LA NATURA E LA FELICITA’ POSSIBILE
di Girolamo De Michele
[Cominciamo, con questo intervento, la pubblicazione di una piccola serie di testi critici su Leopardi, a trent’anni di distanza dalla celebre polemica di Sebastiano Timpanaro contro gli Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (gdm)]
Giacomo Leopardi, critico implacabile degli ottimismi del suo e del nostro tempo, si erge a fronte di ogni facile teoria della felicità. Questo lungo fine secolo, dopo aver giubilato per un decennio, con beata idiozia, la lieta novella e le magnifiche sorti e progressive della caduta del muro di Berlino e della «fine delle ideologie», è oggi costretto a riaprire gli occhi per riconoscere che il secolo non è stato breve, e che il crollo delle ideologie è anch’esso un’ideologia; che miseria e infelicità, rapidamente dislocate in nuove periferie (delle metropoli, delle nazioni, dell’Occidente) assediano ancora le fortezze del benessere e dell’ingiustizia; che moltitudini di nuovi miserabili, evidentemente inconsapevoli della fine della storia e ancor più ignare del decretato passato delle illusioni, vengono alla ricerca delle favolose casette di marzapane mostrate loro dalle immagini televisive captate da antenne satellitari costruite con ruote di biciclette e metalli riutilizzati: e davvero col Poeta ripetiamo qui mira e qui ti specchia, secol superbo e sciocco.
A me sembra che in Leopardi si possa rinvenire una sorta di teoria minore della felicità, una «felicità possibile» collegata al tema dell’umana operosità. Per poterla enunciare è necessaria una grande attenzione non solo per rispetto della pagina leopardiana, ma anche perché il tema della felicità subisce un sensibile spostamento semantico tra un primo gruppo di riflessioni, che ruotano attorno al 1820-1821, e un secondo gruppo, più tardo, riconducibile al momento del più dichiarato nichilismo leopardiano. Si tratterà dunque di prestare un’estrema attenzione al doppio significato di felicità che troviamo nel primo periodo, e al permanere di uno di questi due significati in chiave negativa nel più tardo periodo del nichilismo leopardiano.
Partiamo dall’enunciazione della posizione generale di Leopardi, quale la si desume da alcune pagine dello Zibaldone [d’ora in poi Z, seguito dal numero di pagina e dall’anno]:
«Bisogna distinguere tra il fine della natura generale e quella della umana, il fine dell’esistenza universale e quello della esistenza umana, o per meglio dire, il fine naturale dell’uomo e quello della sua esistenza. Il fine naturale dell’uomo e di ogni vivente, in ogni momento della sua esistenza sentita, non è né può essere altro che la felicità, e quindi il piacere suo proprio; e questo è anche il fine unico del vivente, in quanto a tutta la somma della sua vita, azione, pensiero. Ma il fine della sua esistenza, o vogliamo dire il fine della natura nel dargliela e nel modificargliela, come anche nel modificare l’esistenza degli altri enti, e insomma il fine dell’esistenza generale, e di quell’ordine e modo di essere che hanno le cose e per se, e nel loro rapporto alle altre, non è certamente in niun modo la felicità né il piacere dei viventi, […] perché questa felicità è impossibile […]. Dunque la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacere né la felicità degli animali; piuttosto al contrario» [Z 4127-4129, 1825].
L’Autore cita qui a sostegno le Operette, e segnatamente il Dialogo della natura e di un islandese. E più oltre:
«Felicità non è altro che contentezza del proprio essere e del proprio modo di essere, soddisfazione, amore perfetto del proprio stato, qualunque del resto esso stato si sia, e fosse pur anco il più spregevole. Ora da questa sola definizione si può comprendere che la felicità è di sua natura impossibile in un ente che ami se stesso sopra ogni cosa, quali sono per natura tutti i viventi, soli capaci d’altronde di felicità. […] Quindi non sarete mai contento, mai in uno stato di soddisfazione, di perfetto amore del vostro modo di essere, di perfetta compiacenza di esso. Quindi non sarete mai e non potete esser felice, né in questo mondo né in un altro» [Z 4191-4192, 1826].
