INTERVISTA A EMILIO QUADRELLI
di Chiara Cretella
Di Emilio Quadrelli, DeriveApprodi ha pubblicato due volumi sull’universo carcerario: Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta (2004) e Gabbie Metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza (2005). Questi spettacolari lavori di ricerca sono strutturati lasciando ampio spazio alla voce dei detenuti, così da divenire una vera e propria storia collettiva a partire dal ciclo di lotte degli anni Settanta. Un’analisi lucida e tagliente, attraverso cui ci si rende conto che l’evoluzione del sistema carcerario non è che l’evoluzione stessa della nostra società. Sorprende, nella lettura del testo, trovare quel senso intimo di appartenenza a un qualcosa di superiore e affratellante, così da far sembrare queste voci una sola. La stessa lingua, le stesse esperienze, lo stesso slang ma soprattutto la medesima visione politica del mondo. Quella chiarezza speculativa data dall’esperienza dello scontro di classe, che oggi, nell’indistinto magma del presente, fatica anche a essere concepita.
Nel tuo libro sono raccolte moltissime interviste a carcerati. Queste storie, già di per sé, costituiscono dei veri e propri micro-romanzi. Universi di vite disperse che, letti nel loro insieme, formano il ritratto di una generazione. Ce ne puoi riassumere i contorni?
I contorni banalmente stanno nelle loro biografie. In apparenza, si tratta di storie di vita “eccezionali” ed è forse per questo che probabilmente colpiscono e forse catturano, non senza stupore, il lettore più giovane. In realtà sono storie, per l’epoca, completamente normali e per nulla sopra le righe. La cosa, almeno in apparenza, difficile da capire è il prodursi, in una società che si pensa in termini di massa, e in pieno fordismo, di biografie così radicalmente “individuali” ma allo stesso tempo così irriducibilmente legate ad un’idea di esistenza e di agire collettivo. In realtà, questa contraddizione, è del tutto artificiale. L’agire collettivo è possibile solo grazie a una dimensione individuale forte, così come una dimensione individuale autonoma è possibile solo all’interno di un mondo che agisce e pensa collettivamente. L’uomo, mi par di ricordare, può isolarsi solo dentro la società. Quindi il contorno che mi chiedi alla fine è la società. Ma la società, almeno quella in cui gli attori sociali del testo sono cresciuti, è tutto ciò che sfugge all’amministrazione e al controllo. Oggi, paradossalmente, quando convenzionalmente parliamo di società pensiamo a quella particolare branca dell’Amministrazione i cui esperti si occupano di determinati segmenti sociali. È come se, questo è il vero paradosso, senza una qualche Istituzione la società non esistesse. Questo si può vedere, ad esempio, molto chiaramente nei tipi di ricerca sociale che abitualmente si fanno. La società parla solo attraverso gli esperti che si occupano di lei perché fuori vi è il nulla. A volte mi chiedo cosa pensino, in realtà, gli studenti quando, come capita sovente nel corso di un esame, devono parlare della “Scuola di Chicago”. Ho l’impressione che, ai loro occhi, quei ricercatori sociali appaiano come degli alieni. Per gli “etnografi di Chicago” i mondi sociali erano i vagabondi, i lavoratori stagionali, le ragazze delle sale da ballo, i membri delle gang urbane, gli abitanti del ghetto, ecc. Tutti mondi che, non solo erano distanti dagli ambiti istituzionali, ma che, a ben vedere, avevano un rapporto per lo meno conflittuale con questi. Oggi, tutto ciò non è neanche un approccio di ricerca eretico ma puro non senso. Ma noi, come generazione, siamo cresciuti dentro mondi sociali non governati, o almeno in maniera così totalizzante, dalle istituzioni. Per fortuna non abbiamo conosciuto l’incubo del “fare società” e della “socializzazione organizzata”. Per noi la società è stata la strada, il bar, il Circolo di quartiere, oppure la sezione del Pci, tutto questo ha comportato e sedimentato modelli relazionali e comportamentali che ci hanno formato in un certo modo. All’interno di queste relazioni, fortemente collettive e socializzate, esistevi come individuo ma legato agli altri da determinati vincoli. Vincoli, questo mi sembra importante evidenziarlo, che rappresentavano un mondo intero. Molte delle persone che ho incontrato per scrivere Andare ai resti non le vedevo da oltre vent’anni eppure è stato come se ci fossimo lasciati la sera prima. Questo vuol ben dire qualcosa. Bisogna forse capire che, per una generazione, l’amicizia, la fratellanza, la complicità e il senso di appartenenza sono stati qualcosa di veramente importante, e questo non in seguito a un qualche innamoramento ideologico ma come risultato di processi materiali e culturali, comunemente condivisi fin dall’epoca adolescenziale. Per questo credo di poter dire senza enfasi o cattiva retorica che, le storie raccolte nel libro, sono realmente corali, nel senso che appartengono, per lo meno, a quote cospicue di un’intera generazione.
