di Beppe Sebaste
[Una versione abbreviata di questo articolo è apparsa su L’Unità del 14 novembre 2005.]
A volte, nonostante tutto, la televisione ci mostra immagini così vere e crude da rendere le parole dei giornali quasi vacue, come se il loro compito fosse quello di addomesticare le notizie e non, invece, offrirle nella loro imbarazzante verità. Non è solo il caso dei cadaveri liquefatti dal fosforo americano a Falluja, Iraq. Accade anche a Roma, da qualche parte in fondo alla via Tiburtina, dove al telegiornale di venerdì sera, su Rai Tre, ho assistito all’esecuzione di uno sfratto (con tanto di fabbro, polizia e altri tecnici) di una donna anziana e sola, inerme e in precarie condizioni di salute.
L’accompagnavano in strada uomini con la divisa, mentre le sue “cose” venivano ammucchiate in sacchi neri da immondizia, sempre per strada. Un altro uomo anziano, anche lui sfrattato, con appuntato al soprabito logoro lo stemma di “cavaliere del lavoro”, ha fatto il gesto di strapparselo dichiarando al microfono che quanto stava accadendo non è da terzo, bensì da “ottavo mondo”. La povertà. Venivo informato così, da quelle immagini agghiaccianti, che in Italia c’è licenza di sfratto anche per gli invalidi, gli anziani, gli infermi.
Ora devo dire che di fronte a quelle immagini intollerabili ho sentito come altrettanto intollerabile la mancanza di rappresentanti più o meno noti del mondo politico — dico: in carne e ossa – per protestare, per condividere, per rendere almeno fisicamente testimonianza della gravità dell’accaduto. Ricordando poi le mobilitazioni per protestare contro i tagli alla cultura, cui ho pure aderito, ho anche pensato, a caldo, che piuttosto di assistere a scene così preferirei una moratoria di tutte le attività culturali per sei mesi o un anno.
Ma che le parole dei giornali e dei politici siano spesso fallimentari — era questo il tema – lo si osserva di continuo. Dalla “governabilità” all’“Azienda Italia”, dalle “bombe intelligenti” agli “effetti collaterali”, chi ha la responsabilità di scrivere della realtà si rende corresponsabile (o “embedded”?) dell’ignavia e della violenza di chi ha invece il compito di amministrarla, la cosiddetta realtà. Ecco, l’ultimo esempio è la formula ricorrente a proposito della situazione delle periferie, quelle italiane. Esse, si dice, sono “a rischio rivolta”: quello stesso modo di dire che si usava di solito per le carceri (sovrappopolate, disumane e quant’altro), un modo di dire insomma che rivela e attesta, dietro la sua facciata neutra, che nel migliore dei casi ce ne stiamo occupando in ritardo, e solo in quanto suscettibile di divenire un problema di ordine pubblico — non quindi per la miseria e il degrado pregressi. Come se della fame delle popolazioni si parlasse (e lo si fa, purtroppo) perché è a rischio di conflitto con le minoranze dei sazi.
Ebbene, in un mio recente viaggio ho trovato un librino inedito dello scrittore inglese, già autista di autobus, Magnus Mills. Per dare un esempio di linguaggio nudo e vero, traduco qui un suo raccontino fulminante, tratto da Once in a blue moon (acorn book company, 2003). Non faccia velo il grottesco: la realtà lo è di più. Solo ci vuole un po’ di coraggio per dirla.
The School of Hard Knocks
“Mi rincresce dirle che i suoi genitori sono morti”, disse il direttore della scuola al ragazzo. “Sono stati uccisi nelle più orribili circostanze. La sua famiglia è bruciata e ridotta in cenere, e i suoi tre fratellini sono scomparsi. Non avrà più alcun mezzo di sostentamento. Devo dunque chiederle di lasciare subito la scuola, dal momento che non potrà pagarne le spese. Prima di partire si ricordi però di completare i compiti arretrati e consegnarli. Deve anche rifare il letto in tempo per l’ispezione della governante”.
Camminò verso la porta e indugiò tenendola aperta. “Bene, allora buona fortuna”, disse. “E stia attento: gli assassini dei suoi genitori sono ancora in giro.”