della Redazione Odradek
2. Un mondo «alieno», per molti versi, agli occhi europei. Perché dunque analizzarne così in dettaglio la storia, le caratteristiche? Perché, soprattutto, privilegiare un punto di vista così «fuori moda» come il movimento operaio?
Non prendiamoci in giro. Il neoliberismo è da oltre un decennio — dalla caduta del muro di Berlino — l’unica ideologia e pratica dominante a livello globale. La stessa costruzione dell’Unione europea, da quando esiste una Commissione che dirama regolarmente «raccomandazioni» cui gli Stati nazionale debbono conformarsi (con propri tempi e mediazioni), ha assunto questo orizzonte come un obiettivo ineludibile. Il “modello europeo” sta progressivamente cedendo il passo a quello anglosassone. Si sta insomma erodendo giorno dopo giorno quel «patto tra i produttori» che ha fatto da collante agli Stati nazionali continentali negli ultimi due secoli, dalla Rivoluzione Francese in poi.
Un «patto tra produttori» con profonde connotazioni corporative, condito dall’ideologia del “siamo tutti sulla stessa barca” e declinabile secondo visioni del mondo decisamente opposte. Ma caratterizzato anche da alcune costanti precise: l’intervento dello Stato nell’economia (come regolatore e programmatore, ma anche nella forma dell’imprenditore in prima persona), un complesso di diritti riconosciuti per i lavoratori (sempre rinegoziabili, naturalmente) a partire dalla rappresentanza sindacale, forme di welfare più o meno estese (dalla sanità alla scuola, alla previdenza, addirittura).
Per capirci. Persino lo Stato prussiano di Bismarck aveva stretto il suo interno «patto tra i produttori». Neppure il nazismo, 60 anni dopo, lo ha davvero messo in discussione, “limitandosi” a darne una versione razzistico-criminale che prevedeva di farne pagare i costi ai vicini, considerati occupanti “removibili” di uno “spazio vitale” indispensabile agli “ariani puri”. Del “modello sociale europeo” sono fin qui esistite, naturalmente, forme ben più civili e opposte, come la Francia mitterrandiana, la Svezia socialdemocratica o il “modello scandinavo” in senso lato, l’Olanda anti-beghina sopravvissuta fino a qualche anno fa. Ma l’idea di fondo — il «patto tra i produttori» come contratto sociale tra le classi, con posti di comando e subordinazione ben determinati, ma anche con “diritti da tutti esigibili” altrettanto chiari — era sostanzialmente la stessa. La “nazione” aveva bisogno di tutti e, nel momento che stabiliva le gerarchie sociali, al tempo stesso riconosceva l’inclusione di ciascuno; in forma differenziata, ma in qualche misura — anche minima, per carità — certa.
Faceva eccezione l’Italia (e gli altri paesi fascisti: Spagna, Grecia, Portogallo), che solo nel secondo dopoguerra approdava a un’identica visione, in versione però assai più “tirchia”. Soltanto il ’68-’69 le faceva attraversare finalmente gli stessi traguardi: statuto dei lavoratori, diritto a una pensione decente, scuola e sanità pubbliche ad accesso universale, ecc.
Ora tutto ciò è in via di smantellamento, da anni, a livello continentale. Gli Stati nazionali stanno smobilitando, privati come sono — dalla «globalizzazione» dei flussi finanziari e dei mercati — di molti degli strumenti (le “leve di comando”) che prima avevano costruito. Rinunciano a esercitare una politica economica, privatizzano imprese industriali di prim’ordine e le infrastrutture, svuotano gli istituti che hanno garantito per decenni (o due secoli) la coesione sociale, affidando di nuovo al “libero mercato” il compiti che quello aveva dimostrato di non poter assolvere. Diminuiscono rapidamente i diritti esigibili; aumentano le polizie, si moltiplicano le prigioni, sbocciano i “centri di detenzione temporanea” per gli “stranieri”. In una parola: il “patto tra i produttori” non è più valido. Il primo a soffrirne è il diritto di cittadinanza, quel pilastro della sovranità collettiva e — in qualche misura — anche individuale che ha segnato la modernità, perché legava il potere di decidere su un certo territorio, sulle modalità di riproduzione delle relazioni sociali e politiche, alla totalità della popolazione che su quel territorio vive. È una tendenza che accomuna fino a confonderli governi di destra e di centrosinistra. I quali solo in Italia sembrano davvero “differenti”, ma solo a causa delle macroscopiche anomalie di Berlusconi rispetto a un qualsiasi modello liberale.
