L’abbandono artistico della “retta via” operato da Blake, Füssli e Goya

di Gioacchino Toni e Gianluca Ruggerini

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La pittura degli incubi di Johann Heinrich Füssli

Originario di Zurigo, introdotto allo Sturm und Drang tedesco da Johann Jakob Bodmer, Füssli completa la propria formazione col tradizionale grand tour italiano per poi trasferirsi definitivamente in Inghilterra sotto il nome di Henry Fuseli. La letteratura ed il teatro rappresentano i veri punti di riferimento dell’opera di Füssli, centrata soprattutto sulle suggestioni di Omero, Dante, John Milton e William Shakespeare. Alle “tematiche innaturali” desunte da questi autori lo svizzero accorda uno stile pittorico altrettanto fantasioso, fatto di ardite torsioni dei corpi, deformazioni mostruose e dimensionamenti inverosimili dei diversi personaggi.

La progressione sulla via dell’antimoderno ripiegamento nell’inquietudine interiore — estranea e disinteressata a qualunque ottimistico rapporto con il reale, con la natura — porta Füssli ad una presa di distanza dal gusto dominante. Ciò è manifesto, ad esempio, nel disegno L’artista disperato di fronte alla grandezza delle rovine antiche (1778-1780 ca.), ove il pittore svizzero declina l’esperienza sublime dell’uomo di fronte all’antichità secondo la lezione di un altro “isolato” del periodo: Giovan Battista Piranesi. Il senso di soffocamento che nell’opera si coglie attorno ai resti del passato, che sembra “pesare” in tutta la sua fisicità, finisce in realtà per aprire alla sfera onirica e spirituale quale via di fuga: il mondo greco-romano è qui ridotto a puro ingombro attraverso una presa di distanza dal classicismo in quanto tale (dal “malessere” neoclassico per l’irraggiungibilità dell’arte antica) e l’esperienza del sublime è conseguentemente indirizzata verso il sogno e la fantasticheria.
A livello stilistico, tale opzione anti-convenzionale trova una prima, significativa coerenza ne Il giuramento dei tre confederati sul Rüttli (1780): qui l’artista opta per colori e luminosità artificiali e per alterazioni formali decisamente innaturali, tanto da rievocare il Manierismo fiorentino. Inevitabile è il confronto con Il giuramento degli Orazi (1784-1785) di Jacques-Louis David, opera di poco successiva: mentre nel dipinto del francese la composizione segue una direttrice orizzontale (assecondando e sviluppando razionalmente l’evidenza fisica, terrena dei personaggi), in quello dello svizzero essa tende ad uno slancio verticale, quasi invocando (o evocando) una dimensione spirituale, immaginaria. Si tratta, evidentemente, di differenti scelte di campo: David valorizza la sfera delle certezze (risolvendola nella fruizione vigile, cosciente), Füssli propende per dare forma all’impalpabile e fluttuante mondo fantastico, all’ultra-terreno (liberando la visione onirica).
La via füssliana della “fuga dalla realtà” è tanto più evidente nella celebre opera L’incubo del 1781 (in seguito riproposta in altre cinque versioni), che dà immagine ad una dormiente riversa sul letto materializzandone contemporaneamente gli inquietanti personaggi dei sogni (un nano mostruoso ed una testa spettrale di puledra). Il termine inglese nightmare, che abitualmente denota l’incubo, può essere scomposto in night (notte) e mare (cavalla), da cui la doppia significazione su cui gioca l’artista: “night-mare=cavalla della notte” e “nightmare=incubo”. Anche nell’opera Le tre streghe (1782-1783), che si rifà alla shakespeareiana descrizione del rimorso che spinge Lady Macbeth alla follia dopo l’uccisione del re di Scozia, Füssli accorda al registro fantastico opportune scelte stilistiche: le tre teste di megera, grottescamente irreali, che squarciano le tenebre illuminate da una luce sinistra sottolineano l’adesione ad uno statuto di finzione teatrale piuttosto che all’illusionismo mimetico. Sempre d’ispirazione shakespeareiana, dal Sogno di una notte di mezza estate, è Il risveglio di Titania e Bottom con la testa d’asino (1793 ca.). L’opera fissa l’attimo del risveglio della regina delle fate sotto l’effetto della pozione magica che la farà innamorare del trasfigurato Bottom. Anche in questo caso, la rappresentazione sfugge ad ogni ipotesi naturalistica: le figure “galleggiano” entro la scena ordinandosi secondo proporzioni variabili, in aperta contestazione della logica matematico-prospettica di scansione dei volumi e degli ingombri spaziali. Ancora una volta Füssli coniuga il tema fantastico, mondo dei sogni e degli incubi ove tutto è possibile, con l’inverosimile stilistico (libertà espressiva assoluta, priva di regole).