Al fondo del pessimismo cosmico leopardiano è la disgiunzione tra verità e felicità, ovvero tra i fini dell’uomo e i fini della natura: «noi consideriamo quest’ordine in un modo, e la natura in un altro. Noi in un modo con cui l’ignoranza è incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza» [Z 327, 1820]. Questa è l’impostazione generale di Leopardi: non è possibile alcuna felicità generale. A questa dimensione negativa si può opporre una contro-forza basata sull’umana operosità: è un’affermazione forte, perché lo stesso Leopardi riconosce che «pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l’azione, l’attività, l’abbondanza della vita» [Z 4185, 1826]. E invece infelicità e attività «procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l’una che l’altra. Riconosciuta la impossibilità tanto dell’esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell’anima ad un fine impossibile a conseguirsi; […] resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza [Z 4185-4186, 1826]». Notiamo che il discorso leopardiano si svolge attorno alle affezioni, e non attorno agli enti: con un metodo che richiama sorprendentemente quello spinoziano (e non solo per il negativo scelto come punto di partenza critico), il problema posto da Leopardi non concerne la felicità o l’infelicità in se stesse, quanto gli effetti, le passioni, le tristezze e le illusioni che causano all’uomo. Solo grazie a questo principio metodologico è possibile introdurre la distrazione come affievolimento delle passioni tristi ingenerate dall’infelicità universale: «questa [distrazione] consiste nella maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell’animo» [Z 4187, 1826].
Restiamo su questo punto di contatto tra Leopardi e Spinoza. In Spinoza abbiamo, a livello di teoria della conoscenza, un punto di partenza negativo (come in Leopardi a livello di teoria della felicità) che dev’essere contrastato da un accumulo di affezioni positive. Diciamo che Leopardi è pessimista, laddove Spinoza è invece ottimista, nell’aspetto quantitativo: Leopardi ritiene che queste affezioni positive possano limitare solo in parte, ma non equivalere al negativo dell’esistenza — «ma i suoi effetti sono il meglio che resti, lo stato che esso produce è il miglior possibile» [Z 4187, 1826], Spinoza è convinto del contrario. Questa differenza va rilevata: ma è certo che anche con Leopardi abbiamo a che fare con un soggetto che costruisce la propria potenza di essere a partire dalle proprie azioni. Il quadro negativo dell’esistenza umana non è una descrizione tragica dell’esistenza: l’uomo non è condannato a vivere nel negativo. L’uomo è tutt’al più condannato ad assottigliare continuativamente, con la propria operosità, la negatività della vita. Questa negatività è data dalla sproporzione assoluta tra l’uomo e la natura — sproporzione che tuttavia l’uomo riduce sempre più. Quindi la socievolezza dell’uomo non è il punto di partenza naturale, ma il punto di arrivo della propria operosità: se devo assottigliare il negativo della vita, lo assottiglio molto di più con la cooperazione che non con l’azione individuale.
Una breve, ma non inutile digressione. Perché Leopardi, che non sembra aver letto di prima mano Spinoza, non ha approfondito questa linea di pensiero? La domanda è rilanciata dalla constatazione che, quando medita su Dio, Leopardi giunge senza esitazioni al concetto di un Dio non in atto (come la mente divina secondo Aristotele, o il Dio cristiano), ma come infinita possibilità: «dunque s’egli è infinito, esiste in tutti i modi possibili. […] Dunque egli ha potuto e può fare altri ordini diversissimi di cose, e aver con loro que’ rapporti di quella natura che vuole. […] L’infinita possibilità che costituisce l’essenza di Dio è necessità. Da che le cose esistono, elle sono necessariamente possibili». E ancora: «da che le cose sono, la possibilità è primordialmente necessaria, e indipendente da checché si voglia. Da che nessuna verità o falsità, negazione o affermazione è assoluta, com’io dimostro, tutte le cose son dunque possibili, ed è quindi necessaria e persistente al tutto l’infinita possibilità. […] Viceversa non può stare l’infinita onnipotenza senza l’infinita possibilità. L’una e l’altra sono, possiamo dire, la stessa cosa» [Z 1623-1647, 1821]. Dopo di che Leopardi non si avventura nelle conseguenze di quest’idea, che definisce come «appena abbozzata». Sembra quasi che il materialismo, che per Leopardi è metodologicamente fondamentale, funga però da ostacolo epistemologico: in altri termini, Leopardi sembra indicare oltre l’orizzonte del proprio materialismo, senza però proseguire l’indagine su questo terreno.
