di Massimiliano Di Giorgio
[Una necessaria premessa: Le Poulpe è il personaggio seriale di una collezione di – spesso divertenti – noir francesi, mai pubblicati in Italia. Inventato da un gruppo di autori tra cui Jean Bernard Pouy – autore del primo volume – Gabriel Lecouvreur, detto “il Polipo” per le sue lunghe braccia – è una sorta di investigatore parigino di estrema sinistra, che ha una quarantina d’anni, è eternamente fidanzato con una parrucchiera, Cheryl, e vive più fuori che dentro la legalità. Scrivere un episodio della serie Le Poulpe comporta il rispetto di alcune regole. Tra queste, ideare un titolo che sia un gioco di parole e parlare diffusamente di marche di birra. Il Polipo, che è il protagonista del racconto che segue, è una trasposizione italiana de Le Poulpe, anche se vive a Roma, è di pochi anni più giovane (è nato nel 1968), ha una ragaza italo-cinese e si è meritato il soprannome per un altro motivo. Per il resto, però, ho cercato di seguire le stesse regole, almeno quelle più importanti. MdG]
Puttana Eva, che mal di testa. Quella mattina per Gabriele Polimeno il risveglio era stato molto più faticoso del solito. Dopo quattro pinte di Kilkenny e uno svariato numero di grappini di rosa, uno avrebbe anche il sacrosanto diritto di mettersi al letto senza fare programmi, lasciando fare al sonno.
Invece no. Hong l’aveva svegliato prima di uscire, sbattendo pentole, piatti e porte, per ricordargli che doveva andare a pagare i conti correnti, soprattutto quello dell’affitto.
Per giorni aveva rimandato la visita all’ufficio postale, più che altro per dimenticanza, ma quella mattina la sua donna aveva deciso che il tempo era scaduto. Mai litigare con un’italo-cinese, soprattutto se si mette a parlare quell’idioma incomprensibile inframmezzato da offese in romanesco che farebbero piangere un camionista.
E dunque eccolo lì, Gabriele, sopravvissuto alla fila delle signore col carrello della spesa e dei vecchi che proprio quella mattina avevano deciso di aprire un libretto di risparmio a testa per i loro dieci nipoti. E poi dicono che in Italia non si fanno bambini.
Prima di andare a prendere il caffè al bar all’angolo, a piazza Vittorio Emanuele, si era fermato all’edicola, e aveva fatto pazientemente la fila dietro ai sindacalisti della Cgil che tutte le mattine passavano per il rituale della mazzetta dei giornali, prima di andare in ufficio.
Mentre si massaggiava le tempie, Gabriele diede una guardata al campionario di libri, videocassette e riviste esibite dal giornalaio, e sobbalzò. Forse non ci aveva fatto mai caso prima, ma quella mattina l’edicola sembrava improvvisamente scoppiare di biografie di Mussolini, libri sulle battaglie di Rommel, video con i discorsi più celebri di Hitler, un’enciclopedia a fascicoli sul Ventennio — il numero appena uscito era dedicato al trasvolatore Italo Balbo, quello che aveva gasato centinaia d’etiopi e cui avevano appena intitolato una piazza. Mica all’invasore fascista, ci mancherebbe, all’aviatore.
E poi cinegiornali di guerra, libretti sulle uniformi delle SS, un numero speciale di un femminile dedicato a “le donne nel fascismo”, giornaletti con in regalo il pupazzetto di un balilla, cui cambiare anche uniforme. Meglio di Big Jim.
“Il solito”, disse a Pino l’edicolante, che lo aveva salutato strizzando l’occhio.
“L’inserto moda di Repubblica lo vuoi o lo metto via? Il manifesto eccolo qui. Ultima copia. Stamattina se so’ svejati tutti comunisti”. gli disse Pino.
“Ma che comunisti e comunisti. Anzi ”, rispose Gabriele facendo un gesto circolare con la mano, “ma com’è che vendi tutti questi gadget fascistoidi, adesso? Ti sei buttato a destra pure tu? Non è che mi tocca cambiare edicola?”
“A’ Polipo — Polipo era il soprannome storico di Gabriele, storpiatura infantile del suo cognome, Polimeno – il mercato va così. Gli editori se so’ messi a stampa’ tutto sul fascismo, pe’ ingraziasse er governo, i distributori ce li portano a pacchi, e a noi ce tocca venneli. Che te credi, che nun preferivo venne i porno? Ma non è più aria, mo’ se se vede una tetta su una cassetta è capace che chiamano i carabinieri”.
“Almeno qualcuno se li compra, i libri sul ‘più grande statista del secolo’?”.
“Mah, che te devo di’, non va via tutto, ma diverse cose sì. Vengono ragazzini, ma pure vecchi. Signori incravattati. Certo, non quelli come te”, rise Pino.
Gabriele guadagnò l’unico tavolino libero sotto il portico, tra la cartomante e un gruppo di moldavi che erano già al terzo giro di Peroni. Girando lentamente il caffè lungo, con l’altra mano sfogliò il giornale, partendo come il solito dalla fine, per leggere le previsioni del tempo, poi risalì alla cronaca romana, passando per la pagina dei cinema. Mentre scorreva i titoli, mangiando un cornetto, s’imbatté in una piccola notizia su un fatto accaduto proprio a piazza Vittorio due notti prima.
Due cingalesi che dormivano sul prato, nei loro letti di cartone, erano stati aggrediti verso le due di notte da un uomo che li aveva accoltellati e sfregiati. I carabinieri seguivano soprattutto la pista del regolamento di conti tra immigrati. Però uno dei feriti, ricoverati all’ospedale San Giovanni, aveva detto che ad attaccarli era stato un “fantasma”, un “bianco, con la pelle bianchissima”, vestito come un militare. E dai primi accertamenti sembrava che l’arma usata fosse una baionetta.
