di Wu Ming 1 (*)

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“…Mi disse: ‘Tu torni su quella vecchia storia come un bambino che ha perso un dente torna con la punta della lingua dove è rimasto il buco’. E io pensai tra me, sì, proprio così, l’hai detta giusta. E’ come un buco che non posso smettere di rovistare e tormentare, per il bisogno impellente di arrivare fino in fondo.”
Con questa frase, Stephen King parla al cervello e al cuore di noi post-Piazza Fontana, post-Strategia della tensione, post-Uno Bianca, post-catena di comando a Bolzaneto.
Non sempre, nella “vita reale”, i misteri trovano una soluzione. Sovente lasciano un “buco” tra i denti, ci finiscono dentro pezzetti di cibo, c’è rischio si formi un ascesso. Noi siamo condannati a tormentarlo, quel buco, a saggiarne i bordi con la punta della lingua, constatarne il gonfiore.
Colorado Kid si presenta come “il primo mystery nella produzione di Stephen King”. Bello scherzo, brillante gioco di parole (di parola): confondere le aspettative giocando con l’uso metonimico di un termine, per poi tornare bruscamente al significato letterale.
E’ chiaro che, quando si qualifica un’opera come “del mistero” (“mystery books“, “mystery fiction“…), s’intende “della soluzione del mistero”. Quel che conta è che il mistero sia risolto e spiegato. Non a caso, in inglese il sotto-genere più classico è chiamato “whodunit”, “chi-l’ha-fatto”.

