di Antonio Nucci
Illustrazioni di Pierangelo Rosati
Qui tutte le puntate del romanzo on line Playmaker
2.
Non gli pareva vero. Le pagine che scorrevano sul video gli ridavano speranza. Soldani aveva unito tutta la documentazione in un unico file che aveva poi spedito al negozio, sentendosi probabilmente in pericolo, per permettere a Walter di poter agire comunque.
“Che roba è?” chiese Sonia incuriosita.
“E’ l’unica cosa che può salvarci. Non immagini quanto è utile quello che hai fatto. Ora devo andare. Mi raccomando, dormi dagli zii le prossime sere.”
“Quando…affronterai quella persona?”
“Presto, forse domani stesso.”
Sonia ebbe un sussulto e qualcosa si mosse in lei.
“Walter” disse guardandolo dritto negli occhi “ci sono tante cose che avrei voluto dirti riguardo…ciò che c’è stato tra noi.”
“Lascia stare, ormai è acqua passata.”
“No, voglio dirtelo. In quel periodo ero troppo insicura. Non riuscivo a essere costante in niente e non sapevo spiegarmene il motivo. Non riuscivo a spiegarlo nemmeno a me stessa.”
“Probabilmente ho fatto degli sbagli anch’io.”
Lei appoggiò la testa sulla sua spalla. Le loro guance si accarezzarono ma Walter preferì non andare oltre. La guardò. Sì, forse un po’ l’amava ancora, ma sentiva che ormai le loro strade avevano preso due direzioni diverse.
“C’è la possibilità…che non ti riveda?” disse lei con un filo di voce.
“Se tutto va come spero porterò a casa la pelle e forse libererò la città da questo tormento.”
“Devi uccidere qualcuno?” disse lei agitandosi.
“No, non ho armi con me, non quelle che conosci almeno. Ma non posso spiegarti cosa sto per fare, sarebbe un discorso troppo lungo e anche difficilmente credibile. Fidati di me, so quello che faccio.”
Lo abbracciò forte. Quell’abbraccio gli diede una inaspettata sensazione di fiducia in se stesso. Quando Sonia si staccò da lui aveva gli occhi lucidi.
“Fa’ come ti ho detto: stai lontana il più possibile da S.Clara finché tutto sarà finito.”
“Ok” riuscì soltanto a dire scuotendo il capo.
Si costrinse ad andare ma non riuscì a staccarle gli occhi di dosso finché non fu alla guida dell’auto.
Era ormai tardi per procurarsi nuovamente le sostanze utili; doveva rimandare all’indomani. Non poteva rischiare passando la notte a S.Clara e per di più nella sua casa ormai per nulla sicura. Era costretto a lasciare il paese. Preferì però fermarsi in un motel sulla A26 nei pressi di Stresa, anziché rientrare a Novara. Aveva con se tutto ciò che gli occorreva, ricambi e altri oggetti personali, e non voleva perdere la concentrazione su ciò che doveva fare.
Certo, l’idea di dover affrontare una situazione così rischiosa completamente solo non gli piaceva per nulla ma ormai era deciso a farlo. Non c’era altra soluzione: per coinvolgere qualcun’altro ci sarebbe voluto troppo tempo, e poi forse un’altra persona, magari poco convinta, gli sarebbe stata più d’impaccio che di utilità. Tutto era nelle sue mani. Non poté fare a meno di chiedersi se egoisticamente fosse stato meglio tirarsi indietro: chi gli imponeva di fare tutto questo? Solo…la sua coscienza; e il pensiero di tutti quei morti e di quelli a cui sarebbe toccata la stessa sorte; e i suoi parenti, gli amici, il pensiero di Kris, di Soldani; certo, anche Sonia. Il senso di colpa sarebbe rimasto come un macigno nella sua vita. Sperare che le forze dell’ordine avessero potuto catturare Tirelli prima o poi era fin troppo ottimistico. Quell’uomo, o qualunque cosa fosse diventato, era un pericolo troppo grande per essere combattuto con mezzi convenzionali.