L’articolista del democratico La Repubblica concludeva che potesse essere un’aggressione razzista, ma i caramba sembravano per il momento di tutt’altro avviso.
Uhm. La storia di fantasmi a piazza Vittorio, con la sua famosa Porta Magica — quel che restava del palazzotto di un aspirante alchimista del ‘600, coi suoi misteriosi simboli cabalistici incisi sul marmo – incuriosiva il Polipo.
Strano però che non avesse saputo niente dell’aggressione dai suoi amici di piazza. Forse perché il giorno precedente l’aveva passato a pitturare la casa di un cugino che abitava fuori Roma, a Tivoli (quando era a corto di denaro, Gabriele era un ottimo imbianchino-elettricista-meccanico, e altro ancora).
Dopo aver sfogliato in velocità le altre pagine, gettando un occhio in più agli spettacoli, e alla pagina dei commenti, decise di andare a fare quattro passi. Il manifesto lo avrebbe letto a casa, prima di andare a dormire. Era fermamente deciso a recuperare il sonno che Hong gli aveva rubato.
Attraversò i giardini sulla piazza. Nonostante l’ora, c’era ancora qualcuno che faceva tai chi seguendo i movimenti di un maestro cinese, mentre attorno scorrazzavano cani e pensionati. Le panchine invece erano già stabilmente occupate dagli alcolizzati della zona, che costituivano un’ampia comunità multietnica.
Dall’altra parte della piazza regnava l’iperattivismo tipico del quartiere Esquilino a metà mattinata. I tram andavano avanti e indietro, e gente andava e veniva dal mercato coperto di via Principe Amedeo.
“Adytia, amico, quand’è che mi farai trovare un bel porno indiano per la mia collezione?”, disse Gabriele entrando nella videoteca, zeppa di nastri e di poster delle star di Bollywood.
“Gabriele, amico, mi sa che tu deve aspettare tanto. Indiane non zoccole come italiane”, rispose ridendo il padrone del negozio, mentre poggiava il giornale sul bancone. “Però ho qualche bello titolo nuovo appena arrivato di avventura, o di commedia”.
“Magari, ma l’ultima volta ci ho messo tre giorni per vedere il film che mi hai dato. Senza sottotitoli e con gli attori che cantano per metà del tempo, mi sono addormentato”.
“Sì, sì, guarda belli film americani violenti… se non vuoi film, che posso fare per te?”.
“Sai niente del pestaggio dei due cingalesi dell’altra notte in piazza?”.
“Ho sentito, ho sentito. Sono in ospedale. Brutta storia. Ma non è prima volta”.
Il Polipo si appoggiò sul bancone, stirandosi; era già stanco, e non erano neanche le 11. Mmmh. “Non è la prima volta che picchiano i cingalesi, vuoi dire?”.
“No. Non è prima volta di fantasma”.
Gabriele si ridestò. Questa storia rischiava di costargli la pennichella, temeva, e forse più d’una. Sentiva già le rotelline del cervello che cominciavano lentamente, faticosamente a girare. Il Polipo era un raro esempio di quello che lui stesso definiva “investigatore sociale”, un incrocio tra il paladino delle cause perse – oddio, qualche volta anche vinte – e il detective privato, ma senza licenza, un cultore della controinformazione, allergico alla polizia e alla destra, difensore più della giustizia che della legalità, per così dire. Ma dotato di un certo senso pratico, e realista. Talvolta fino a sembrare cinico.
“Un fantasma? Ma i carabinieri dicono che forse se le sono date tra loro. Anche se io penso che ci sia la mano di qualche stronzo razzista”.
“No, i due ragazzi erano nuovi. Nessuna storia con altri. Amico dice che loro dovevano stare da cugino, ma che non c’era posto adesso. Allora loro hanno dormito in piazza, con cartoni. Ma loro non abituati. Vengono da Germania, sempre stati sotto tetto”.
“E il fantasma? Non è che se lo sono inventato?”.
Adytia alzò le spalle. “Io non so. Ma io so che altri hanno visto fantasma, e che fantasma ha colpito loro. Due volte, tre volte. Tu mai sentito? Va e parla con Mamadou, il senegalese. Lui ha detto ieri a bar. Lui sa, io penso”.
Gabriele decise di fare un salto al mercato, per cercare Luigi, che gestiva coi fratelli uno dei migliori banchi di frutta e verdura e che soprattutto, quando non era assediato dai clienti, era il più efficiente archivio umano dell’Esquilino, meglio che consultare Internet. E, se non l’avesse trovato, almeno avrebbe comprato qualcosa per il pranzo.
Hong, a quell’ora, non era mai a casa. Faceva la segretaria nella bottega del padre — Luciano, un vecchio bolognese che aveva passato un sacco di tempo a Shanghai, e ne era tornato senza un soldo ma con una moglie cinese, una figlia cino-italiana, o italo-cinese, e con una grande abilità nell’incisione dei tatuaggi, arte che praticava ormai da anni nel quartiere. Ma se padre e figlia avevano litigato, cosa che succedeva non infrequentemente, la ragazza stava da Sonia, come tutti chiamavano la proprietaria del ristorante Hang Zhou, a servire i clienti e soprattutto a chiacchierare con le amiche.
Chissà se ha litigato con Luciano, questa settimana, si chiese il Polipo.
Luigi non c’era, era andato in banca e chissà quando tornava, gli dissero al banco, così fece un po’ di spesa e se ne tornò verso casa, guardandosi in giro per vedere se incontrava Mamadou o qualcuno dei suoi. Incrociò solo Laurent, un senegalese che abitava al Pigneto e che veniva in piazza a vendere i suoi cd. Laurent aveva una fretta del diavolo.
“Scusa, mon ami, ma c’è la pula che è venuta a scassare la minchia”, gli disse in quel suo impasto di afro-franco-romano-italiano, mentre volava con sulle spalle il sacco delle sue mercanzie. “Se cerchi Mamadou lo trovi nel pomeriggio al bar. Bella, Gabrie’”.