Esiste un rapporto tra la riflessione politica sugli anni di piombo e la fioritura del romanzo giallo/noir degli ultimi anni? Un dato che mi ha fatto riflettere è l’aver notato che molti di questi narratori provengono da studi storici.
Probabilmente sì. Si tratta anche di generi di scrittura che consentono, senza provocare drammi di varia natura, di dire: le cose non sono come appaiono e, soprattutto il noir, di non dividere il mondo rigidamente in: bianco e nero, buoni e cattivi, bene e male. Sul giallo e il noir, nel nostro paese, il discorso porterebbe lontano. In linea di massima persino Poirot e Marple riescono ad essere più “sovversivi” o perlomeno ironici di gran parte degli eroi creati dai nostri scrittori. Personaggi per lo meno buffi, veri e propri vasi di luoghi comuni, come l’Ispettore Japp o il capitano Hastings (i rappresentanti della società legittima e per bene), da noi sono a dir poco impensabili. La figura del commissario Montalbano è quanto mai esplicativa. Da noi non basta scoprire l’assassino ma tutti i salmi devono finire per forza in gloria. La sola idea che il “Male” abiti la società legittima è un autentico ossimoro. In gran parte della nostra letteratura di genere, l’impostazione che prevale è di tipo “filosofico” piuttosto che “empirico/etnografico”. Gli attori sociali in carne ed ossa sono, a ben vedere, semplici incarnazioni di “concetti”, “funzioni”, “modelli” che trascendono sempre il loro essere concreto. Non ci sono mai i criminali ma il Crimine, non i poliziotti ma la Polizia e alla fine tutto si riduce alla lotta tra due campi concettuali. Il denaro e il potere che abitualmente giocano ruoli decisivi nella vita di tutti gli individui, e che in particolare il noir mette in luce impietosamente, da noi sono bellamente ignorati. La vita concreta degli individui evapora nella loro funzione e alla fine, per forza di cose, il cerchio deve quadrare. Pensa a uno scrittore come Ellroy, che non mi sembra particolarmente sovversivo o semplicemente progressista. Da noi, se un autore scrivesse quel genere di cose sui poliziotti, gli uomini politici, i magistrati, i giornalisti ecc., finirebbe tranquillamente messo all’indice. Forse, il vero problema della nostra cultura nazionale, le cui ricadute attraversano tutta, o almeno gran parte della produzione intellettuale, è l’incapacità di liberarsi dall’ingombrante peso della “filosofia” come regina delle discipline.
Se la storia la scrivono i vincitori si può davvero dire che la repressione è riuscita a cancellare la memoria di questa generazione “anomala”. Saggi come il tuo contribuiscono ad una contro-storia di questo paese e servono anche a capire la realtà dei nostri giorni. Analizzando l’interno rimosso del corpo sociale vi si scorgono tutte le contraddizioni che viviamo quotidianamente all’esterno.
Nel processo di rimozione intorno alla storia degli anni Settanta c’è qualcosa di diverso dalla repressione. Quello che è cambiato è il paradigma intorno al quale la narrazione storica si è sempre prodotta. L’idea che la Storia sia sempre stata raccontata dai vincitori è una verità parziale perché, a ben vedere, il discorso storico è sempre stato anche un’arma degli sconfitti. Non mi sto inventando nulla di nuovo. L’uso del discorso storico come strumento “bellico” da parte degli sconfitti o delle classi subalterne è stato ben analizzato da Foucault in Bisogna difendere la società e le sue argomentazioni mi sembrano quanto mai convincenti oltre che ben documentate. Se questo è vero, allora, dobbiamo spostare lo sguardo dalla facile categoria della repressione e domandarci perché, che cosa è accaduto, attraverso quali procedure si è resa impossibile la produzione di un discorso storico da parte degli sconfitti. Una spiegazione, pur parziale, ho provato a darla in Gabbie metropolitane, il lavoro che ha seguito Andare ai resti. Molto sinteticamente la tesi che ho cercato di sostenere è questa: alla fine degli anni Settanta, inizialmente intorno al Movimento del Settantasette, e gradatamente, in un processo a cascata sull’intera società si è affermato un ordine del discorso che ha ordinato il mondo intorno alle coppie concettuali sano/malato, normale/patologico e così via, che ha bellamente liquidato la coppia amico/nemico. Una contrapposizione di tipo essenzialmente medico/biologica che ha finito per esautorare le categorie proprie del “politico”. Se il rapporto amico/nemico presuppone un riconoscimento reciproco di pari dignità, il rapporto medico/biologico è tale in virtù