Iniziò a rileggere i documenti e quando la stanchezza lo colse, assunse le dosi curative giornaliere e si addormentò. Vista la situazione, un sonno di quasi sei ore senza particolari turbamenti fu quanto di meglio avrebbe potuto aspettarsi.
3.
Erano circa le 19.45 di mercoledì 21 settembre quando fermò l’auto in cima al colle che dava sulla vecchia palestra. Aveva passato tutto il pomeriggio in un giardino pubblico a Baveno, in riva al Lago Maggiore, a ripassare il piano e le pratiche rituali decisi il giorno prima con Soldani. Calcolava le eventuali risposte alla reazione che il Tirelli avrebbe avuto in seguito all’attacco. Però ogni volta che il pensiero di trovarsi faccia a faccia con quel mostro si faceva largo in lui un fremito di angoscia faceva il giro del suo sistema nervoso. Aveva cenato a fatica, senza gusto e solo per raccogliere le forze. I due whiskey poi erano andati giù come acqua minerale. Si guardò a lungo intorno prima di scendere nel piazzale con l’auto.
Quando fu di fronte all’edificio ebbe un attacco di tremarella che durò qualche secondo. Ci mise un po’ a respingerla. Ritrovata la combattività si fece forza pronunciando ad alta voce un “Ok! Andiamo Walter, forza!” Aprì lo sportello e iniziò a scaricare il materiale. Aprì il portone ed entrò nella palestra illuminandola con una potente torcia.
Scoprì che quanto aveva ipotizzato Soldani era fortunatamente vero. Il parquet era tutto disseminato di rami accatastati secondo un preciso ordine e già bruciacchiati per i falò accesi. Meno male, altrimenti non ci sarebbe stato il tempo di portare della legna e avrebbe dovuto desistere. Aveva il tempo per sistemare le cose nel modo giusto, tuttavia si mosse con sollecitudine. Sapeva, grazie alla lettera di Ennio, che il potere del suo antagonista diminuiva gradualmente col passare delle ore e risaliva solo dopo il rito evocatorio. Se però quel pazzo avesse in qualche modo anticipato le sue mosse sarebbe stata la fine. S
Teneva a portata di mano il vecchio coltello da caccia di suo nonno infilato nell’apposita fondina, pur sapendo che un oggetto del genere avrebbe potuto dargli una protezione solo psicologica. Anche una pistola sarebbe risultata inutile contro i poteri di quel diavolo. Per prima cosa radunò tutto il legname in un angolo del parquet, poi incominciò a formare i falò secondo l’ordine dettatogli dallo schema che aveva tra le mani, cercando di riprodurre più fedelmente possibile anche le distanze fra i mucchi di legna. Li congiunse con scie di polvere bruna, una mescolanza di varie erbe che si era procurato in mattinata. Erbe che, prese una ad una, non avrebbero curato nemmeno un raffreddore, ma che unite appositamente sarebbero dovute servire a creare un antidoto contro l’azione del fuoco. Salì poi sulle spalliere ai lati del locale per poter verificare la disposizione del tutto. Gli oggetti descritti formavano ora l’opposto geometrico del simbolo impresso vicino all’entrata.
In ultimo attizzò uno a uno i falò e quando ebbe finito accese lo stereo portatile con su un nastro di antichi ritmi tribali Sakalava. La procedura esatta imponeva di suonare i tamburi manualmente, ma l’espediente avrebbe dovuto funzionare comunque. Prese i fogli necessari e incominciò a declamare ad alta voce il discorso rituale in un antico linguaggio malgascio, scandendo le parole lentamente e cercando di usare il più correttamente possibile la pronuncia aggiunta riga per riga da Soldani. Durante il discorso, con la mano destra si cospargeva il viso di una polvere azzurrina dall’odore appena percettibile. Quando ebbe terminato riattizzò un paio di falò che si andavano estinguendo e guardò l’orologio: era quasi l’ora. Prese nuovamente i testi e ricominciò a leggere daccapo per mantenere attiva la protezione divina.
Non era ancora arrivato a metà del Wakajbeko, il discorso introduttivo, quando sentì provenire dall’altro angolo della stanza, quello attiguo allo spogliatoio, un leggero rumore. Si voltò di scatto mentre il pallone cadeva dal canestro, rimbalzando questa volta con un rumore ben più netto. La sagoma di un uomo in abbigliamento da cestista che raccoglieva la sfera non gli lasciò dubbi. Era lui!!