Gabriele era sempre stupito dalla magica rapidità con cui si spargevano le notizie lì attorno, anche se lui non era mai riuscito a capire come. Radio-piazza era una specie di istant messaging che raggiungeva soltanto chi doveva raggiungere, e poi, dei suoi file, non restava niente.
Visto che per il momento non c’erano novità, Gabriele decise di concedersi un po’ di quiete. Salì a casa, si preparò un hamburger e fece a fette un paio di pomodori. Aveva deciso di non bere, dopo la sbronza serale, ma visto che nel frigo c’era un’Heineken mezza piena…. Si tolse le scarpe, con lo Scottex si fabbricò rapidamente dei tappi per le orecchie, poi si abbandonò a Morfeo senza neanche contare le pecore o far finta di leggere.
Mamadou se ne stava seduto a un tavolino al bar, con le cuffiette nelle orecchie. Il senegalese era un rasta allampanato, che faceva per la maggior parte dell’anno il venditore ambulante, e che d’estate spariva dal quartiere per andare a gestire con amici un piccolo chiosco a Capocotta. Gabriele l’aveva incontrato anni prima a Sociologia — a cui il Polipo era iscritto fuori corso da circa un secolo e mezzo.
“Bella la vita, eh, Gabrie’? Sembra che ti sei appena svegliato”, gli disse appena lo vide.
“Noi anime profonde riflettiamo all’alba, è il momento della purezza, non lo sai?”, gli rispose il Polipo versandosi una Sans Souci in un bicchiere.
Mamadou rise, e si tolse entrambi gli auricolari, segno che la conversazione era cosa importante. Altrimenti, avrebbe continuato a sentire la musica con un orecchio, battendo il piede a tempo anche mentre parlava.
“Mi dicono che cerchi un fantasma”.
“Mi dicono che tu ne sai qualcosa, di questo fantasma”.
“Non te l’hanno detto che i fantasmi non esistono? Tu eri materialista, una volta”.
“È che questa storia delle sovrastrutture non l’ho mai digerita completamente. E poi, lo sai che noi meridionali siamo fatalisti e superstiziosi”.
“Anche noi siamo molto meridionali., come sai, e molto superstiziosi.. Però questo fantasma non è solo spirito, fa male alla carne, anche. E qualche volta lascia segni più profondi — disse Mamadou — Hai visto che è successo ai due giovani cingalesi? La stessa visione l’ha avuta anche un fratello della Cote d’Ivoire, ma lui non è finito all’ospedale. E dieci giorni fa è successo a un pakistano. Ha visto il diavolo, sembrerebbe. E ancora prima a un ragazzo del Marocco, e a un cinese”.
“E perché non si è saputo in giro?”.
“Tu eri distratto, Gabrie’. E in ogni modo quelli che hanno visto il fantasma non volevano farlo sapere troppo, soprattutto ai poliziotti. Sono dei sans papiers, non ci tenevano alla pubblicità”. Mamadou era un regolare, da quando anni prima aveva sposato un’italiana che poi l’aveva mollato, ma aveva messo in piedi un collettivo, gli invisibili, per aiutare gli stranieri in difficoltà.
“So che anche la barbona tedesca l’ha visto, il nostro fantasma. Per tre giorni si è rifugiata dalle suore, dopo che lo spirito ha cercato di dar fuoco al cassonetto in cui dorme di solito”.
La donna senza età che si spostava attorno alla piazza, carica di buste e carrelli, e che ogni tanto arringava un’invisibile folla era un’altra presenza tipica del quartiere, almeno da qualche anno.
Il Polipo restò in silenzio, sorseggiando la birra. Occorreva fare qualcosa, anche se si sentiva un po’ arrugginito.
Era passato un sacco di tempo da quando aveva condotto l’ultima delle sue inchieste — su un gruppo di usurai che tra i loro affari avevano anche i combattimenti di pittbull, e che rubavano i cani di poveri vecchietti per farli sbranare in arene improvvisate. Dopo, aveva passato quasi un anno ad arrabattarsi per rimediare un po’ di soldi. E poi sapeva che Hong non vedeva di buon occhio le sue avventure, perché toccava sempre a lei curargli le ferite. E anche perché, a 35 anni, Gabriele non aveva ancora un lavoro vero.
Stavolta di mezzo c’era qualche testamatta, spettro o no che fosse. Ai due ragazzi cingalesi era andata bene, in fondo erano stati soltanto feriti. La volta successiva poteva andare peggio, qualcuno poteva morire.
“Tu non ci credi ai fantasmi, vero, Mama?”.
“Dipende. Io al mio paese sono animista. Qui invece sono materialista ateo. Ai vostri fantasmi non ci credo tanto. Ognuno ha i suoi, no?”.
Mentre andava a zonzo sotto i portici, guardando i negozi di abiti da matrimonio che erano ormai pezzi di antiquariato, una pura sopravvivenza di un’altra epoca — fra gli anni 50 e i 60 — s’imbatté nel tavolino del petulante comitato di quartiere. Anzi, di uno dei comitati di quartiere della zona, quello politicamente più a destra, i cui membri passavano ore a sbraitare al megafono contro il Campidoglio e gli immigrati, soprattutto i cinesi, in mezzo a una folla composta per metà da asiatici.
Sono loro i fantasmi, pensò Gabriele. Non si sono accorti di appartenere al passato.
Gli uomini, tre o quattro, e le due donne che erano con loro, che distribuivano volantini, sotto una bandiera italiana, erano effettivamente ignorati dalla maggioranza della popolazione che passeggiava, camminava, affrettava il passo, portava merci o trascinava valigie.
