di Danilo Arona
[Tutte le Cronache di Bassavilla]
DOGVILLE
Nell’inverno del 1954 Giovanni Albanese aveva 52 anni. Il suo negozio di fiori in via dei Martiri procedeva a gonfie vele, ma a lui poco importava. Il suo chiodo fisso dall’aprile del 1925 era sempre quello: Melissa, la bellissima e amatissima cugina, inghiottita dal nulla, o dal fiume, il cui mistero mai nessuno aveva potuto risolvere. Misteriosamente scomparsa sul tragitto di casa all’ora del rientro dal lavoro, più o meno intorno alle venti, a opinione di Giovanni era stata aggredita da un balordo, mentre secondo il giornale locale e il cosiddetto “buon senso comune” la ragazza si era buttata nel Tanaro per colpa dei troppi libri che leggeva.
Quando si sentiva più malinconico del solito, Giovanni, una volta chiuso il negozio, provava a ripercorrere con tutte le varianti possibili il percorso che Melissa faceva tutte le sere dalla Cappelleria Valizzone, sita in piazza Vittorio Emanuele, alla propria abitazione di via Urbano Rattazzi. Alla ricerca, chissà, di un segno o di un’ispirazione. Il tutto razionalmente meno che inutile, ma per lui un infimo surrogato di vita.
Così fece anche quella sera del 2 febbraio, fredda e bigia come possono esserlo soltanto certe serate invernali di Bassavilla, con la nebbia in centro che ti aggredisce da dietro gli angoli delle case o dai tombini che comunicano con il mondo di sotto, con i lampioni circondati da un’aureola giallastra e la “scarnebbia” che ti bagna sin nelle mutande. Quella sera, invece di raggiungere casa sua che distava pochi metri dal negozio, deviò verso Piazza Garibaldi costeggiando via San Giacomo della Vittoria, alla ricerca di un percorso alternativo a quello che Melissa era solita compiere, una volta terminato il lavoro. Così, quando mancavano pochi minuti alle venti (ma pareva mezzanotte tanto gli alessandrini stavano già rintanati), si trovò in piazzetta Marconi, transitando davanti alla bottega del calzolaio Emilio Olmo.
Qui qualcosa lo bloccò, innalzandogli di colpo la pressione sanguigna. Dall’interno della bottega, non ancora del tutto chiusa perché la serranda a maglie era stata abbassata soltanto per metà, provenivano rantoli e gemiti impressionanti, di più persone che di sicuro necessitavano di un aiuto immediato. Giovanni conosceva l’Olmo e il calzolaio più giovane che lo aiutava, perché si era recato in quella bottega almeno un paio di volte nel passato per far risuolare delle scarpe del padre. E non si capacitava di quel che poteva essere successo. Allora si abbassò per tentare di decifrare la scena e mise a fuoco sulle prime soltanto un muro di oscurità dentro il quale più bocche stavano gemendo sempre più flebilmente. Tornò in posizione eretta e si guardò attorno: la piazza appariva deserta, tanto per cambiare. Si curvò di nuovo e si rese conto che dal retro del negozio fuoriusciva la fioca luce di una lampada. Allora ruppe gli indugi e alzò la saracinesca, portandosi per pochi passi verso l’interno, alfine di permettere ai suoi occhi di abituarsi alla penombra. Quando ciò accadde, più o meno dopo un mezzo minuto, Giovanni decifrò uno spettacolo terribile.