Si era chiesto più volte che reazione avrebbe avuto all’incontro con quell’essere diabolico, ora lo sapeva. Nonostante l’aspetto di un innocuo sportivo, la vista di quel sogghigno, più glaciale di quanto non avesse mai visto nel volto di alcuno, ebbe l’effetto di pietrificarlo dalla testa ai piedi per secondi che sembrarono non finire mai. C’era qualcosa di ipnotico, in quell’uomo, a cui era difficile sottrarsi.
“E’ inutile che tu ripeta tutto. SONO QUI!”
Quelle parole pronunciate ad alta voce ma senza la minima enfasi echeggiarono in tutto il locale come se arrivassero da ogni direzione, tipo cinema con impianto acustico a 360 gradi.
Walter preferì non parlare. Sentì che il suono della sua voce avrebbe tradito l’ansia e il terrore che quella presenza gli incuteva.
“Sei venuto a fare due tiri? Come te la cavi in lunetta? O forse preferisci tirare da fuori?”
“Sai benissimo perché sono qui” disse finalmente Walter per aiutare se stesso a rompere gli indugi e anche per darsi un tono che non fosse da bambino impaurito.
“Già.” Il mostro sorrise, sempre con quella freddezza innaturale. “Per contrastarmi. E ti dirò che non mi dispiace. Stava diventando tutto troppo facile. Non è bella la vittoria se non la si ottiene contro un avversario valido. E tu sei il meglio che posso trovare da queste parti. E poi sei di origine santaclarese anche tu no? Di un po’: ti piace ancora il gelato alla fragola?” disse, continuando a palleggiare.
“E tu che ne sai?”
Rise sguaiatamente. Una risata gelida, senza emozione. La stessa che aveva sentito quella sera, fuori dalla casa di Ennio. Si fermò.
“Come, non ricordi? Quando tu e Lucio le prendeste da quegli sbruffoncelli tuo nonno ti consolò pagandoti un bel gelato alla fragola, anche se la fragola ti faceva venire i brufoli. Hai anche incontrato uno di loro ieri. E non ne hai nemmeno approfittato, anzi, gli hai dato aiuto. Che brava persona!” Disse questo sorridendo, ma era un sorriso di disprezzo. “O forse preferisci parlare dello sciame di vespe che ti mandai dietro quella volta? O di quel simpatico serpentone che ti terrorizzò così tanto? L’incendio sulla montagna…beh, quello fu solo un piccolo esperimento.”
Walter rimase inebetito per un attimo. Quelle rivelazioni erano in realtà solo una conferma di quanto già pensava. Poi ebbe un’intuizione: lo stava ipnotizzando. Ennio glielo aveva detto, non doveva perdersi dietro ai suoi discorsi, lo faceva apposta per distrarlo dal suo scopo.
“Tagliamo corto” disse Walter con il tono di voce più minaccioso che poteva. Aveva ritrovato il coraggio, sentiva una strana forza venirgli da dentro. “Dimmi solo perché odi tanto questa gente. Perché tutto questo sadismo?”
“Io odio tutto e tutti. Le persone che popolano il mondo e le loro regole di merda. S.Clara è solo il punto di partenza. Qui conosco ogni metro di terra. Vuoi sapere perché sento il bisogno di farlo? Non credo capiresti. Perché la gente fa quello che fa? Per potere. Per la soddisfazione di avere ciò che non tutti possono avere. Anche questo è sadismo: il sadismo del ricco a cui dà gusto avere tanti soldi perché sa che c’è tanta gente che non ne ha. Il sadismo di chi vuole comandare ogni attimo della tua vita per sentirsi il tuo padrone. Bene, io ho un altro potere: quello di poter disporre della vita e della morte delle persone a mio piacimento. E questo è il potere più grande, il potere assoluto.”
“Non mi convinci, c’è qualcosa di sbagliato in quello che dici. La realtà è che sei solo un pazzo sanguinario che non sa far altro che uccidere persone che non gli hanno fatto nulla.”
