzionaria” del collettivo: «Il collettivo è un essere sempre inquieto, sempre in movimento, che tra le mura dei palazzi vive, sperimenta, conosce e inventa tanto quanto gli individui al riparo delle quattro pareti di casa loro»(10).
[tratto da: Nel tempo dell’adesso. Walter Benjamin tra storia, natura e artificio, a cura di G. Perretta, Mimesis Eterotopie, Milano, 2002, pp. 45-52]
(1) Walter Benjamin, Esperienza e povertà, tr. F. Desideri, in F. Rella (a cura di), Critica e storia, Venezia, Cluva, 1980, p. 203.
(2) Ivi, p. 204.
(3) Ivi, pp. 204.205.
(4) Walter Benjamin, Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei, in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, tr. di A. Marietti, Einaudi, Torino, 1973, pp. 25-26.
(5) Ferruccio Masini, Il palinsesto magico, in La via eccentrica. Figure e miti dell’anima tedesca da Kleist a Kafka, Marietti, Casale Monferrato,1986, pp. 191-192.
(6) Ivi, p. 195.
(7) Walter Benjamin, Esperienza e povertà, cit., pp. 207-208.
(8) Walter Benjamin, Strada a senso unico. Scritti 1926-1927, tr. vari, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino, 1983, p. 68.
(9) Ivi, pp. 68-69.
(10) Walter Benjamin, Parigi, capitale del XIX secolo, tr. vari, a cura di G. Agamben, Einaudi, Torino, 1986, p. 1089.