Nella prima stanza, sul pavimento, il corpo di un uomo lamentoso — Giovanni vi riconobbe l’Olmo — con una grossa chiazza di sangue sul pavimento accanto alla testa tentava invano di trascinarsi verso l’esterno. Nel laboratorio adiacente, più illuminato dalla lampada, si vedeva un altro uomo, forse il garzone, riverso sul pavimento e la testa aperta in due come un cocomero. A un paio di metri più indietro Giovanni riconobbe nel femminile corpo tremante la moglie dell’Olmo, stesa al suolo e pure lei col cranio fracassato, che stava gemendo e rantolando con suoni agghiaccianti. Attorno a loro le pareti apparivano screziate di schizzi di sangue e di altri grumi più solidi, forse frammenti di ossa e materia cerebrale. Nauseato e atterrito, Giovanni corse fuori e andò a bussare con furia alla serranda, anche questa semiabbassata, di un forno lì vicino dove sapeva già essere in produzione il pane per il giorno seguente. Nel frattempo erano transitate a piedi altre due persone, i giocatori dell’Alessandria Mario Gabbiani e Gianfranco Tuberosa che, attirati dai movimenti concitati di Giovanni e da quegli orridi lamenti nel buio, avevano sbirciato dentro la bottega di Olmo e avevano intravisto quel che aveva provocato la fuga del fioraio. Qualcuno provvide a chiamare Croce Rossa e polizia. Alle 20, 15, mentre Giovanni si dileguava perché non voleva essere infastidito dai lunghissimi formalismi burocratici di un’eventuale denuncia, le ambulanze giunsero in Piazza Marconi e trasportarono i feriti al Pronto Soccorso. La moglie di Olmo e il garzone, Francesco Dametto, spirarono pochi minuti dopo il ricovero. Emilio Olmo riemerse dall’incoscienza intorno alle 21,30 data la relativa gravità delle sue ferite, e sostenne che quel macello era l’epilogo di un tentativo di rapina finito male. Stando al suo racconto, due banditi si erano presentati all’orario di chiusura con il volto celato da una sciarpa scura e, al diniego di consegnare loro l’incasso, lo avevano picchiato con violenza sul capo, facendolo svenire. Evidentemente poi si erano accaniti su sua moglie, Costantina Masuello, e sul Dametto.
Questa versione dei fatti non convinse però gli inquirenti. Nei giorni successivi accurate indagini — soprattutto rilievi quanto mai pignoli sulla scena dei delitti — permisero di stabilire che l’esecutore materiale di quell’iraddidio era l’Olmo in persona che, dopo aver colpito più volte sul capo con una spranga di ferro la moglie e il garzone, si era ferito da solo — con assai meno forza — per avvalorare la tesi della rapina. Classiche, a rasentare la banalità, le motivazioni di tanto sangue: l’Olmo amoreggiava da tempo con la moglie del Dametto, Matilde Calomino, e aveva deciso di eliminare in senso letterale ogni ostacolo alla sua “love story”. Una volta smontato il bluff, Olmo tentò di suicidarsi, ma fu altrettanto maldestro. Il 12 luglio del 1954 venne condannato all’ergastolo.
Giovanni Albanese giudicò la sua esperienza di Piazza Marconi come un pessimo segno e per parecchio tempo si prostrò ancor di più nello scoramento. Giunse a immaginare che Melissa, in quella brutta serata di aprile del 1925, fosse stata aggredita proprio nel vicolo adiacente il negozio dell’Olmo, una stradina oscura e minacciosa che ancora oggi si chiama via Merula, e pensò che tracce di quel male sparso per gli atomi ancora ruotassero tra Piazza Garibaldi e Piazza Marconi, impregnando la superficie urbana e rendendola nociva. Forse, come esistono case infernali e infestate da spiriti di trapassati che non si rassegnano alla loro morte perché strappati violentemente alla vita da iniqui personaggi — su questo rimuginò a lungo Giovanni a seguito del caso Olmo —, così possono esistere “città infestate” le cui mura riescono a “parlare” per secoli a chi le sa ascoltare, città dove dolenti fantasmi riescono a farsi vedere, magari per pochissimi secondi soltanto, da chi possiede quel terzo occhio in grado di perforare la realtà apparente. Camminò tantissimo, Giovanni, nella sua lunga e oppressa vita, quasi sempre sul tragitto, e sui tragitti, di Melissa verso casa. Innumerevoli volte anche sul lungo fiume. Ma non riuscì a vedere mai nulla.
(Almeno sino al 1966, l’anno in cui uscì il film Operazione paura — ma quello era solo un film e lo vedevano tutti…)
E una sera, passando per via Urbano Rattazzi dove Melissa aveva vissuto, disse a sé stesso a bassa voce: “Se c’è una città senza la quale il mondo starebbe meglio, è questa qui.”