Tirelli sorrise ancora e quello fu l’ultimo sorriso che Walter vide sul suo volto.
“So fare anche un’altra cosa, non ricordi? Sono un playmaker: IO faccio il gioco. TU puoi solo impedirmi di fare centro.”
A quelle parole scagliò via il pesante pallone. La sfera attraversò la palestra come un razzo in piena corsa andando a stamparsi contro il viso di Walter, che non ebbe nemmeno il tempo di farsi scudo con le braccia. Una frazione di secondo e un male lancinante lo piegò in ginocchio, stordito. Il dolore percorse la testa dalla fronte a tutto il cranio e per qualche istante gli sembrò di non vederci più.
“COME, NON TI PIACE QUESTO GIOCO?” urlò la belva “EPPURE ERI VENUTO PER QUESTO!”
Walter tentò di rialzarsi. Il naso gli sanguinava copiosamente e gli faceva un male fortissimo ma doveva reagire subito. Cercò di fermare l’emorragia coprendosi le narici con la maglietta e arretrò verso i fogli per prenderli e chiedere aiuto alle forze benevole. Sebbene ancora stordito dal dolore iniziò a pronunciare la preghiera contro le divinità maligne. Tirelli cominciò allora a disfare i falò a calci urlando come un invasato, in un idioma anch’esso quanto mai remoto.
Walter continuò a declamare i suoi testi imperterrito, con la mano destra e la maglietta ormai coperte di sangue. Il suo avversario prese il primo tizzone a portata di mano e glielo scagliò contro alla stessa maniera del pallone. Questa volta Walter non si fece sorprendere e si scansò, ma i fogli gli caddero per terra. Un istante dopo una ventata immotivata e improvvisa li fece volare via. Guardò Tirelli e vide in lui la fierezza di chi si sente già vincitore.
“Credevi di farcela, eh? Quelle parole non sono niente se non ci credi davvero.”
Walter si guardò e vide. Vide un numero spropositato di vespe ricoprirgli il corpo, ne sentiva il brulicare sulla pelle. Due serpenti enormi venuti dal nulla gli si annodarono intorno alle braccia. Chiuse gli occhi e rimase immobile, non doveva cedere all’illusione. Poi non poté fare altro che tentare di resistere con l’unica carta a sua disposizione.
Aveva imparato a memoria un’unica frase, quella fondamentale. Con essa implorava un intervento estremo contro le divinità degli inferi. Iniziò a ripeterla continuamente, ininterrottamente, in maniera ossessiva. Riuscì a non farsi influenzare dal caos che il mostro scatenava intorno a lui: pezzi di legna che volavano, le polveri che avevano formato una specie di tromba d’aria, il fuoco che iniziava a espandersi. Riuscì a concentrarsi solo sulle sue parole, quelle uniche parole.
Poco dopo un vento e un boato fortissimo, continuo, echeggiarono per parecchi secondi, poi all’improvviso il nulla. Il silenzio più assoluto si era ora impadronito dell’intero locale. Solo poche minuscole fiammelle lo illuminavano. Nessuna traccia di bestie sul suo corpo. E del Tirelli nemmeno l’ombra. Si guardò intorno nel dubbio di essere veramente riuscito nell’intento. Tutto era finito, o almeno così pareva. Avanzò di qualche passo e inciampò in qualcosa che gli fece emettere un gridolino di sorpresa: il pallone da basket che lo aveva ferito, macchiato del suo sangue, unica traccia reale di ciò che era accaduto. Lo calciò lontano da sé con disgusto.
Non gli pareva vero. Aveva funzionato sul serio? O era l’ennesimo trucco? E quel boato era veramente la divinità accorsagli in aiuto? Gli era parso di sentire anche un urlo di disperazione soffocarsi nella gola del suo avversario. La palestra era devastata come un campo di battaglia.
Uscì lentamente, ancora incredulo: aveva difeso la sua vita e salvato quella di tanti altri. Risalì in auto e si allontanò dopo essersi tamponato le narici con pezzi di fazzoletti di carta. Attraversò il centro del paese che erano le 21,15. Quasi nessuno in giro per le strade. La tentazione di fermarsi nella sua nuova casa gli balenò per la mente solo per pochi istanti.