Era come se non esistessero, per i giovani pakistani, per i vecchi maghrebini, per i ragazzotti dell’Est Europa o le donne cinesi coi loro bambini, con il loro accento romano.
Il Polipo sollevò lo sguardo e cambiò pensiero, attirato dalle luci intermittenti di Mas. I vecchi “Magazzini allo Statuto” erano sempre lì, con le loro mercanzie perennemente in saldo, uscite dritte dritte da un baule dimenticato da almeno due decenni, o ancora prima. Coi loro banconi ricoperti di stracci e perline, con le commesse con la permanente che indossavano grembiuli, ma che avevano una vista tipo quella di Superman, capaci di individuare in un attimo il cliente infedele che voleva ficcarsi sotto il giaccone un maglione non pagato o una borsetta sbrilluccicante.
A Gabriele, Mas ricordava una famosa catena parigina specializzata in cianfrusaglie, Tati, e il pensiero lo metteva sempre di buonumore. Bella, Parigi.
Hong stava chiacchierando con le altre ragazze. Il ristorante, che non chiudeva mai, neanche per le ferie, era gestito quasi interamente da donne, mentre gli uomini erano reclusi in cucina. Piccolo, appena due salette, le sue pareti erano cosparse di colorati ritratti di Mao, foto di avventori più o meno famosi, immagini di piatti tipici.
La ragazza vide Gabriele entrare nel locale e gli andò incontro.
“Se sei venuto a scusarti perché non sei riuscito a pagare le bollette in tempo è meglio che te ne vai. Non è giornata”.
Il Polipo frugò nel giacchetto, tirò fuori le ricevute e le consegnò alla ragazza. “Hai litigato con Luciano, vero? Basta guardare il calendario, per saperlo. In fondo, non ho mai capito bene perché. Tuo padre non mi sembra un mostro…”.
“Sei spiritoso. Grazie per la comprensione. Non immagini neanche un po’ com’è dura lavorare con lui al negozio. Tu vedi solo la parte simpatica di Luciano, Gabri. Ma io non so come ho fatto a viverci, e come ha fatto mamma”.
Zhong, la madre di Hong, era morta alcuni anni prima, e nessuno la nominava o ne parlava mai, o quasi.
Gabriele alzò le spalle. Consolare qualcuno non era il suo forte, lo sapeva, e temeva di fare più danni dicendo qualcosa di cui poi magari si sarebbe pentito.
“Mi dovevi dire qualcosa, comunque?”, chiese la ragazza.
“No, io ero in giro e…”.
“Che c’è Gabri? — lo interruppe — Hai un problema oppure stai cercando qualcosa? È una delle tue solite rogne?”.
Il Polipo sospirò. Hong non ci aveva messo molto ad accorgersene. Tanto valeva dirglielo.
“C’è un fantasma, almeno così dicono, che se ne va in giro ad assalire gli immigrati da qualche notte. Ecco, mi hanno chiesto se potevo dare una mano, comunque si tratta di una questione di pochi giorni e…”.
“Non mi inventare palle, Polipo. Lo sapevo che non te ne puoi stare tranquillo troppo a lungo. Vai a divertirti con Mamadou e i tuoi amichetti, vai. Solo, non farti male e non ti venire a lamentare. Non ci provare. E soprattutto sbrigati, perché Sun ancora aspetta che tu finisca l’impianto elettrico giù al magazzino”.
“Cazzo, mi ero completamente dimenticato. Puoi parlarci tu, e dirgli che ho bisogno di una settimana, dieci giorni massimo? Inventa qualcosa…”.
Gabriele baciò sulle guance Hong, e salutò le altre ragazze. Non aveva fatto una gran bella figura, con la sua donna, ma poteva andare peggio, e soprattutto non c’era stato bisogno di spiegarsi troppo. Era anche questo che amava di lei.
Rimpianse soltanto che quella sera non sarebbe rimasto a mangiare ravioli al vapore, il suo piatto preferito. Hong non lo voleva nei paraggi quando lavorava al ristorante.
Prese una Tsingtao Pils dal frigo, chiedendosi se era vero che erano stati i tedeschi a insegnare ai cinesi a fare la birra, lasciò un paio di euro sul tavolo e se n’andò.
Gli indizi non erano certo molti. Un fantasma in uniforme. Uniforme della polizia? Dell’esercito? Da portiere? Una divisa da autista dell’Atac? O era soltanto che il traduttore aveva capito male? Gabriele decise di andare a parlare con i cingalesi feriti per capire qualcosa di più.
Grazie a Muttiah, un giovane dello Sri Lanka che lavorava al mercato, e che fece da interprete, e a un infermiere compagno del San Giovanni che lo fece entrare all’insaputa dei carabinieri che piantonavano il reparto, riuscì a interrogare i due.
Il fantasma, apprese, portava quella che sembrava una giubba militare, un basco, non un cappello con visiera, e una grossa cintura, o qualcosa che le assomigliava. Uno dei due soltanto aveva notato un’insegna con un teschio. E delle mostrine blu, o azzurre.
I ragazzi non avevano saputo dire da dove fosse arrivato il fantasma. Il più giovane dei cingalesi aveva sentito una musica, o forse un canto. L’altro, invece, non ricordava niente del genere.
Lo spettro aveva gridato qualcosa, ma non sapevano in che lingua, e li aveva presi a calci. Poi li aveva colpiti con un randello, e alla fine aveva estratto la lama, ferendoli. Qualcosa, un rumore, lo aveva poi disturbato, e i due erano riusciti a scappare. A udire le loro grida, era stato un carabiniere che aveva appena finito il turno e se ne tornava a casa pensando ai casi suoi.
Il fantasma in uniforme, pallidissimo, era scomparso. Ma i due se la facevano sotto anche solo all’idea di rivederlo in cartolina.