Nondimeno, questa digressione ci ha introdotto a un punto importante del sistema leopardiano: la relatività dei valori. È un passaggio importante, perché la costruzione di quel sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d’infelicità, non avendo fondamento ontologico, non può che posare sul mobile fondamento della produzione di valori, che è necessariamente relativa: proprio perché l’azione dell’uomo non può essere ricondotta verso un fine naturale — ed anzi tutto sembra dimostrare il contrario, i valori dell’uomo possono essere intesi soltanto come valori relativi.
Questo è uno dei punti forti in cui lo scetticismo, invece di giungere in una sorta di abisso pascaliano, si rovescia in relativismo, in cui il metodo negativo di Leopardi si ribalta nell’impostazione di una filosofia pratica (che era per altro abbozzata nello Zibaldone). Un altro di questi punti di ribaltamento è la Teoria del neo, nella quale la razionalità del male, già annunciata dagli scritti di Laclos e Sade all’apice dell’Illuminismo, trova adesso in Leopardi accenti gnostici:
«Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l’esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male. Non v’è altro bene che il non essere: non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti modi che esistono; l’universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L’esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un’imperfezione, un’irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo perché tutti i mondi che esistono […] sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l’universo potrebbe essere se fosse finito» [Z 4174, 1826].
Perché Leopardi indaga questo paradosso del negativo? Perché questa certezza del male si pone comunque come la prima e la più irriducibile delle certezze. È lo stesso esercizio mentale di Descartes, senza bisogno di postulare né Dio, né il diavoletto cattivo. È un nichilismo che va ancora più all’osso: la stessa esistenza è un neo, un’infinita piccolezza rispetto all’infinità del tutto. Tuttavia questa è una certezza: il metodo negativo è un metodo che scava nella negatività e dimostra quasi per paradosso come questa riduzione debba arrestarsi a questo neo, comunque a una prima attestazione, e su questa attestazione viene costruita l’umana operosità. Tanto è vero che circa un anno dopo, Leopardi ci dà il diretto rovesciamento, o, più che rovesciamento, la conclusione di questo discorso che si arrestava al neo: «che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perché noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. […] Un fatto, perché noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di sé, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue mani [Z 4288, 1827]» .
Il materialismo di Leopardi è esattamente questo rovesciamento del negativo: l’esistenza sarà pure qualcosa di negativo, sarà pure un neo, ma è un fatto che questo neo è pensante, che la materia è pensiero, che la materia è pensante e coincide col pensiero.
Possiamo ora affrontare in termini più chiari il rapporto tra felicità e natura, a partire da una riflessione del 1820: «dicono che la felicità dell’uomo non può consistere fuorché nella verità. […] Eppure io dico che la felicità consiste nell’ignoranza del vero. E questo, appunto, perché il mondo è diretto alla felicità, e perché la natura ha fatto l’uomo felice. […] E la perfezione consiste nella felicità quanto all’individuo, e nella retta corrispondenza all’ordine delle cose, quanto al rimanente. Ma noi consideriamo quest’ordine in un modo, e la natura in un altro. Noi in un modo in cui l’ignoranza è incompatibile: la natura in un modo col quale è incompatibile la scienza» [Z 326-327, 1820].
Abbiamo qui una disgiunzione tra la felicità umana e la felicità naturale. La disgiunzione è qui ancora priva di una terminologia adeguata, che Leopardi trova in questo decisivo passo, che schiude un orizzonte politico di grande ampiezza:
«Lo scopo dei governi (siccome quello dell’uomo) è la felicità dei governati. Forse che la felicità e la diuturnità della vita, sono la stessa cosa? […] Poniamo che negli stati presenti, che si chiamano ordinati e quieti, la gente viva, un uomo per l’altro, settanta anni l’uno: negli antichi che si chiamano disordinati e turbolenti, vivessero cinquanta soli anni, a distribuir tutta la somma delle vite, ugualmente fra ciascheduno. E che quei settanta anni sieno tutti pieni di noia, e di miseria in qualsivoglia condizione individuale, che così pur troppo accade oggidì; quei cinquanta pieni di attività e varietà ch’è il solo mezzo di felicità per l’uomo sociale. Domando io, quale dei due stati è il migliore? quale dei due corrisponde meglio allo scopo, che è la felicità pubblica e privata, in somma la felicità possibile degli uomini come uomini? cioè la felicità relativa e reale, e adatta e realizzabile in natura, tal quale ella è, non riposta nelle chimeriche e assolute idee, di ordine e perfezione matematica. Oltracciò domando: la somma vera della vita, dov’è maggiore? in quello stato dove ancorché gli uomini vivessero cent’anni l’uno, quella vita monotona e inattiva, sarebbe (com’è realmente) esistenza, ma non vita, anzi nel fatto, un sinonimo di morte? ovvero in quello stato, dove l’esistenza ancorché più breve, tutta però sarebbe vera vita?» [Z 626-628, 1821 (corsivi miei9].