Non era ancora sicuro che tutto fosse finito: gli antichi testi dicevano che dopo essere state sconfitt,e le entità negative e chi le aveva evocate non perdevano potere immediatamente, ma poco a poco. Passò la notte in una pensioncina a Verbania. Non dormì molto, le immagini della battaglia scorrevano continuamente davanti ai suoi occhi indipendentemente dalla sua volontà. Era stata una prova durissima, il cui ricordo avrebbe cambiato per sempre il suo modo di vedere la vita. Anzi, la sua vita stessa era già cambiata.
Il destino si compie
1.
Fu svegliato dal bussare della donna delle pulizie che chiedeva se pensava di trattenersi ancora. Fece una breve doccia, si cambiò d’abito e scese a pagare il conto. Il naso non gli sanguinava più, ma la sensazione di sentirlo come fosse di pietra non era piacevole. Al primo bar sulla strada si fermò per fare colazione. Una strana sensazione non gli dava pace. Sentiva che la faccenda non era ancora finita, non del tutto almeno.
L’incendio sulla montagna…beh, quello fu solo un piccolo esperimento. Cosa aveva inteso dire?
Telefonò in negozio per rassicurare Fabio sul suo rientro l’indomani, poi si diresse di nuovo a S.Clara. Pioveva, aveva piovuto tutta la notte, non forte ma insistentemente. Le previsioni lette sul Corriere indicavano maltempo e rischio di allagamenti in tutto il Nord-Ovest. Fece un giro per il paese, così, senza una meta precisa, solo per verificare che non vi fosse nulla di strano. Risalì nuovamente la collina che dominava la vecchia palestra. Tutto apparentemente calmo. Aveva deciso di ridiscendere verso Verbania dal versante opposto, quello che costeggiava il Lago Maggiore, anziché passare per Domodossola. Alla vista di alcuni grossi sassi che cadevano dall’altro versante dell’avvallamento che stava percorrendo ebbe un intuizione: se era vero che il potere di quel pazzo poteva avere ancora un colpo di coda dopo la sconfitta, e se le forze che evocava erano in grado di avere effetti anche sull’ambiente, allora forse….forse poteva anche……
Un masso cadde dal suo versante a poco più di venti metri avanti all’auto, attraversando la strada e continuando a rotolare a valle. Non ci pensò più di un secondo. Fermò l’auto e si guardò attorno: altri due massi precipitarono dall’altro versante e subito dopo alcuni sassolini caddero a poca distanza da lui. Capì di essere nell’occhio del ciclone e ingranò la retromarcia fino a cercare un piccolo spiazzo che si ricordava di aver visto poco prima. Appena l’ebbe trovato fece inversione e si precipitò verso il paese.
Non c’era un attimo da perdere: doveva avvertire chi di dovere del pericolo. Un rumore simile ad un tuono parve venire anche da sottoterra, preferì non considerarlo. Arrivato a un bivio dovette scegliere: ridiscendere verso S.Clara e rischiare di finire in mezzo a quella che pareva essere la più grossa frana mai vista da quelle parti o deviare per l’altro versante per mettersi in salvo? Si voltò in cerca di qualcosa che lo aiutasse nella decisione. La vista di una nube di polvere e terriccio grande come un palazzo, al lato opposto del versante su cui si trovava, gli tolse ogni dubbio. Non era questione di mancato altruismo: non avrebbe mai potuto farcela. Risalì la strada per Colleverde tirando la seconda al massimo e dopo un paio di chilometri ad un tornante si fermò e guardò sotto.
Una muraglia di terra si abbatté sul Calendro facendolo tracimare e formando così un mare di fango che in pochi secondi iniziò a travolgere ogni cosa del paese. Walter vide tutto. Vide le case di S.Clara travolte e coperte da quella enorme poltiglia fangosa. Le auto e le persone in giro, tutto ciò che quella enormità incontrava veniva spazzato via. Gli sembrò di vivere come in un sogno, come se ogni percezione di realtà se ne fosse andata. Durò pochi minuti, ma quella vista era destinata a rimanere impressa nella sua mente per tutti gli anni a venire.