Uscendo dall’ospedale, il Polipo notò che qualcuno aveva lasciato sul muro di fronte un paio di scritte identiche fatte evidentemente con una mascherina e una bomboletta spray. Xmas. Christmas. Ma Natale era ancora lontano, mancavano un paio di mesi, pensò Gabriele con una punta di nostalgia per il clima festoso che riusciva a coinvolgere anche un cinico come lui.
La notte successiva, il fantasma lasciò la sua presunta condizione ultramondana per piombare pesantemente in quella terrena e fortemente etilica di due rumeni che si trascinavano a ora tarda nei pressi dell’Acquario. Sullo sfondo del vecchio stabilimento di piscicoltura, che ora ospitava sonnolente mostre, lo spettro in divisa saltò fuori cantando, e si avventò contro gli ubriaconi.
Terrorizzati, i due reagirono in modo completamente diverso, quasi spiazzando il fantasma. Uno, prevedibilmente e ragionevolmente, ritrovò il controllo delle gambe, dopo aver sbandato a lungo da una parte all’altra della strada con una bottiglia in mano, e fuggì via come un razzo, mentre l’altro si gettò in ginocchio e cominciò a pregare, mentre i lacrimoni gli rigavano il viso barboso.
Lo spettro, quasi esitante, si avvicinò all’uomo inginocchiato, gli mise una mano sulla spalla e con la solita baionetta lo ferì al volto. E mentre quello sveniva, sparì, com’era già accaduto le altre volte.
Mentre la fama del fantasma cresceva, però, e La Repubblica gli dedicava un secondo articolo, il Polipo non se n’era stato con le mani, anzi con i tentacoli, in mano.
Su consiglio di Luigi il fruttarolo, era anche andato a cercare Arrigo, un vecchio partigiano delle brigate Garibaldi che era rimasto a combattere fino al maggio del 1945, dando la caccia a tedeschi in rotta e fascisti che si nascondevano. Finita la guerra, invece di tornare a casa, s’era arruolato nella Folgore — una mosca bianca o quasi, un paracadutista comunista – ed era rimasto nell’esercito della Repubblica, almeno finché gli avevano fatto capire che un rosso non avrebbe mai fatto carriera militare.
Arrigo, che era un esperto di memorabilia militare, quel pomeriggio partecipava a un sit in a via Tasso, per protestare contro il rischio che la vecchia prigione dove i nazisti avevano incarcerato e torturato leader e gregari della Resistenza fosse venduta ai privati, per farne magari uno studio di commercialisti.
La stretta strada era in ombra e i manifestanti — in gran parte anziani guardati a vista da una squadra di giovani celerini — se ne stavano in piedi da qualche ora con cartelli e volantini.
“Sarà che ormai so’ vecchio — si lamentò Arrigo con il Polipo — ma pure d’ottobre me sento l’umido che m’entra dentro le scarpe. Eppoi, fermi così delle ore, ragazzo mio, me se incancreniscono le gambe. Annamo a fa’ due passi sulla piazza, almeno. Compagne, ora ritorno, me raccomando — disse il vecchio a un gruppo di dimostranti che erano rimaste a reggere i cartelli – Chiamateme al cellulare se ve n’annate”.
Dopo aver preso un caffè in un bar di piazza San Giovanni in Laterano, Gabriele e Arrigo si accomodarono su una panchina che dava le spalle alla Scala Santa. Il Polipo cercò di fare una descrizione il più possibile precisa di quello che i due cingalesi gli avevano raccontato, interrotto di volta in volta dall’anziano ex militare. La cintura era più probabilmente una bandoliera, gli spiegò Arrigo, anche se portata alla vita. E il teschio che uno dei due aveva visto su uno stemma doveva essere rosso con una rosa in bocca.
Finita la descrizione, Arrigo se ne stette per un bel po’ in silenzio.
“Mica che ce l’avresti una sigaretta? È tanto che non fumo, sai come so’ i dottori e le mogli. Però a parla’ de ste cose m’è tornata la voglia”, sbottò a un certo punto l’ultraottuagenario.
Per caso Gabriele aveva in tasca un pacchetto mezzo vuoto di Diana, le bionde che fumava Hong.
“Quello che hanno visto i tuoi indianini — arduo far intendere ad Arrigo che i due erano di Sri Lanka; ma tanto, del Bangladesh o del Pakistan, oltreché della stessa India, per lui tutti indiani restavano — io l’ho visto l’ultima volta nell’aprile del ’45”.
“Il fantasma?”.
“Ma che fantasmi e fantasmi, io quelli là l’ho visti vivi. Vivi, oddio. Quando li avemo presi, poi li avemo fucilati… Non è che s’andava tanto pel sottile, in quei giorni lì. Erano i fanti della Decima Mas, quelli di Borghese, il principe nero. Quello che nel ’70 voleva fare il colpo di Stato. Ma tu eri un regazzino, non te poi ricorda’”, disse il vecchio, soffiando il fumo dalla bocca.
Il colpo di Stato. A Gabriele era sempre sembrata una macchietta, quella storia di cospiratori da quattro soldi , appoggiati dalle guardie forestali, che avevano cercato di prendere il potere, mentre l’Italia sperimentava le lotte degli operai e degli studenti, e che erano stai poi fermati dai contrattempi o forse dall’intervento del Potere (i “poteri forti”, come dicono oggi quelli a cui non piace il “pensiero debole”). Ma chi aveva vissuto il fascismo, quello vero, forse aveva riso meno.
“Quando era finita, e tutto era perduto pe’ li tedeschi, qualcuno della Decima rimase a combattere, soprattutto in Istria, a Pola. I titini, i partigiani di Tito, gliel’avevano giurata. E loro non si arresero. In fondo, li capisco. Dopo tutto quello che i fascisti hanno fatto passa’ agli slavi, la repressione, gli stupri, gli stermini, quelli poi se so’ vendicati. Meglio morti, che nelle mani dei titini, che erano più cattivi di noi italiani…”.