Il “modello americano” sta riplasmando i rapporti sociali all’interno del Vecchio Continente, mentre la possibilità europea di influire sugli Stati uniti diminuisce. Cala corrispondentemente il grado di civiltà del complesso delle relazioni sociali, nei sistemi politici e giuridici; qui, “nel cuore della civiltà”. Non è sorprendente, se non per Toni Negri e quanti parlano di “impero decentrato e deterritorializzato”, senza però mai mettere fianco a fianco — per vedere se e quanto si corrispondano — formule verbali immaginifiche e mondo reale. Il “modello americano”, infatti, come ben si vedrà in queste pagine, è esattamente questo: la restrizione dei processi decisionali reali nell’ambito dei “proprietari” e la considerazione del resto del mondo come “materia prima” per i propri bisogni, al minor costo possibile. La “pratica della democrazia” lì esercitata è programmaticamente restrittiva; la “partecipazione popolare” è scoraggiata; l’“infinito possibile”, nel paese che garantisce il massimo delle opportunità individuali, corrisponde al “minimo possibile” (tu puoi cercare di entrare nel “giro dei possidenti”, ma voi non potete cercare di cambiare né l’equilibrio che garantisce la riproduzione del potere, né i criteri di selezione).
E, comunque, il fatto d’esser rimasta l’unica superpotenza globale cambia radicalmente i termini del problema. Si sa infatti che alle presidenziali Usa partecipa non più del 40% dei cittadini aventi diritto. Quello che diventa di fatto il “presidente del mondo” viene così scelto da non più del 2% dei “cittadini del mondo”. Ma, anche in questo caso, nessuno che se ne scandalizzi, specie tra i tanti “professori di democrazia” che tengono quotidianamente lezione sui media principali.
L’“americanizzazione” che ci tocca è insomma di serie B. Perché, al contrario di un cittadino degli Stati uniti, siamo esclusi dalla possibilità di interagire davvero con la “macchina” del dominio. E perché, soprattutto, quei governanti — e, a scendere, anche i “nostri” — non hanno neppure bisogno di tener conto dei nostri bisogni collettivi (neppure in quanto “popolo”, se non proprio come “classe”) nel momento in cui elaborano le proprie scelte. Non possiamo insomma neppure sperare che “qualche briciola”, dal tavolo del loro banchetto, ci cada sulla testa.
3. Se si tiene conto di tutti questi cambiamenti, è facile allora accorgersi che la storia del movimento operaio americano ci parla direttamente. Il suo passato sembra illuminare il nostro futuro. In parte forse maggiore, comunque, comincia a somigliare al nostro presente.
La struttura sociale, innanzitutto. A un vertice ristretto, immutabile e opaco — è quasi osceno pensare che gli elettori statunitensi saranno chiamati a scegliere il loro presidente tra due iscritti alla stessa società segreta negli anni dell’università, la mitica Skull and bones di Yale, autentica incubatrice per rampolli promettenti del livello più esclusivo del ceto proprietario — si contrappongono masse sterminate di donne e uomini senza alcuna organizzazione “autodeterminata”. L’America è il regno delle associazioni, si dirà. Vero. Ma ciò non spiega assolutamente nulla. Una struttura associativa, più o meno “reticolare”, è necessaria in qualsiasi paese. Perché la vita sociale deve pur scorrere attraverso forme collettive che ne costituiscano e diffondano il senso, costruendo i legami e i miti collettivi che la vita economica — disseminatrice di concorrenza, flessibilità, precarietà, individualismo — recidono alla radice. Qui parliamo, al contrario, di “organizzazione di interessi materiali” consapevolmente individuati, perciò stesso potenzialmente o fattualmente “altri”, contrapposti a quelli al potere.