Poco dopo il lago si riempiva di fango e con esso di automobili travolte e probabilmente di qualche sventurato passante. Poi un silenzio totale, irreale, interrotto solo dalle urla di disperazione della gente e dalle imprecazioni dei primi concittadini che portavano soccorso. Suoni che arrivavano fino in cima al colle dove Walter assisteva impietrito a quel terribile spettacolo. C’era riuscito. Quel bastardo era riuscito, almeno in parte, nel suo intento di distruggere il paese. Nonostante la sconfitta come sacerdote degli inferi aveva assestato una batosta enorme a quella innocente cittadina di montagna. Non era un disastro naturale come tutti avrebbero creduto, Walter lo sapeva.
Riavutosi dallo shock decise di andare anch’egli a prestare soccorso. La cosa non fu semplice. Conosceva ovviamente molto bene la zona, ma l’unico tragitto accessibile per arrivare dalla parte opposta del lago, quella rimasta illesa dal disastro, era un vero labirinto di stradelli. Le vie principali erano completamente sepolte da una massa di fango e detriti. Arrivò sulla provinciale mentre i primi camion dei Vigili del Fuoco stavano attraversando il ponte sul lago. Lasciò l’auto e percorse il ponte a piedi.
Diede una mano come poté, spostando mattoni e cercando di udire, se possibile, le grida di aiuto sotto le macerie poi, all’arrivo dell’imponente schieramento di uomini della Protezione Civile, si fece da parte.
Nella concitazione dei soccorsi notò le due persone che più tardi lo avrebbero contattato. Uno era alto e snello, piuttosto giovane, con capelli biondo-ramati, a prima vista straniero. L’altro, sulla quarantina, brizzolato e un po’ più rotondetto di corporatura. Non erano in divisa e non sembravano nemmeno villeggianti occasionali. Nonostante l’agitazione Walter non poté fare a meno di notarli.
Avrebbe voluto correre in aiuto di parenti e conoscenti, ma tutta la zona centrale era impercorribile. Non poté far altro che telefonare. Né le zie né nessun altro gli risposero. Le linee erano interrotte, probabilmente un ripetitore era fuori uso. Provò anche con Sonia ma nemmeno lei rispose. Fu preso da una crisi di rabbia ed un lungo urlo strozzato gli uscì dalla gola.
Si accasciò su un mucchio di pietre con le mani davanti al viso, incurante della pioggia che gli inzuppava i capelli.
2.
Erano quasi le 14 quando si versò un goccio di brandy e dalla grande finestra del soggiorno che dava sui campi intorno a Novara guardò la luce del sole che si apriva un varco tra le nubi. A due giorni dal disastro finalmente il maltempo concedeva una tregua. Notiziari radio e TV continuavano a dare notizie sul disastro fornendo il numero dell’unità di crisi a cui telefonare per avere informazioni sulle vittime. Era riuscito così a ricostruire la situazione. Le zie, Enrico, la moglie e i figli l’avevano scampata. Il fatto di abitare lontano dal fiume aveva risparmiato loro la brutta fine di circa 150 concittadini. Lucio invece, al lavoro a Groppiano durante il fatto, aveva perso i genitori travolti mentre si trovavano all’interno di quella casa dove Walter aveva cenato così allegramente al suo arrivo, un paio di mesi prima. Non li avrebbe più visti, mai più. Degli amici solo il povero Enzo aveva perso la vita, dopo un inutile trasporto all’ospedale. Fra gli altri, però, erano stati parecchi i lutti in famiglia. Sonia era salva. Quel giorno non si sentiva bene e pensando alle raccomandazioni di Walter non si era presentata al lavoro, ma lo studio era andato completamente distrutto.
Un paio di ore prima Walter aveva ricevuto una telefonata.
“Buongiorno. Parlo con Walter Ghetti?”
“Sono io. Chi parla?”
“Mi chiamo Matteo Caravalle e sono membro dell’Accademia Italiana di Scienze Occulte. Ho rintracciato il suo numero sull’elenco telefonico. Sono un collaboratore del Prof. Lacombe dell’Università di Lione. So che lei era amico del signor Soldani. E’ esatto?”
