di Giuseppe Genna
Il precedente romanzo di Ferruccio Parazzoli, MM Rossa, pubblicato sempre negli Oscar classici narrativa, aveva sortito, e giustamente, un notevole successo di critica. Uno scrittore che proviene da una tradizione cerebrale e imagista come Parazzoli (come del resto, vorrei aggiungere, qualunque gnostico è di tradizione cerebrale e imagista), narrava della fine del padre, di un rapporto complesso e pluristratificato con la figura interiormente gigantesca e fisicamente ridotta all’osso di un patriarca che tracima dal corpo, archetipo e fisiologico, di colui che era stato il papà di Ferruccio Parazzoli. Quel rapporto era pluristratificato perché l’ambizione, altissima, del romanzo era di situare il soggetto, lo scrittore: rispetto, certo, alla sua città, elevata (o abbassata) a Città di Dio (e di Dite), ma anche storicizzata secondo allegoremi che avevano un loro perno in quel Piazzale Loreto che, per Parazzoli, è diventato l’òmfalos di qualunque sua narrazione, come conferma questo romanzo, agghiacciante per la qualità zen della sua prosa, L’evacuazione.
Mentre in MM Rossa i movimenti fisici erano in estensione orizzontale e, implicitamente, in percorsi verticali, a mimare una croce dinamica (sottosuolo, città e cielo per la verticalità; casa, percorsi per strade e metro, Baggina per orizzontalità), ne L’evacuazione accade ciò che è polarmente opposto: si muovono gli altri, lo scrittore sta fermo. La croce, del resto, presuppone un incontro in cui verticalità e orizzontalità si uniscono in un punto, più o meno centrale, e comunque immobile. Questo “punto”, simbolicamente, inerisce alla storia (al qui e ora) e al sovrastorico (sono in questo mondo, ma non di questo mondo).
Il condominio in cui il protagonista del romanzo di Parazzoli si barrica, mentre tutta la zona viene evacuata a causa del disinnesco di un reperto bellico esplosivo ritrovato durante uno scavo, è precisamente questo punto: immoto, esso è vivo; disabitato, esso è un mondo fitto di microrganismi umani.
La trama è impalpabile quanto la sostanza delle controfigure che il protagonista viene a mano a mano incrociando in questa sua assoluta renitenza allo spostamento: essi sono spettri, fantasmi, i vivi che non vediamo, coloro su cui la nostra attenzione, di norma, non si posa o si posa male, inquinata da un rumore di fondo che l’evacuazione azzittisce radicalmente. Questa impalpabilità della vicenda e dei protagonisti ha a che fare, a mio avviso, con un coraggioso tentativo da parte di Parazzoli, che con L’evacuazione conclude la seconda stazione della sua trilogia su Piazzale Loreto: è come se egli tentasse di cavare sangue da quella legge così ferocemente normativa che impone agli scrittori di non affrontare del tutto il bene, perché “il bene non fa romanzo”. La risposta di Parazzoli è congeniale alla sotterranea sacertà delle tematiche che da sempre la sua scrittura affronta e in cui non ha né imbarazzo né ribbrezzo ad affondare: è la consapevolezza in luogo del bene. Bene e male, il bene e il male umani, sporchi di storia, intrisi di storia, fatti solo di storia, sono visti da un’attività consapevole di cui si richiede (o, almeno, io come critico volante chiedo) lo statuto.
La consapevolezza che nutre la scrittura precisa, minuziosa e asettica de L’evacuazione non è la consapevolezza degli illuminati. E’ la consapevolezza dell’entomologo. E’ la panoplia l’orizzonte poetico a cui sta giungendo (se mai se n’era allontanato) Ferruccio Parazzoli: vedere tutto dall’esterno, ma vederlo, una buona volta, questo tutto. Non è casuale quanto precede, di un nulla, la fine del romanzo, e che poteva benissimo essere la fine del romanzo:
La Bomba è per domani.
Sedette sotto la vagina della donna. Piazzale Loreto stava là sotto, gremito come ogni giorno, piccolo come uno sputo in cui i bacilli si accalcano e si attorcono.
