di Gioacchino Toni e Gianluca Ruggerini
Dopo avere fatto tappa a New York (Museum of Modern Art) e a Los Angeles (County Museum), la mostra Cézanne et Pissarro 1865-1885, che propone un interessante parallelo tra la produzione dei due pittori, sarà a breve allestita a Parigi presso il Musée d’Orsay (Salles d’exposition temporaire, dal 28 febbraio al 28 maggio 2006). In occasione dell’imminente apertura dell’esposizione parigina vale la pena insistere sulla sostanziale differenza esistente tra le proposte dei due artisti: ancora interno a una logica moderna Pissarro, indirizzato nella ricerca di nuove modalità di rappresentazione della spazialità contemporanea Cézanne.
Questo breve scritto intende tratteggiare la portata delle novità cézanniane anche alla luce delle tante mostre organizzate negli ultimi anni che tendono, in qualche modo, ad annacquare la produzione dell’artista di Aix en Provence all’interno di una sorta di indistinta nebulosa impressionista che appare più utile a richiamare il grande pubblico che non a un vero e proprio approfondimento.
Conseguenza diretta della Rivoluzione industriale, l’età contemporanea impone da subito una radicale revisione dei precedenti, consolidati statuti culturali. Sotto il peso delle nuove scoperte ed adozioni tecnico-scientifiche, già a partire dall’ultimo trentennio dell’Ottocento l’era moderna aveva evidenziato insanabili contraddizioni tra le proprie forme ed i nuovi contenuti, tra il proprio pensiero ed il nuovo vissuto, tra i propri schemi di decodifica e la nuova rappresentazione mentale del mondo.
Nel passaggio di testimone epocale, ancora una volta è la tecnologia — con la propria urgenza pratico-operativa e la propria immediatezza di ricaduta sull’immaginario collettivo — a segnare in modo forte le tappe di una corsa condotta simultaneamente al livello delle espressioni culturali, dei linguaggi rappresentativi, dei paradigmi identificativi. Anche l’arte, da par suo, partecipa in modo significativo all’avvicendamento, descrivendo, proprio a partire dalle istanze tecnologiche, un percorso di ricerca di nuove “forme simboliche” in cui riconoscersi e consolidare l’appartenenza collettiva. Vediamo come.
Appare evidente la correlazione delle arti con il livello “alto” (potremmo dire “ideale”) della cultura di una determinata epoca: si tratta spesso di un rapporto di emanazione diretta (si legga ad esempio la pittura romantica come espressione di una precisa riflessione di tipo filosofico e letterario). Meno evidenti, ma altrettanto profondi, sono i rimandi e gli attraversamenti con il livello “basso” (“materiale”) della medesima cultura, rappresentato dalla tecnologia. Verso la metà del Quattrocento, la nascita e la diffusione in pittura della Prospettiva scientifica – che per lo studioso Erwin Panofsky rappresenta la vera “forma simbolica” dell’intera età moderna – erano state implicitamente preparate e guidate dall’invenzione della stampa a caratteri mobili. In questo caso la tecnologia, a partire da un’innovazione pratica, aveva imposto un nuovo impianto concettuale: la combinazione dei caratteri mobili dettava alla pagina scritta un preciso schema di lettura spaziale, di tipo ortogonale, ove ogni singolo punto (ogni singolo carattere) era fissato ed individuato “esattamente” da una griglia di assi cartesiani. Lo studioso canadese Marshall McLuhan parla di “galassia Gutenberg” per sottolineare il ruolo trainante di questa tecnologia agente nell’ambito delle comunicazioni, capace di influenzare profondamente, in modo inconscio, la percezione dello spazio, restituendocelo come insieme di punti ordinati ed individuabili. La prospettiva avrebbe quindi evidenziato e formalizzato (nel senso di “dato forma a”) il nuovo tipo di commisurazione spaziale suggerito in modo subliminale dalla stampa.
In questa chiave di lettura tecnomorfa, la stampa a livello “basso” (gabbia tipografica) e la prospettiva a livello “alto” (gabbia prospettica) sono le due innovazioni rinascimentali che hanno definito l’intimo statuto dell’intera arte moderna occidentale. Ciò che da allora ha determinato il diversissimo sviluppo dell’arte occidentale rispetto a quella orientale, ad esempio.