“Sì, è esatto. Sono a conoscenza dei contatti con il Prof. Lacombe. Lei è per caso uno dei due esperti che dovevano presentarsi a S.Clara?”
”Proprio così. Purtroppo io e il mio assistente siamo arrivati tardi come ben sa, forse avremmo potuto fare qualcosa per evitare il massacro ma eravamo impegnati dall’altra parte del globo e…”
“So anche questo. Ho cercato di fare io qualcosa, quello che potevo almeno, ma evidentemente non è bastato.”
“E’ per questo che l’ho chiamata. Avrei bisogno di raccogliere più informazioni possibili sulla cosa. Potremmo vederci per parlarne? So che è un momento difficile per lei ma…”
“Non si preoccupi. Anzi, forse parlarne mi svuoterà di ciò che ho dentro. Se non ha fretta potremmo vederci lunedì.”
“Andrebbe benissimo. Mi dica lei dove e quando.”
Quando riagganciò il ricevitore si sentì stranamente tornare alla realtà. Ora che il sole era ritornato a splendere gli restava solo da verificare in che condizioni fosse la sua tanto sospirata casa. Riuscì a trovare la forza di uscire e salire in macchina.
Giunto in paese lo attraversò sentendo un nodo alla gola. La ricostruzione era iniziata e la strada principale era sgombra. Il tratto dal centro a casa però lo dovette percorrere a piedi inerpicandosi talvolta sulle tante collinette di detriti che pochi giorni prima erano case. Arrivato in cima a una di esse la vide: tetto e strutture portanti avevano retto bene ,ma gli interni erano pieni di fango. Girò intorno allo stabile e giunse al portone. Ebbe un sussulto alla vista di quel simbolo sul muro, sopra l’entrata. Avvicinatosi lo sfiorò con i polpastrelli della mano destra. Sembrava ancora fresco. Si guardò le dita sporche con disgusto e si sfregò le mani. Andò alla fontanella e le sciacquò, poi guardò verso l’alto, verso la sommità della montagna.
Speriamo che sia finita, che sia davvero finita.
Guardò ancora una volta la casa mentre si allontanava dalla zona. No, non avrebbe più potuto viverci, in nessun modo. L’avrebbe venduta, una volta rimessa in sesto, e coi soldi ne avrebbe comprata un’altra, lontano da lì, lontano. Nel ridiscendere incontrò una ragazza intenta a fotografare. Gli sguardi si incrociarono come per dirsi qualcosa poi lui passò oltre.
“Hem, mi scusi…”
Walter si girò.
“Da quella parte si riesce a salire?”
“Non credo, la collina è ripida e tutta coperta di fango. Non glielo consiglio.”
“Lei è di queste parti?”
“Sì, quella è…la mia casa.”
“Mi dispiace, un disastro terribile.”
“E’ una giornalista?”
“Non proprio. Diciamo che cerco di diventare una fotoreporter. Avrei preferito non dover fare un servizio su una cosa del genere ma…”
”…bisogna pur lavorare” concluse Walter.
“Già. Proprio così” rispose lei con un mezzo sorriso.
“Io mi chiamo Walter e dammi pure del tu.”
“Marinella.”
Scesero insieme per un po’ poi si fermarono a sedere su un muretto. La ragazza era molto stanca. Era in giro dal mattino.
“Quindi stai a Novara. Ho delle amiche là, è un po’ che non vado a trovarle.”
“Quando passi fammelo sapere. Dopo ti lascio il mio numero.”
Lei sorrise senza sapere cosa dire. La guardò. Era proprio un bel tipo: mora, con i capelli raccolti a coda di cavallo e uno sguardo profondo.
“Vuoi sposarmi?” chiese Walter improvvisamente.
“Come?”
“Sì, mi sposeresti?”
Lei lo guardò strabuzzando gli occhi, poi non riuscì a trattenere una risatina incredula. Anche lui rise.
“Non farci caso. Sono un po’ pazzo ultimamente.”
Restarono lì un paio di minuti, quindi si alzarono e ricominciarono a camminare
(10-FINE)