“Quelli che si arresero, lo fecero co’ gli inglesi o co’ gli americani, come Borghese. C’avevano paura d’arrendese a noi, o forse glie’ facevamo pena, visto che eravamo sempre coperti de’ stracci, mentre loro erano l’elitte..”.
“Ma sei sicuro che il nostro fantasma sia vestito come un fante della Decima? — lo interruppe Gabriele – Voglio dire, sei veramente sicuro?”.
“Sicuro…“. Arrigo fece una pausa. “Vedi, quelli della Decima erano vestiti in modo diverso, un po’ estroso, mettevano insieme capi differenti. La divisa estiva era grigioverde, ma poteva esse’ anche sabbia. Qualche ufficiale portava gli stivali alla cavallerizza invece che li scarponi. Portavano il basco, ma anche l’elmetto 33, o il 34. Qualcuno portava le mostrine col gladio repubblicano, altri no. Le mostrine azzurre che m’hai detto tu, per esempio, io non l’ho mai vedute durante la guerra, ma me ricordo una cosa del genere in un museo dell’esercito. La baionetta, poi, poteva esse’ quella de’ un vecchio fucile ’91, oppure, e me sembra più probabile, non era una baionetta, ma un pugnale”.
Gabriele elaborò le informazioni, mentre l’ex partigiano aspirava da quello che ormai era diventato un mozzicone.
“Comunque, te dico ‘na cosa. Co’ sti fantasmi qui, non ce vole né il crocefisso del prete né l’aglio, come pe’ li vampiri. Ce vo’ er fucile”.
I giorni passarono, e in mancanza di novità, Gabriele pensò bene di presentarsi al magazzino di Sun, per cercare di portare avanti il lavoro sull’impianto elettrico. Soprattutto per tenere buona Hong, che ancora non si era riappacificata con il padre.
Si era portato dietro, oltre a un paio di Moretti belle fresche, anche Sergetto, un ragazzotto sveglio e piuttosto abile con il cacciavite, così, se avesse dovuto assentarsi rapidamente avrebbe potuto lasciare lui a completare il lavoro.
Mentre percorreva col suo vecchio PK 150 via Cavour per comprare del cavo e delle prese dal negozio di fiducia — uno dei pochi fuori dal perimetro dell’Esquilino, anche se in realtà distava poche centinaia di metri da piazza Vittorio — il Polipo avvistò Mimmo il carabiniere, che, in borghese, letteralmente si trascinava dietro alla carrozzina della sua secondogenita.
“Sono stanco morto, tra il lavoro e questa qui — disse Mimmo, indicando la bambina, che urlava a tutto volume nella carrozzina – non so più a chi da’ i resti”.
Il milite era originario dei dintorni di Napoli — quella sterminata metropoli che si estende tra il capoluogo della Campania e Salerno e che fa tanto Los Angeles, almeno nella capoccia degli urbanisti — e s’era arruolato nell’Arma dopo qualche breve trascorso in Lotta Continua. Trascorso che tendeva comunque a esagerare d’importanza nei suoi racconti da veterano, come il Polipo sospettava. Conosceva Gabriele da diversi anni, e il Polipo era il suo tramite, più affettivo che altro, con i compagni.
Nonostante le sue simpatie politiche fossero rimaste a sinistra, senza nasconderlo troppo ai colleghi, e anche se adesso governava la destra, Mimmo non aveva avuto grandi problemi nell’Arma. Era riuscito, per un pelo, a evitare di essere mandato a Genova durante i giorni drammatici del G8, e in generale a scansare i servizi di ordine pubblico e gli sguardi pieni di rancore dei manifestanti delle centinaia di cortei che percorrono ogni anno il centro della Capitale.
Ciò faceva sentire abbastanza tranquilla la sua coscienza politica, insieme alle informazioni che ogni tanto regalava al Polipo, in segno di amicizia.
“Hai saputo della manifestazione del 28?”, chiese a Gabriele mentre cullava la pupa.
“Quale manifestazione?”.
“Ma come? Quella dei fasci per commemorare la Marcia su Roma. Gabrie’, se qua non ci fossi io…”.
L’anno prima, poche decine di militanti “puri e duri” dell’estrema destra romana, scortati da almeno un esercito di poliziotti, avevano cercato di sfilare dalla Basilica di Santa Maria Maggiore fino a piazza Vittorio per celebrare il 28 ottobre e il colpo di mano che aveva portato il fascismo al potere (colpo di Stato sarebbe una definizione eccessiva, visto che fu lo Stato, quello con i colori sabaudi, a dare il potere a Mussolini), ma soprattutto per protestare contro l’immigrazione straniera.
Era un’evidente provocazione contro gli abitanti del quartiere, almeno quelli che non erano nati in Italia, ma anche contro quelli che a cui piaceva una “società a colori”, quella che i neofascisti chiamavano con spregio meticciato.
Per metà giornata, l’Esquilino s’era trasformato in una roccaforte assediata, con i giovani dei centri sociali, gli antifascisti e gli immigrati più politicizzati a protestare, stretti in un angolo dalla polizia.
“Me l’ha detto un collega dei Ros, della manifestazione. Temono che anche questa volta ci saranno dei casini”, disse Mimmo, strizzando l’occhio.
“Be’, se la saranno cercata”, rispose Gabriele.
Fatti gli acquisti e caricati i pacchetti nel capiente bauletto, il vespone di Gabriele fece rotta verso San Lorenzo. L’informazione di Mimmo valeva la pena di essere divulgata a chi di dovere, i compagni che si riunivano di solito al 32, la birreria di via dei Volsci legata a Radio Onda Rossa.
Gabriele per la verità preferiva la storica e francesizzante Rive Gauche, con i suoi grandi specchi e la scelta ampia di birre e whisky. E sapeva anche di non essere ben visto da quelli del 32, che lo consideravano una specie di socialtraditore, o tutt’al più un cane sciolto.