L’emergere dei turbamenti in Francisco Goya
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A differenza di molti altri artisti dell’epoca, Goya non percorre la facile strada del recupero dell’antichità, contrapponendo anzi alla sobria idealizzazione delle poetiche neoclassiche una pittura ironica e tragica, fondata su colore ed ombra. La sua opera esprime in tal senso un turbamento legato alle trasformazioni epocali che scuotono la Spagna. Da un lato Goya condivide a tutti gli effetti le ansie di quell’èlite spagnola di cui entra a far parte, dall’altro vive contemporaneamente il dramma dell’aggravamento di una malattia che lo porterà alla sordità. Si tratta di sconvolgimenti che si traducono in pittura nell’adozione di nuove tematiche e modalità stilistiche.
Dopo una prima fase trascorsa a Saragozza tra soggetti religiosi ed inevitabile adesione ai canoni barocchi, Goya approda a Madrid nel 1774 attivandosi presso Manifattura reale ove lavora ai disegni per gli arazzi destinati alla vita privata della famiglia del sovrano, trattando tematiche “leggere” secondo uno “stile semplificato” (imposto dalla tecnica dell’arazzo) che lo allontana dalle aspettative mimetiche della pittura di impianto moderno. È però soprattutto nella produzione incisoria che lo spagnolo dimostra tanto appartenenza quanto distanza rispetto alla stagione culturale in essere, ai suoi contenuti, ai suoi linguaggi.
Laddove il pensiero illuminista tende a rimuovere la sfera “oscura” dell’esistenza — l’universo degli incubi, delle superstizioni, dell’incomprensibile – negandogli diritto di cittadinanza anche nell’arte, Goya (pur sempre figlio dei “lumi”) nelle proprie opere concede altresì spazio al fosco mondo delle inquietudini. Per il pittore, non si tratta tanto di parteggiare per la “ragione” o per i “mostri” (perlomeno in prima battuta), ma piuttosto di dar loro pari visibilità, nella consapevolezza della pluralità dell’esistenza. In tal senso, l’artista prende le distanze dall’Illuminismo non tanto nei suoi aspetti di richiamo metodologico al raziocinio (che anzi sostiene quando afferma, come vedremo, che: “Il sonno della ragione genera mostri”), quanto in quelli di ostinata negazione di un “oltre” irragionevole.
La “malinconica ironia” che contraddistingue un po’ tutta l’arte di Goya raggiunge apici di raffinatezza nella sterminata produzione ritrattistica. Convinto interprete ed al contempo sottile “irrisore” del bisogno di rappresentanza dell’èlite spagnola del periodo, il pittore spagnolo esprime anche in quest’ambito la contraddizione tra il non essere più parte della tradizione ma non essere ancora del tutto nuovo, sottolineando stilisticamente ed iconograficamente l’incertezza politica del tempo presente (sospeso tra la decadenza del vecchio e l’arroganza del nuovo) ed accompagnando la committenza aristocratica nell’ultimo atto della sua parabola storica. In tali opere i personaggi sono raffiguranti con “corpi da manichini”: le pose risultano irrigidite, gli sguardi persi nel vuoto ed i volti inespressivi, mentre particolare cura è riservata alla resa delle vesti.
Più che indulgere semplicisticamente ad una lettura “caricaturale”, ci interessa qui cogliere nelle fattezze raffreddate e stereotipate (“da manichino”, appunto) la risposta stilistica dell’artista agli ormai logori canoni dell’esuberante vitalità barocca. Lo stesso spirito di semplificazione delle anatomie e dei volti lo ritroviamo nel dipinto Majas al balcone (1810-1812). Qui l’autore contrappone sapientemente il candore cromatico e tematico del primo piano (la sfera delle apparenze) all’oscurità dello sfondo e delle due “figure nere”, evidenziando in tal modo le tetre ombre del “peccato” dietro all’innocenza del “pettegolezzo”.