In mezzo, ben poche strutture della mediazione e molte polizie: locali, nazionali, federali, “agenzie governative”. Uno scenario da guerra civile permanente che però solo raramente esplode in forme visibili. La possibilità dell’unità della “nazione” è assicurata — o almeno lo è stata fin qui, perché il meccanismo dell’accumulazione sembra giunto a uno stallo critico — dalla crescita economica costante, che ha sorretto e realizzato la promessa fondamentale del “mito americano”: puoi “farti da solo”, puoi scalare la vetta sociale, puoi assicurare ai tuoi figli un avvenire infinitamente migliore di quello che ti era stato lasciato in eredità, puoi andare a ingrossare le fila dei winners o — più realisticamente — a sostituire chi cade dai vertici della piramide. La grande mobilità sociale, dunque, ha funzionato da sostituto dei legami forti, dell’identità etnico-linguistica, delle rassicurazioni sociali collettive istituzionalizzate nel “patto tra i produttori” di tipo europeo.
Per quanto possa essere ferreo il controllo verticale esercitato dallo Stato e dalle “agenzie”, questo tipo di struttura sociale può reggere solo se chi “sta sotto” resta perennemente privo di storia e di istituzioni proprie. Partito e sindacato sono due istituzioni verticali, per l’appunto. Ossia organismi che riproducono sé stessi e, per farlo, debbono cercare e riprodurre un legame con la base sociale di cui sono espressione. Organismi che necessitano perciò di memoria e meccanismi di trasmissione, di centri studi, organi di stampa, biblioteche, basi documentali, strutture di formazione e selezione dei quadri dirigenti. Organizzazione, insomma, non solo orizzontale o, come si usa dire oggi, reticolare, ma anche verticale, ossia capace di sintetizzare ed esibire un progetto oltre che delle “pratiche”. Se c’è un filo conduttore nelle politiche messe in campo dal “ceto proprietario” statunitense — dai tempi dei Molly Maguires a oggi — questo è proprio nell’impedire la formazione di tali istituzioni. Con ogni mezzo e a prescindere dall’ideologia esibita da ogni soggetto che si candidava a riempire tale vuoto; sempre con una violenza estrema, senza far troppe differenze tra movimenti d’opposizione pacifici o violenti, a “volto scoperto” o clandestini.
È insomma evidente che il capitale nordamericano — il capitale per antonomasia, a questo punto — è riuscito a ridurre la propria popolazione lavoratrice al rango di moltitudine, nel senso letterale di massa amorfa senza memoria e priva di progetto, caleidoscopico mosaico di frenetici mutamenti che non lasciano tracce. Un’immagine — cinematografica, ancora una volta — può forse aiutarci a cogliere il senso di quanto andiamo dicendo. Di Tempi moderni tutti ricordano lo Charlot “sussunto” fisicamente nei ritmi e negli ingranaggi della catena di montaggio; ma altrettanto e forse più illuminante è la scena in cui, per strada, vede un camion perdere in corsa la bandierina rossa che segnala un carico pericoloso. La raccoglie e insegue il camion agitandola per richiamare l’attenzione del conducente. Alle sue spalle avanza intanto, senza che Charlot se ne accorga, una folla immensa che dopo poco viene caricata violentemente dalla polizia. Casualità dei simboli e inattendibilità dei “portabandiera”, assenza di “testa politica”, durezza della repressione, irriducibilità dei bisogni materiali e della necessità di riscatto civile: tutte le stigmate dell’esser moltitudine vengono composte plasticamente sotto i nostri occhi da uno dei più grandi visionari — per scelta artistica — del tanto bistrattato Novecento. Senza che però ne emerga un solo motivo per crogiolarsi orgogliosamente in questa sciagurata condizione: ossia l’esser nudi, immemori e disorganizzati davanti alla più moderna macchina di sfruttamento mai realizzata, con “solo gli occhi per piangere”.
La storia dei movimenti antagonisti statunitensi ci pone insomma di fronte alle stesse domande fondamentali che hanno attraversato il movimento operaio europeo: quale memoria, quale organizzazione, quali visioni del mondo consentono non solo di opporsi meglio a un capitalismo senza alcun freno inibitorio, ma anche di delineare una ragionevole strada per il suo superamento? Domande tanto più urgenti quanto più appare chiaro che le “sfide” dei prossimi decenni, quelle per cui il Pentagono si va attrezzando ormai da tempo, non riguardano più la “diffusione del modello sociale americano a tutto il mondo”, ma “la lotta per le risorse basilari del pianeta — acqua e aria innanzitutto” (1), senza dimenticare la centralità assoluta dell’energia (il petrolio, innanzitutto). Se l’orizzonte del futuro si restringe, i diritti (e la dignità) dei “subalterni” non possono che seguirne la dinamica: a meno di non invertire l’ordine delle priorità vigente nel sistema globale.
