di L. Emmings
[qui la prima puntata]
Quando riaprì gli occhi, il primo rumore che sentì fu quello del lieve tintinnare di chiavi arrugginite dietro la porta della cella. A svegliarlo, probabilmente, erano stati i passi pesanti delle guardie sino a lì; passi che ora si erano fermati.
La consapevolezza della fine imminente attraversò la mente del Moncato come una lama gelida. Erano venuti per giustiziarlo, forse l’avrebbero passato a fil di spada, semplicemente, senza una benchè minima parvenza di processo. Ci avevano anche messo più tempo di quanto lui si aspettasse: erano ormai più giorni che non gli facevano avere notizie, ma ora la decisione doveva essere stata presa. Non era ora del magro pasto gettato dentro alla cella, le guardie non dovevano essere lì.
Ma c’erano, e la chiave stava già ruotando all’interno della toppa prima che si udisse il clack della serratura che scattava lasciando la porta libera di ruotare sui cardini. Non poteva morire.
Richiuse gli occhi di scatto, tendendo i muscoli, e imponendosi di respirare lentamente, con ritmo regolare. Non sarebbe stato difficile ingannare le guardie per qualche istante, quel tanto che gli bastava per tentare il tutto per tutto… l’elemento sorpresa è sempre il più valido. Disteso, il capo rivolto verso la porta che veniva aperta con una lentezza esasperante, finse di dormire nonostante tutti gli altri sensi fossero all’erta. E sopra tutti, l’istinto prendeva il sopravvento.
L’aria fredda e improvvisa che gli passò sulla pelle lasciò intendere che la porta ora e aperta, ed il respiro rumoroso di una guardia lo sovrastò. Il Moncato, dal canto suo, non reagì continuando a respirare. La sua mente razionale era caduta in una specie di torpore, messa da parte dal prepotente istinto che gli anni passati a vivere nell’ombra avevano acuito e che ora, in quella situazione di pericolo imminente, tornava a comandare il suo corpo. L’assassino l’accolse con gioia trionfante, sapendo bene che era l’ultima carta che poteva giocare.
“Svegliati, figlio d’un cane” l’apostrofò la guardia con voce grossa e un orribile accento veneto, che rendeva le parole indistinte e mescolate tra loro. Alle narici del Moncato, disteso sul pagliericcio scomposto, giunse una zaffata di puzzo di vino.
”T’ho detto di svegliarti…” sbottò la voce rude, irritata, seguite da una serie di imprecazioni dialettali dal dubbio significato, ma dalla indiscussa volgarità. Ancora una volta l’assassino non mosse un muscolo.
La guardia si era stancata di parlare, e passò a vie di fatto. Partì un calcio, in direzione del fianco del prigioniero steso a terra, con lo scopo di provocare dolore e di conseguenza svegliarlo. Ma l’altro era pronto, non aspettava altro che quello. Non appena sentì lo spostamento d’aria, l’istinto gridò l’ordine ai muscoli che tesi fin quasi allo spasmo scattarono come molle.
Il Moncato si rotolò su un fianco, evitando la punte dello stivale di cuoio che mirava alle sue costole, e mentre la guardia esplodeva in una esclamazione la mano sinistra ne afferrava il tacco spingendolo verso l’alto. La guardia colta di sorpresa perse l’equilibrio, mentre l’assassino ora saltava in piedi agilmente per assestare a sua volta un calcio nelle reni del grasso soldato che ora stava scivolando a terra, dopo aver battuto violentemente la testa contro il muro scrostato.
Il sicario aveva riaperto gli occhi, nel corso della fulminea azione, e ora si guardò freneticamente attorno come una bestia in trappola. La guardia che aveva appena atterrato giaceva scompostamente sotto di lui, cercando di riprendersi, ma ben più pericolose erano quelle due che richiamate dai rumori della breve colluttazione stavano accorrendo. Il Moncato non perse tempo a sfilare la spada dalla cintola del soldato steso, che nella caduta aveva seppellito l’arma sotto la sua mole; piuttosto agì di contropiede e si buttò sul primo che stava arrivando. Lo colpì con un primo pugno al volto, sentendo con gusto il naso accartocciarsi sotto le proprie nocche che si macchiarono di sangue. Tirò nuovamente indietro il braccio sinistro, l’unico che usava mentre il destro rimaneva in guardia alta, per sferrare un secondo colpo.
Poi gli fu addosso anche l’altro soldato, che con un balzo gli si avvinghiò al braccio bloccandoglielo. L’assassino digrignò i denti, scalciando violentemente e contorcendosi come una serpe per liberarsi. Spinse indietro quello che gli impediva di muoversi, per tirare una gomitata a casaccio e districarsi da quell’intrigo di corpi e guadagnare così la fuga.
Non vi riuscì: qualcuno o qualcosa lo colpì alle spalle, sulla nuca. Forse la guardia che si era lasciato dietro si era infine ripresa, o forse era sopraggiunto qualche d’un altro. Non lo sapeva, e nelle prime frazioni di secondo gli sembrò di poter continuare a rimanere in piedi nonostante la forte botta. Invece tutto divenne buio, e il Moncato perse definitivamente conoscenza.