A differenza che nel noir, nel mystery/whodunit è prescritta la catarsi, a cui segue un rasserenante ritorno all’ordine. La “chiave” è la scoperta di un colpevole e di una dinamica: abbiamo già il cosa, il dove e il quando, l’inchiesta riguarda il chi, il come e il perché.
Senza la catarsi, niente whodunit. Prima c’è stato il crimine, c’è stata la violenza, eppure quel crimine e quella violenza sono good news. Lo capisce bene Stephanie, in Colorado Kid: “Sono belle notizie perché sono finite” (“Bravissima!” proruppe Vince radioso… “Hanno una soluzione! Hanno una chiusura!”).
Nulla di tutto ciò, in questo libro. Nessuna metonimia: ci troviamo di fronte a un mistero propriamente detto. A un mistero, non alla sua soluzione. Colorado Kid è un coerentissimo anti-whodunit, perché “di solito la vita non funziona così”, la vita non è un giallo a chiave, un “giallo della camera chiusa”. Dobbiamo conviverci, coi misteri, e il più delle volte non c’è catarsi (ne troviamo un surrogato nel “complottismo”).
“Non sono tanto interessato alla soluzione quanto al mistero in sé”, scrive l’autore nella postilla. E’ l’approccio più radicale al crime novel dai tempi in cui, come disse Chandler, Dashiell Hammett “tolse il delitto dal vaso di vetro veneziano e lo gettò in mezzo alla strada”.
Nella produzione dell’ultimo King (prima o poi toccherà parlare della saga della Torre nera…) c’è profondità, maturità e un definitivo, radicale uscire dal “genere” (processo avviato già da molto tempo). King rifugge gli effetti prevedibili, allontanandosi anche dai tòpoi la cui frequentazione lo ha reso grande (il più grande cantastorie del pianeta, a mio modo di vedere).
Nel recensire Buick 8 su L’Unità dell’8 marzo 2003, lo scrittore Beppe Sebaste segnalava l’approdo di King a “un genere molto problematico, meta-narrativo, in un certo senso europeo, con una consapevolezza altissima della responsabilità morale del raccontare (e leggere) storie”. E proseguiva così: “In Buick 8…la suspense della storia è nella sospensione del senso, delle forme. Non c’è il Male, e non c’è neppure il Bene. C’è solo l’altro. Buick 8 alza la posta letteraria: è un elogio dell’informe, dell’incompiuto, dell’aperto. Mentre ci racconta una storia, osserva le reazioni che la storia suscita nei personaggi e in chi li ascolta. L’agnizione, il capitolo culminante, è una sorta di rituale in cui i personaggi a turno prendono la parola per narrare i segmenti di storia di cui sono eredi e testimoni, come nella tradizione antica dell’epica bocca-a-orecchio […]”.
King sta dicendo qualcosa al lettore impaziente, a me che sono “incapace di accettare limiti alla [mia] pretesa di conoscere, alla [mia] umana presunzione che i conti tornino, che ogni evento abbia una forma riconoscibile, una spiegazione logica. E invece resta illogico e informe, come le creature immonde che escono dal bagagliaio in un tanfo di cavolo e sale marino”.
Che sta dicendo King? Che l’America non è più il Paese delle certezze. Buick 8, gioiello di meta-narrazione, ci parlava del post-11 Settembre e raccontava già il post-Iraq, la crisi di legittimazione che oggi attraversa gli Stati Uniti.
Nel leggere Colorado Kid, fraintesissimo libro finto-minimalista e in realtà smisurato, panoramico, spalancato su tutti i possibili mondi, mi è tornata alla mente quella recensione di Sebaste. All’epoca mi aveva colpito, turbato, stimolato quasi quanto il libro stesso. Sebaste aveva colto nel segno, e a nulla servirebbe ribattere che l’indeterminato, l’inspiegato di libri come Insomnia, Cuori in Atlantide e Buick 8 diventa (giusto un poco) più comprensibile alla luce del mega-ciclo della Torre nera. Non servirebbe, perché quei tre libri non fanno parte del ciclo e, pur con tutte le strizzate d’occhio, non ne richiedono la conoscenza; inoltre, lo stesso ciclo contiene fortissimi elementi di indeterminatezza e aleatorietà.
In Colorado Kid – almeno in apparenza – non vi è traccia di “strizzate d’occhio” o riferimenti diretti alla Torre nera.
Colorado Kid
va oltre Buick 8, ed è forse il romanzo più perturbante fra quelli scritti da King. E’ perturbante in modo dissimulato… “nicodemistico”.
Leggendolo, mi è venuto in mente anche Scirocco di De Michele, con la sua rappresentazione “rizomatica”, aleatoria e frattale del potere e del complotto.
King ha ben chiara questa dimensione. King è in stato di grazia. King si assume il rischio di scontentare non pochi suoi lettori “storici”, anzi, è disposto a fare “finte”, a dribblarli, a metterli col culo per terra, pur di continuare a muoversi nella direzione che gli interessa.
Questa catastrofe (nell’accezione matematica di “discontinuità”) ci sorprende eppure non dovrebbe. King è uno degli scrittori che più si è interrogato su cosa significhi raccontare una storia. La sua “autobiografia di un mestiere” (lunga catena di riflessioni sullo scrivere, il narrare, il leggere, l’ascoltare) è esplicitata nei libri di non-fiction (l’imprescindibile Dance Macabre e il più recente On Writing), ma attraversa e informa anche la sua narrativa, dal primo all’ultimo libro, con esempi eclatanti di meta-narrazione, di scrivere dello scrivere.
Prendiamo ad esempio quattro libri: Shining (1977) , Misery (1987), La metà oscura (1989) e Mucchio d’ossa (1998).
Questi romanzi hanno come protagonisti dei romanzieri. Il primo libro tratta del rapporto tra scrittore e scrittura, tra “ispirato” e “ispirazione”. Il secondo affronta di petto il rapporto scrittore-lettore, dicendo anche cose “sgradevoli” sullo scrittore come “personaggio”. Il terzo “antropomorfizza” il rapporto tra
scrittore e nom de plume (dovrebbe leggerlo chi pensa l’uso dei nicknames sia deresponsabilizzante!). Il quarto si inarca all’indietro fino a toccare il primo, e tratta del rapporto tra scrittore e non-scrittura, allungandosi sulla sequenza: blocco dello scrittore – astinenza dalla scrittura – fine dell’esperienza di scrivere. Un romanzo dolentissimo.
I libri successivi portano la riflessione su un piano che scatena l’acrofobia. Se di una storia tolgo il capo e lascio solo la coda, o lascio il capo ma tolgo la coda, eppure la storia continua a comportarsi come se avesse un capo e una coda, come quando dopo un’amputazione si prova prurito a un arto-fantasma… cosa cambia nel rapporto di fiducia tra chi racconta e chi ascolta? Come reagisce il lettore quando il libro allunga la mano per grattarsi e si vede che la gamba non c’è più… eppure la storia sta in piedi? Si sente tradito perché la gamba non c’è più o esplode di gioia perché il libro cammina senza grucce?
Aspettiamo il prossimo romanzo, Cell (esce in inglese a fine gennaio, già ordinabile su Amazon) e diamoci appuntamento per proseguire il discorso. (WM1).