Mentre stava per attraversare il tunnel sotto la ferrovia che collega l’Esquilino al vecchio quartiere operaio, il Polipo notò però di nuovo quella scritta. XMas. Scese dal PK per guardarla meglio, e s’accorse che vicino alla X c’era una piccola a sottolineata. Significava Decima Mas, non Christmas, come aveva pensato la prima volta. Una traccia, dunque. Quante altre ce n’erano, nel quartiere?
Al 32 Gabriele aveva incontrato per caso Sandra, una vecchia compagna d’università, con cui aveva diviso più di una volta il sacco a pelo durante la Pantera, l’ultima grande protesta studentesca. Era stata una fortuna, perché aveva potuto affidare a lei il messaggio sul corteo organizzato dai fasci, senza dover discutere con i suoi amici, molto meno simpatici e ben disposti.
Presto o tardi, la notizia della manifestazione si sarebbe diffusa comunque, ma almeno così “le antifasciste e gli antifascisti di Roma”, la sigla che di solito la sinistra che si voleva “antagonista”, utilizzava in queste occasioni, avrebbero avuto il tempo di organizzarsi meglio. E magari, anche di convincere per una volta il Prefetto a vietare il corteo…
In quanto a lui, gli era venuta un’idea di cui avrebbe parlato quella sera stessa a Mamadou, dopo aver faticato un altro po’ nel magazzino di Sun.
Come gli succedeva quasi tutte le volte che aveva bevuto un poco di più — e quella sera era stato un vinaccio rosso che Mama gli aveva servito più volte nel bicchiere, mentre lui avrebbe volentieri preferito una Grimbergen blonde — Gabriele sognò il grande Timoniere, il compagno Mao.
S’era messo a letto mezzo vestito, un poco preoccupato perché Hong non era ancora rientrata, e il sonno lo aveva afferrato subito per le gambe.
Mao gli sorrideva dal poster, copia della solita serigrafia di Andy Warhol, e lui si era sentito immediatamente invadere da un sentimento di serenità rivoluzionaria.
“Prendere le proprie decisioni, non indietreggiare di fronte a qualsiasi sacrificio, superare tutte le difficoltà per strappare la vittoria!”, gli raccomandò il Grande Cinese. “Questo esercito avanza sempre, intrepido e deciso a trionfare di qualunque nemico. Non si lascerà mai umiliare. Quali che siano le circostanze, e per quanto difficili possano essere, questo esercito si batterà fino all’ultimo uomo”.
“Noi sosteniamo che bisogna contare sulle proprie forze — lo ammonì Mao — Noi speriamo di ricevere un aiuto dall’esterno, ma non dobbiamo farcene dipendenti; noi contiamo sui nostri sforzi, sulla forza creativa di tutto il nostro esercito, di tutto il nostro popolo”.
Ma mentre Mao gli stava raccontando la vecchia favola cinese “Come Yu Kung spostò le montagne”, Gabriele sentì un colpetto freddo, poi un altro, sulla fronte.
“Stavi russando come un maiale — gli disse Hong, col pigiama già indosso — e poi fammi un po’ di spazio, questo letto è sempre più piccolo”.
Il Polipo annuì, poi sprofondò di nuovo nel sonno. Ma il Presidente, con la sua saggezza, era ormai scomparso.
“Sei mica passato da Mas?”, gli chiese Hong il mattino seguente, senza manco dirgli buongiorno. Gabriele entrò ciabattando in cucina mentre la ragazza faceva colazione col solito caffellatte, ascoltando il notiziario di Radio Città Futura.
Il Polipo la baciò sui capelli ancora umidi dalla doccia, e lei lo lasciò fare. Era con quei micro-segnali che Hong, forastica per natura, manifestava il suo ritorno a una sfera affettiva più o meno normale (normale per gli altri, cioè).
“Cosa c’era di interessante da vedere, da Mas? Un’altra svendita?”.
“No, questa roba qui”, gli disse Hong, cacciando fuori da una borsa una giacca sgualcita color sabbia.
“E questa che è?”.
“Guardala bene. È una giacca in stile militare. Guarda i tasconi. Mi ha ricordato quell’uniforme di cui mi hai parlato, l’altro giorno”.
Il Polipo la guardò incuriosito. “L’altro giorno quando?”.
“Quando eri ubriaco. Un po’ più ubriaco del solito, anzi. Comunque, ieri sono passata da Mas con Angela e l’ho vista, la giacca. C’erano anche dei pantaloni in tinta. Quelli non li ho presi. Anzi, non rovinarla perché deve riportare anche questa a negozio. L’ho presa solo in prestito per fartela vedere”.
Gabriele esaminò il tessuto distrattamente. In realtà, stava cercando di ricordarsi quando avesse parlato a Hong di ciò che gli aveva raccontato il vecchio Arrigo. Sembrava incapace di tacere, a volte, soprattutto con lei, si rimproverò mentalmente.
“Be’, grazie. Questo potrebbe spiegare molte cose, se la giacca fosse `dello stesso tipo, se fosse stata acquistata lì”.
La stagione della caccia ai fantasmi era ufficialmente aperta.
Il pomeriggio del 28 ottobre, sotto un cielo che non sapeva né di pioggia né di sole, un po’ di gente cominciò a radunarsi a piazza Vittorio. Ragazzi che si guardavano intorno con lo sguardo vago, donne che sembravano arrivate per caso fin là, domandandosi dove avessero perso la strada. Giovani immigrati che passeggiavano a quattro a quattro, chiacchierando fitto fitto tra loro.
Nonostante il basso profilo che cercavano di assumere, però, arrivando alla spicciolata e vestiti in modo un po’ meno evidente del solito, i manifestanti non erano sfuggiti all’occhio impassibile del questurino. Poliziotti e carabinieri, che fino ad allora se ne erano rimasti lì accanto o sui furgoni a fumare, scherzare, leggere o chiacchierare con le fidanzate al telefonino, iniziarono a prendere posizione, stringendo i manifestanti in un angoletto della piazza.