E’, dunque, nonostante l’amore per la cecità che Parazzoli ha sempre manifestato nella sua narrativa, il protocollo della visione che conquista lo scrittore, ma direi anche il moralista. Poiché c’è un indubbio risvolto moralistico nell’equivalenza tra insetto e umano, come ha insegnato molta fantascienza, oltre che il grande esempio kafkiano e quelli ripetuti burroughsiani. Bacilli di fronte a uno sguardo che non li giudica, ma intanto li ha determinati come bacilli. Questo è il residuo per cui Parazzoli fallisce, una volta di più, allineandosi alla sterminata teoria di tutti gli scrittori che hanno scritto nella storia dell’umanità (fatti salvi i padri delle Scritture, compreso il nostro Dante), il tentativo di volgere al bene la narrazione. C’è come un magnete interno che convoca nella sua scrittura un cinismo che definirei galattico: una galassia può essere cinica? Di fatto lo è, in quanto ogni assenza di empatia è una forma sottile di cinismo e lo gnosticismo di Parazzoli risiede essenzialmente in questa supersottile vibrazione nichilista: la religione della letteratura (e forse la religione tutta) prescinde dalle opere buone, è una scansione dell’umano, è un immenso volo d’uccello sopra una Parigi universale, esplosa.
Tanto è contaminata da questi residui la leggenda di Piazzale Loreto che Parazzoli sta componendo, che si può tranquillamente dire che una simile storia di storie non ascende al paradiso e non discende all’inferno: qui siamo in presenza di un limbo (essendo battezzato Parazzoli, non c’è timore che Benedetto XVI gli levi da sotto i piedi simile limbo). E’ purgatoriale quanto Parazzoli sta scrivendo, è un tunnel in cui la pulizia cilestrina della sua letteratura fa risaltare la scoria, l’umano che è troppo umano. Gli impressionanti dialoghi che si svolgono ne L’evacuazione e le movenze da teatro Nô che vi sono rappresentate sono l’estrema difesa di uno scrittore che tenta di non scorticarsi mai, quasi che lo stile stesso, secondo uno dei più antichi dettami della tradizione letteraria italiana, sia l’ultima barriera prima dell’invasione – invasione che è l’opposto dell’evacuazione.
Coltivo da parecchio un sogno. Un sogno volante come questa critica, approssimativa e di necessità superficiale. Si tratta di scrivere un libro a quattro mani con Parazzoli, in cui si narri questa situazione: siamo sul pack artico e, nudi, lui, anziano, e io, più giovane, corriamo paralleli l’uno all’altro verso il punto zero magnetico, con la medesima velocità, fendendo colpi di katana che pretendono di ferire mortalmente o meno l’antagonista e, facendo questo, in una parossistica assenza di fiato corto, ci diciamo le cose come stanno: il suo mondo contro il mio, la sua storia (che è più lunga della mia) contro la mia, le sue immagini e visioni contro le mie, la sua generazione contro la mia, lui contro di me. E’, questo sogno, un tentativo di strappare la scrittura di Parazzoli a quei residui che sono, a mio modo di vedere, difensivi non in senso letterario, ma in senso propriamente psichico. Sarebbe un libro impossibile, sicuramente non limbico – nel senso che non difenderebbe nessuna verità e nessuno spaesamento di fronte all’assenza di verità. Che è, quest’ultima, l’autentica poetica de L’evacuazione, come sintetizza l’exergo finale, che Parazzoli trae di peso dalle Storie di fantasmi di Henry James:
“Deve essere stato da questa mattina, dall’alba fredda e buia di oggi. Dove sono stato?” gemette vagamente. “Dove sono stato?”. Sentiva che lei lo cingeva con le braccia e si sentì aiutare ad emettere in tutta sicurezza il suo dolce lamento: “Che buia e lunga giornata!”
La poetica di Parazzoli è la domanda: “Dove sono stato?”. La consolazione femminile postuma, che imprime la sicurezza di affermare che si è trattato di una buia e lunga giornata, pertiene ai protocolli di difesa di questo scrittore che sta raggiungendo, di libro in libro, profondità acutissime: è una falsificazione. Non c’è fede in quell’abbraccio femminile, o perlomeno non c’è fede assoluta. E la lunga e buia giornata deve ancora arrivare. Questo Parazzoli lo sa e di questo si rifiuta, non si sa quanto legittimamente, di scrivere.
Ferruccio Parazzoli – L’evacuazione – Oscar – euro 6.80