La volontà di fare i conti con la coscienza epocale è alla base di una delle opere più celebri di Goya: Il 3 maggio 1808: fucilazione alla Montaña del principe Pio (1814). Si tratta di un dipinto a struttura orizzontale, in cui l’idea di profondità appare frenata, lo sfondo ridotto all’essenziale e le anatomie dei personaggi alquanto semplificate. L’opera sviluppa a livello tematico l’eroismo della resistenza spagnola, inscenando la rappresaglia francese seguita all’insurrezione del popolo madrileno. La polemica nei confronti di un’epopea napoleonica inauguratasi all’insegna del progresso e della libertà illuminista e conclusasi nell’aberrazione delle guerre di conquista è quanto mai dichiarata, evidenziata anche dalle scelte iconografiche dell’artista: la freddezza razionale degli invasori – allineati in uniforme, nell’anonimato di un plotone d’esecuzione che non lascia intravedere un solo volto – è sottolineata da posture geometriche che rimandano agli Orazi di David, mentre l’intensità emotiva delle vittime è rimarcata dalla plurale caratterizzazione del loro sacrificio, dal loro affrontare la morte con atteggiamenti personalissimi.
La lanterna ai piedi dei francesi (metafora del binomio rivoluzionario “Napoleone-libertà”) indica come, in questo caso, sia proprio la pretesa della ragione a determinare la tragedia: quello stesso “lume” che dovrebbe rischiarare le tenebre – sembra suggerire Goya – finisce col mostrare risultati nefasti. L’intera opera è un’esortazione al “veder bene”, un monito per la Ragione a valutare criticamente anche i propri risultati: la luce che squarcia le tenebre di Goya non è pertanto quella gloriosa degli illuministi – volta a cacciare i mostri che vivono nelle tenebre – ma è una luce impietosa, che mostra senza remore come l’orrore si celi ovunque. Anche grazie all’ironia e alla caricatura, lo spagnolo non intende negare l’oscurità e l’assurdità, arrivando, al contrario, a mostrare quanto la stessa razionalità possa produrre aberrazione, abbagliare e addirittura accecare.
Le opere eseguite alla Quinta del sordo incarnano l’ultimo atto dell’inquietudine di Goya. A questa produzione appartengono il celebre Saturno che divora un figlio (1821-1823) ed il Sabba (1821-1823), opere che rispondono a modalità espressive deformanti e disumanizzanti. Lo stesso trattamento stilistico si ritrova anche nel Pellegrinaggio a San Isidro (1821-1823), che prende di mira il fanatismo religioso, trasformando i pellegrini – disposti in una lunga fila, dipanantesi sui colli dello sfondo quasi si trattasse di un serpente – in altrettante maschere di invasati. Sebbene l’umanità “tetra” messa in scena da Goya in tale ultima fase sembri discostarsi da quella “gioiosa” descritta nelle opere giovanili, a ben guardare anche questa conferma la già consapevole portata caricaturale, non priva di disillusione e cattiveria: anche nella giocosità quasi forzata degli “spensierati” personaggi della prima produzione, infatti, è riscontrabile l’esasperazione espressiva, già di per sé inquietante, della maschera. D’altronde, proprio nel rifiuto di una riduzione mono-dimensionale della complessità dell’essere – e nella conseguente ricerca di linguaggi pittorici atti a rimarcare la cosa – sta la tormentata grandezza dell’artista spagnolo, capace di guardare con gli occhi della ragione e dell’intuizione ben più in là di quanto gli permettessero i “lumi” del proprio secolo.

(2-FINE)