  • Stephen King, Colorado Kid, traduzione di Tullio Dobner, Sperling & Kupfer, € 10,00

POSTILLA

  • Donnie_Darko_Bottom.gifKing sembra accettare la sfida poetica della coppia Lynch/Gifford (Strade perdute, Mulholland Drive) e – soprattutto – del Richard Kelly di Donnie Darko. In quei film non c’è una storia e nemmeno un “intreccio” di storie: vi sono elementi, anzi, filamenti di storie giustapposti, accostati, a volte s’intersecano e danno l’illusione di un intreccio ma non è così. Uno pensa: forse alla fine tutto torna, ma no, in realtà l’esigenza non è quella, non torna quasi niente, non deve tornare.
    La scommessa Lynchiana e post-lynchiana mi sembra questa: far sì che lo spettatore segua fino all’ultima scena, e senza annoiarsi, un film ultra-sperimentale, avanguardistico, decostruzionista, ma travestito da prodotto pop, quindi con personaggi, dialoghi, un’illusione di trama, anzi, più illusioni di trame. Non solo far sì che lo segua, ma dar vita a una mania, a un sistema di riferimenti sottoculturali, a un passaparola estesissimo che a un certo punto diventa gioco di ruolo, con il pubblico che interagisce col film dandone diverse interpretazioni, discutendone etc.
    Apparentemente Donnie Darko è meno caotico di Mulholland Drive o di Fuoco cammina con me, in realtà l’operazione è anche più radicale, perché il travestimento da film pop è più convincente. Nei film di Lynch che le cose non tornano te ne accorgi dopo due minuti, qui devi arrivare alla fine.
    Il cerchio si chiude: Donnie Darko è pieno zeppo di omaggi a King (sui titoli di testa, la madre sta leggendo It in giardino). Per metà del film e anche di più siamo in un mondo kinghiano: la soffocante città di provincia, l’adolescente disadattato che ha strane visioni, la sensazione che vi sia un sordido complotto… Poi tutto impazzisce: ritorni nell’oltretomba, viaggi nel tempo, paradossi temporali, tutto diventa trans-genere e de-genere. E’ un melodramma adolescenziale di provincia? E’ fantascienza un po’ anni Cinquanta? Che cazzo è? Chi se ne fotte?
    Retroazione: King prende quelle suggestioni (talvolta naives) di non-linearità e ci interviene sopra in modo più consapevole, con una padronanza del mestiere che non smette mai di impressionare.

*Anticipazione dal nuovo numero di Nandropausa, webzine semestrale di recensioni e discussione letteraria curata dai Wu Ming. Il n.9 andrà on line nella notte tra l’11 e il 12 dicembre. I libri di cui si parlerà sono: Tim Adams, Essere John McEnroe, Mondadori [WM1]; Girolamo De Michele, Scirocco, Einaudi [WM1]; Bob Spitz, The Beatles: The Biography, Little, Brown and Company [WM5]; Roddy Doyle, Una faccia già vista, Guanda [WM4]; Giuseppe Genna, L’anno luce, Tropea [WM1]; Stephen King, Colorado Kid, Sperling & Kupfer [WM1]; Valerio Evangelisti, Il collare di fuoco, Mondadori [WM1, WM5]; Guglielmo Pispisa, Città perfetta, Einaudi [WM2]; Jess Walter, Senza passato, Piemme [WM1]; Matteo Casali & Grazia Lobaccaro, Sotto un cielo cattivo, Innocent Victim/Magic Press [WM2]; Michele Petrucci, Numeri, Innocent Victim/Magic Press [WM2]; Adriano Prosperi, Dare l’anima. Storia di un infanticidio, Einaudi [WM5]; Mary Woronov, Snake, Meridiano zero[WM2]; Moacyr Scliar, Piccola guida per naufraghi…, Meridiano zero. [WM2]