Domande e problemi qui solo accennati, ma che forniscono l’“ambiente” logico e politico entro cui vanno obbligatoriamente pensate le soluzioni, o almeno i contributi, che hanno l’ambizione di delineare “un altro mondo possibile”. Da questo punto di vista, il dibattito della sinistra antagonista o no global italiana si presenta terribilmente arretrato e provinciale.
Tutta la discussione sulla non violenza che agita Rifondazione e dintorni, per esempio, è autoreferenzialmente incentrata sull’individuazione degli “errori” commessi dal movimento comunista internazionale nel Novecento e si riduce — nell’essenziale — alla critica dell’“uso della forza” per conquistare il potere politico statuale. Un dibattito che prescinde allegramente dai comportamenti concreti tenuti da qualsiasi potere nei confronti dei suoi oppositori. La storia dei movimenti Usa qui descritti dimostra, oltre ogni ragionevole dubbio, che “i padroni” non badano — se non nella “propaganda” — a questi particolari: chiunque abbia l’intenzione o il bisogno di cambiare il sistema di accumulazione e dominio esistente va annientato, tanto sul piano politico che su quello militare, senza tralasciare il simbolico, l’immaginario, l’informazione e la cultura.
Idem si può dire per l’altro filone, dominante nel pensiero no global ma strettamente connesso alla discussione interna alle varie sinistre, incentrato sulle formule verbali negriane di impero, moltitudini, ecc. Anche in questo caso il libro che avete tra le mani aiuta a misurare la distanza tra queste formule e la realtà del capitalismo più avanzato. Il “ceto proprietario” d’oltreoceano, infatti, ha costruito la propria supremazia globale garantendosi la massima libertà di circolazione dei capitali accoppiata a una potenza militare radicata in un territorio e uno Stato precisi, da cui non può prescindere perché rappresentano appunto l’immane concentrazione di forza necessaria per controllare il mondo. L’esatto contrario, insomma, dell’impero decentrato e deterritorializzato di cui parla Negri (2). Quanto alla parola moltitudine, pensiamo di averne illustrato già a sufficienza le caratteristiche disperanti, da cui bisognerebbe caso mai vedere come potersi emancipare.
In entrambi i casi, si può dire, il problema che ci si trova davanti — la questione del potere politico nella materialità dei rapporti di forza, complessivamente intesi, tra le classi; oppure la questione del soggetto sociale della trasformazione — viene semplicemente eluso, invece che risolto. Le filosofie postmoderniste forniscono tutte le categorie e le parole necessarie a prodursi in esercizi di stile che “cancellano” il problema nelle sue dimensioni reali (3), esattamente come le scuole neoliberali “cancellano” le crisi economiche… dai manuali di scuola.
Accennare a soluzioni, evidentemente, è un compito che esorbita questo libro e qualsiasi nota editoriale. Ma il materiale storico che questo libro consegna alla riflessione dei lettori e dei movimenti è più che sufficiente a generare solidi dubbi su molte delle idee più diffuse.
1 Vedi Gianni Vattimo, il manifesto, 28 marzo 2004. Per un’informazione più dettagliata sugli “sfondi apocalittici” accennati da Vattimo si veda il saggio dell’astrofisico Alberto Di Fazio in Contro le nuove guerre (Comitato scienziate e scienziati contro la guerra, Odradek, 2000).
2 In realtà ciò che Negri chiama impero somiglia alla lontana a quello che Marx chiamava capitale. Ma è noto che descrivere con categorie politiche una materia soprattutto economica — la sostanziale inestricabilità dei nessi reciproci non elimina, anzi enfatizza, le peculiarità strutturali di entrambi gli ambiti — facilita la confusione e l’incomprensibilità dell’oggetto di studio.
3 Imposture intellettuali. Quale deve essere il rapporto tra scienza e filosofia?, Garzanti, Milano, 1999 di A. Sokal e J. Bricmont resta uno dei cataloghi più completi degli abusi teorici che la disinvoltura del pensiero postmodernista ha prodotto.