di un’asimmetria di fondo. Borghesia e Proletariato, le figure concrete che incarnavano i poli della nemicità percepivano se stesse come classi politiche storicamente legittimate e determinate. Cosa ben diversa succede se la retorica che si impone è di altra natura. La relazione tra salute e malattia non può che essere quella della cura e, banalmente, il malato, nella migliore delle ipotesi, è in grado solo di negoziare le dosi della cura, non certo opporvisi. D’altra parte, chi è ascritto al mondo della malattia può prefigurare di imporre la sua egemonia sull’intera società? Immaginare di farsi Stato? Chiaramente no. Allora diventa anche facile capire l’assenza di un discorso storico da parte degli sconfitti o almeno il lungo silenzio che c’è stato. Se la Storia è un’arma, essa può essere forgiata solo in presenza di eserciti pronti a farne un qualche uso. Non credo sia casuale che oggi vi sia una ripresa di non poco interesse per gli anni Settanta. Con il riapparire di un Movimento e di una pratica sociale che ritorna a pensare in termini collettivi e quindi fa riaffiorare la presenza di un campo amico e di uno nemico, la Storia ritorna a essere uno strumento importante e la genealogia delle battaglie torna a rivestire interessi diffusi. Forse questo non vuol dire che il paradigma sano/malato abbia cessato di essere il paradigma ordinativo dei nostri mondi ma certamente si può affermare che sta subendo una pesante messa in discussione. Forse, oggi, le Gabbie Metropolitane vivono sonni meno tranquilli di qualche anno addietro.
Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi volumi da parte di ex-guerriglieri, brigatisti, banditi. Alcuni di questi hanno ispirato film di successo. Come giudichi queste scritture e perché, secondo te, emergono proprio adesso? Si è forse alla ricerca di un bilancio privato, precluso quello politico dell’amnistia?
Non si può rispondere a questa domanda facendo di tutta l’erba un fascio. I volumi che sono usciti non solo erano molto diversi tra loro ma rispondevano ad intenti particolari, difficilmente assimilabili, da parte singoli autori. La domanda alla quale mi sembra possibile rispondere è quella sull’amnistia. Però questo rimanda alle cose dette prima. L’amnistia non può essere data, e ormai sarebbe un puro e semplice atto simbolico, perché comporterebbe la messa in discussione del paradigma normativo intorno al quale si è riorganizzata la nostra società. Gli anni Settanta sono stati consegnati al fenomeno della “devianza”, del “disagio sociale”, del “malessere esistenziale”, in poche parole a una patologia. Si può amnistiare la “malattia”? Evidentemente no. Dare l’amnistia vorrebbe dire, con conseguenze non secondarie sul presente, riconoscere che il mondo è abitato da attori sociali legittimamente in conflitto tra loro ma è proprio ciò che la nostra società non può ammettere. Se lo facesse, l’intero castello amministrativo su cui si regge, subirebbe un fenomeno di implosione non troppo diverso da quello che ha conosciuto l’URSS e il blocco sovietico. Oggi più che mai, per il potere, è decisivo e strategico mantenere in vita il modello sano/malato e la “società disciplinare” che questo si porta appresso. Del resto, la vera punizione che ha dovuto subire la o le generazioni protagoniste degli anni Settanta è stata quella della riduzione a pura marginalità sociale. Per uscire dal carcere, attraverso l’applicazione delle diverse norme della legislazione penitenziaria, tutti sono dovuti sottostare a un processo di individualizzazione, quindi accettare la rimozione di una storia collettiva, e presentarsi di fronte al potere sotto le vesti del deviante e del disadattato. Una volta varcata questa soglia, il potere, in linea di massima, non ha avuto troppe resistenze ad applicare positivamente la normativa d legge. Però, quello che è successo alle generazioni degli anni Settanta, se guardi bene, non è molto diverso da ciò che è accaduto alla massa della popolazione a partire dai primi anni Ottanta. Quello che, spesso con toni elogiativi, è descritto come l’avvento della “società degli individui” non è altro che una relazione di potere disciplinare dove l’individuo deve presentarsi nudo e solo di fronte alla rete disciplinare che lo prende in custodia. In poche parole, l’amnistia politica è impensabile non per un qualche particolare accanimento repressivo da parte del potere ma perché l’idea stessa della dimensione del “politico” sembra essere il vero incubo del sistema di governo contemporaneo.
(1-CONTINUA)