di Giuseppe Genna
Un racconto lungo e un racconto breve, il primo dei quali costituisce una profonda rielaborazione e riscrittura di un pezzo uscito su Nuovi Argomenti: Marco Mancassola, dopo la pubblicazione di un iper-romanzo tanto centrale qual è Last Love Parade, sembrerebbe accostarvi una di quelle “chicche” editoriali che, spesso, accompagnano le produzioni maggiori di un autore, magari al momento in altre faccende affaccendato. Non è così. Piuttosto l’operazione assomiglia alla sconcertante ritmica con cui DeLillo fece seguire, alla ponderosa summa narrativa di Underworld, lo smilzissimo Body art, spiazzando la critica ufficiale e sortendo un risultato che deve fare riflettere profondamente: le poche pagine di Body art hanno il medesimo peso della cattedrale Underworld. E’ ciò che accade con quest’ultimo Mancassola, uno dei migliori talenti di cui il comparto narrativo italiano dispone.
E’, come dicevo, una questione di peso, non di arco spaziale o temporale. Last Love Parade, grazie a un lancio inesistente e a una ricezione equivalente, non è il libro della mia generazione (30/40) soltanto per un caso sociologico, cioè tutto italiano, sul quale non vale la pena di soffermarsi. En passant ribadisco: è il libro che avrei voluto scrivere io, una straordinaria messa in abisso di tutti i crismi retorici con cui il romanzo si è eretto a strumento interpretativo e – nel migliore dei casi – veritativo rispetto al tempo umano da cui emerge.
E’ esattamente ciò che accade ne Il ventisettesimo anno, prova narrativa in cui Mancassola dimostra, lippis et tonsoribus, di avere raggiunto una maturità definitiva, cioè stabile. Parto dal secondo dei due racconti che compongono il libro: una conversazione occasionale con un conoscente in un pub, un ragazzo che da due anni lavora come operatore cimiteriale e che racconta una storia tremenda (ha davvero tutti i crismi di una storia dell’orrore, è il potenziale avvio a una storia horror; ma, anche, e qui è il punto, a una storia dell’orrore esistenziale) al protagonista. Poche pagine in cui Mancassola dispiega una potenza che qualificherei come “calma”, non adrenalinizzata da alcuna isteria, non vòlta all’imposizione dell'”io” e delle capacità di scrittura che questi è in grado di irradiare. Uno sguardo che non è freddo, può essere percepito come raggelante ma non è per niente gelido a priori. Le immagini vorticano nella mente del lettore soltanto a lettura conclusa, perché mentre si legge questo racconto tutto appare lineare e il genere di sospensione (suspence) che Mancassola utilizza per fare procedere la storia è di un’apparente normalità che sorprende – incrinata dall’occasionalità (c’è un brevissimo inserto di un’avventrice, forse un’amica del protagonista, che apre una parentesi da interpretarsi come plausibile sviluppo e aiuta l’autore a caratterizzare il protagonista, che non è colui che narra la storia, ma colui a cui la storia è narrata), senza alcuna pretesa di esasperazione stilistica, priva del nervosismo interno alla scrittura. Questo sguardo, calmo e che vede tutto ciò che gli si presenta di fronte non identificandosi in esso, è il focus della narrazione di Mancassola.
Lo è, a maggiore ragione, nel primo lungo racconto (preferirei dire che si tratta di un romanzo breve), laddove il protagonista è gettato in una vicenda familiare complessa e articolata: un fratello morto, un altro fratello separato, il fallimento dell’impresa del padre, l’iniziazione all’amore omosessuale. Leggerlo significa non soffermarsi su alcuno di questi eventi. E’ piuttosto l’incontro con il fenomeno umano che viene configurandosi – e il fenomeno umano è da un lato lo sguardo pietoso (una pietà che tiene conto di e non giudica la totale ambiguità di cui è testimone) e dall’altro la reazione percettiva corporea. Un mezzo miracolo: una storia che è una narrazione sulla nostalgia ed è totalmente priva di nostalgia e non impone nostalgia. Il lettore, mentre partecipa a questa immediata fratellanza (qui interviene una funzione potente della normalità esistenziale, che è la creta informe su cui lavorano le mani di Mancassola), è sospinto più indietro: riesce a identificarsi, ma qualcosa sporge da questa identificazione. E’ precisamente il movimento di scrittura dell’autore di Last Love Parade a creare questa inavvertita distorsione nella percezione di chi legge, ed è questo l’elemento che salva Mancassola da qualunque ideologismo narrativo, cioè da qualunque poetica di genere.
Il ventisettesimo anno è la conferma che questo scrittore ha mantenuto ogni promessa che i suoi lettori (me compreso) gli avevano attribuito, quando si trattava davvero di un’imposizione ab alio, perché uno scrittore in crescita strabiliante come Mancassola, se cresce in questi modi, non promette nulla: mantiene direttamente all’atto di qualunque pubblicazione.
Marco Mancassola – Il ventisettesimo anno – minimum fax – € 8