Tra gli anni ’60 e ’70 del XIX secolo, alcune fondamentali scoperte tecnico-scientifiche avviano un processo di cambiamento epocale a partire dalle fonti energetiche. Quale fulcro d’innovazione viene posto lo studio – e la conseguente corsa alle possibili applicazioni pratiche – della forza sprigionantesi nello spostamento di cariche elettriche tra un polo positivo ed uno negativo. Vediamo le tappe di questa “rivoluzione energetica”. Nel 1860, il fisico Antonio Pacinotti mette a punto il suo famoso “Anello”: un dispositivo che, sfruttando l’azione combinata dell’elettricità e del magnetismo, riesce a produrre un lavoro meccanico (a muovere un corpo inerte). Nel 1866, la posa del primo cavo telegrafico tra Europa e Nord America evidenzia le possibilità offerte anche a livello di trasmissione delle informazioni dalla impressionante velocità delle onde elettromagnetiche (ben superiore a quella ottenibile con i mezzi meccanici, anche con i più sofisticati). Nel 1867, nel corso dell’Esposizione Universale parigina, i padiglioni di Inghilterra e Francia esibiscono con orgoglio le meraviglie dell’illuminazione elettrica. Quindi, nel 1873, James Clerk Maxwell teorizza definitivamente, nel suo Treatise on Electricity and Magnetism, i fondamenti matematici e i principi generali del “campo elettromagnetico”.
Di lì a poco, l’elettromagnetismo porterà ad un’ulteriore evoluzione della “civiltà delle macchine”, sostituendo progressivamente la propria “energia bianca” all’energia termica della combustione. Questo vento d’innovazione, oltre a ripercuotersi sugli aspetti pratici della vita dell’uomo di strada, comporta lo spostamento concettuale da un universo meccanico, rigidamente vincolato dalle leggi galileiane e newtoniane, ad un universo fluttuante, legato al divenire di un continuum energetico. Da una concezione atomistica, legata alla somma di entità spazialmente distinte, relazionantisi a distanza tramite le leggi gravitazionali, si passa ad una concezione sistemica, sviluppata sulle idee di flusso e di campo come luoghi della continuità e dell’interazione simultanea.
Uno dei primi artisti ad imboccare in modo inequivocabile la strada della “traduzione simbolica” dei nuovi contenuti è proprio Paul Cézanne (1839-1906). Se con lui crolla definitivamente l’illusione di una rappresentazione obiettiva (mimetica), a maggior ragione ne va colto il ruolo di detrattore della prospettiva quale strumento ordinante i rapporti spaziali. Cézanne recupera la visione anzitutto nel suo essere approssimativa (relativa), complessa (sistemica) ed in movimento (fluttuante), in altre parole non coglibile attraverso uno strumento rigido quale la prospettiva scientifica.
E’ il primo apporto alla ricerca di nuove modalità di rappresentazione della spazialità contemporanea: se la percezione è per sua natura ingannevole, ciò che ci circonda non è esattamente come ci sembra; tantomeno è necessariamente come lo rappresentiamo. La costruzione cézanniana dello spazio, ora, contestando la piramide prospettica e l’idea che ne consegue di profondità come dislocazione tridimensionale di punti fissi ed ordinati, di particelle distinte e localizzabili si richiama ad un particolarissimo conglobamento degli elementi nel campo percettivo, ad un nuovo tipo di visione: dinamica e “sferoidale”.
Il trapasso epocale è chiaro: da una spazialità certa, stabile, esattamente conoscibile e conosciuta, tangibilmente popolata da “corpi gravi” (definiti nelle proprie relazioni dalle teorie di Galileo, Cartesio e Newton), si passa ad una spazialità incerta, instabile, in continua e rapidissima trasformazione, percorsa da invisibili flussi energetici in grado di interagire con la struttura degli elementi, modificandola. Questo spazio “fluttuante”, legato all’imponderabilità dei “campi” intesi come sistemi di influenze, è lo stesso che ai primi del Novecento evidenzierà il limite epistemologico della Meccanica classica, aprendo alla “Relatività” di Albert Einstein e al “Principio di indeterminazione” di Werner Heisenberg (teorie che mineranno definitivamente le convinzioni assolute di venticinque secoli di riflessione filosofico-scientifica occidentale).
Nell’indagine spaziale di Cézanne, trova posto un’ulteriore riflessione microstrutturale sulla materia, improntata all’espressione di un continuum ove i singoli elementi letteralmente si compenetrano, si mescolano (il cielo “entra” nella montagna, il prato nella casa, e via dicendo). Il colore-forma degli impressionisti lascia il posto ad un colore-sostanza dotato di una valenza analitica particolare. La pennellata diventa l’unità di misura di una con-fusione in cui si perdono definitivamente i confini materici delle cose. In questo agitato “mosaico”, ogni singola tessera cromatica (ogni tocco di pennello), incarnando a livello molecolare la struttura degli elementi, tende ad animarsi di vita propria, a porsi come unità minima plausibile. Anche in questa volontà, la ricerca dell’artista si configura come decisamente contemporanea, prefigurando nell’interessantissimo parallelo con l’ultimo Monet (quello delle Grandi Ninfee) i futuri esiti di molta pittura di lì a venire (dal filone “astratto” a quello “concreto”).
(1-CONTINUA)