Qui è esposto un diverso concetto di felicità, disgiunto dalla “felicità naturale”: si tratta di una felicità pratica. Questa disgiunzione tra le due felicità è un luogo decisivo per la nostra lettura. La felicità come fine, infatti, verrà sviluppata dal Leopardi del periodo nichilistico come infelicità pratica, laddove la natura si costituisce per l’uomo, indipendentemente dai suoi fini, come una macchina dell’infelicità. È perciò importante puntualizzare l’alternativa all’infelicità, costituita dalla felicità possibile.
Qual è lo stato proprio di questa felicità possibile? Secondo Leopardi è uno stato che si confà pienamente a due possibili condizioni umane, la piena vita o la piena morte: «o conviene ch’egli [l’uomo] e le sue facoltà dell’animo sieno occupate da un torpore da una noncuranza attuale o abituale, che sopisca e quasi estingua ogni desiderio, ogni speranza, ogni timore; o che le dette facoltà e le dette passioni sieno distratte, esaltate, rese capaci di vivissimamente e quasi pienamente occupate, dall’attività, dall’energia della vita, dall’entusiasmo, da illusioni forti, e da cose esterne che in qualche modo le realizzino. Uno stato di mezzo fra questi due è necessariamente infelicissimo» [Z 1585, 1821]. Come si vede, accanto allo gnosticismo gnoseologico è presente in Leopardi un radicale epicureismo civile. L’infelicità è inversamente proporzionale all’operosità dell’uomo: quanto più questi riempie la propria esistenza di desideri, speranze, timori, tanto più si assottiglia lo stato d’infelicità — e viceversa.
Possiamo trarre le conclusioni e svilupparle a partire dagli ultimi due passi. I fini della natura sono necessariamente disgiunti da quelli dell’uomo. In un certo senso possiamo dire che mentre la natura è una potenzialità che è sempre in atto, quella dell’uomo è una potenzialità tendenziale, che rimane vitale solo se mantiene quello stato di mobilitazione interiore che Leopardi concepisce in relazione alla vita civile: ecco il perché di quella disgiunzione che avevamo rilevato a partire dalle pagine dell’aprile 1825. Dunque l’impossibilità di far coincidere teoria e verità viene sviluppata da Leopardi come unica alternativa sul piano etico, sul piano morale, sul piano dell’agire umano. Questo rimedio altro non è che quella «distrazione» consistente nella «maggior somma possibile di attività, di azione, che occupi e riempia le sviluppate facoltà e la vita dell’animo». Cos’altro sarebbe la vita degli uomini, «condannati alla infelicità dalla natura», senza il conforto del «dilettevole negli studi»? «Io tengo (e non a caso) che la società umana abbia principii ingeniti e necessari d’imperfezione, e che i suoi stati sieno cattivi più o meno, ma nessuno possa esser buono. In ogni modo, il privare gli uomini del dilettevole negli studi, mi pare che sia un vero malefizio al genere umano» [lettera a Giordani, 24 luglio 1828].
Cos’è allora la felicità possibile? È prassi umana, nella quale cade anche la distinzione tra la vita activa e la vita contemplativa tipica dell’etica aristotelica. È azione diretta contro la naturale produzione dell’infelicità, alternativa etica all’infelicità derivante dalla impossibilità di far coincidere verità e teoria. Non diversamente ci appare il problema se alla natura sostituiamo la storia, intesa come produttrice di umana infelicità, sofferenza, miseria. La lezione leopardiana è quindi altissima: la felicità possibile, condensata nel tempo breve e denso dell’attività, è un pugno di sabbia lanciato negli ingranaggi metallici della macchina dell’umana infelicità.
[testo riveduto da: Girolamo De Michele, Felicità e storia, 2001, cap. 4.3]