Anche se quell’anno i neofascisti si erano guardati bene dal propagandare che avrebbero sfilato ancora una volta all’Esquilino per commemorare la Marcia su Roma del Cavalier Mussolini, e pur se l’estrema sinistra aveva organizzato la propria contro-mobilitazione grazie soprattutto al passaparola e solo all’ultimo momento con il tam-tam di un paio di radio, le forze dell’ordine avevano orecchie da una parte e dell’altra, e soprattutto si dilettavano anche loro nella lettura di siti e mailing list radicali.
Il corteo degli estremi destri, autorizzato dalla Questura pur dopo qualche tentennamento, si sarebbe mosso dalla Basilica di Santa Maria Maggiore per arrivare giusto a toccare piazza Vittorio. I soliti quattro gatti, scortati da decine di agenti e da un paio di parlamentari di Alleanza nazionale, beninteso “solo a titolo personale” .
Quasi nessuno aveva fatto caso però a quei manifesti in giallo blu e nero che erano comparsi in mattinata sui muri. Sotto la scritta a caratteri cubitali “Alleanza inter-nazionale” che richiamava lo stile tipico degli agit-prop di An solo per burlarsene senza dare nell’occhio, spuntavano brevi scritte in alfabeti e lingue diverse che dicevano però tutte la stessa cosa: donne, vecchi e bambini, venite con frutta e verdure da buttare, e tiratele ai fasci.
Così, quando il corteo dei nostalgici imboccò via Carlo Alberto, gruppetti di ragazzini cinesi, bangladeshi, cingalesi, congolesi, ivoriani, peruviani, indiani, curdi, italiani marocchini, algerini, pakistani e di altre nazionalità ancora, sciamarono fuori da negozietti, call center, bar, barberie e vicoletti, spuntarono sulle terrazze o comparvero alle finestre, attorniati da donne, a capo nudo o coperto da scialle, in jeans o abiti tradizionali, e vecchi occhialuti, barbuti o incappellati.
E la sorpresa fu ancora più grande quando la massa inattesa di giovanissimi e anziani cittadini del quartiere cominciò a lanciare chi un pomodoro guasto, chi un kiwi putrefatto, chi banane nere e consunte, chi tuberi sconosciuti ma certamente andati a male contro il corteo.
Investita solo in parte dal lancio di missili colorati e puzzolenti, la fila di agenti oscillò, ma non caricò quei Davide multicolore. I funzionari di polizia si guardarono l’un altro, i graduati dei carabinieri alzarono le braccia, e il vice della Digos non poté trattenere un sorriso.
Bambini, donne e anziani, tra cui un paio di sacerdoti in tonaca, che ora avevano finito le munizioni, ridevano anche loro, risate a tutti denti.
E se la ridevano, da una terrazza condominiale, anche Mamadou, Gabriele, Atal, Goolan, Abdelilah, Liu e gli altri del comitato che aveva organizzato la messinscena antifascista, come l’aveva ribattezzata il Polipo.
“Era tanto che non mi divertivo così”, disse Papa Malik, un senegalese obeso che consegnava bombole di gas in mezza città con l’Ape ereditata dall’ex padrone della bottega che ora era lui a gestire. Accanto all’africano, don Mario, con indosso per l’occasione la tonaca d’ordinanza, aveva le lacrime agli occhi per le risate.
Il vicecapo della Digos aveva dato ordine di far tornare indietro i marciatori neofascisti, mentre i lanciatori di ortaggi e frutta scomparivano rapidamente nel quartiere. Alcuni dei naziskin che sfilavano sotto le bandiere con le croci celtiche provarono a protestare, ma rimediarono solo spintoni e manganellate. Divertente, una volta tanto, vedere la polizia maltrattare i pelati…
Il gruppetto della terrazza sventolò una bandiera multicolore della pace, facendo ciao ciao all’elicottero della Questura che volteggiava sul quartiere, poi tutti rientrarono per una birra. Una spagnola Xibeca, che Gabriele giudicava piscio da ubriaconi, in quel bottiglione sgraziato. Almeno, si disse, costava poco.
In piazza, intanto, gli organizzatori del presidio militante cercavano di capire cosa fosse successo, e perché i fasci avessero fatto improvvisamente dietrofront. In mancanza di risposte, a sera finirono con l’attribuirsi il merito di aver impedito il corteo dell’estrema destra, diffondendo nell’etere un comunicato un po’ fanfaronesco.
Radio piazza aveva funzionato, e anche stavolta le varie comunità che popolavano il quartiere erano riuscite a trovare un accordo contro il nemico comune, pensava Gabriele. Presto o tardi, però. le tensioni che ognuno degli abitanti si portava appresso dal pezzettino di mondo da cui proveniva, i sospetti, i pregiudizi, sarebbero riapparsi.
Era la logica del beduino, in fondo: fratelli contro cugini, famiglia contro famiglia, tribù contro tribù. E dunque africani contro cinesi, polacchi contro maghrebini, indiani contro pakistani e via di questo passo.
Ci penserò domani, concluse à la Rossella O’Hara il Polipo, godendosi per il momento il successo.
Il fantasma, però, non aveva battuto in ritirata. Due giorni dopo, in una notte umida, mandò all’ospedale un altro cingalese, con una ferita all’addome che i medici giudicarono piuttosto seria.
Il ragazzo ricordava poco, ma da quel poco sembrava di capire che avesse incontrato, mentre tornava a casa morto di sonno, il morto vivente della XMas. Era avvenuto nella stradina che costeggiava il teatro Ambra Jovinelli — un vecchio palcoscenico dell’avanspettacolo rimesso a nuovo e animato da comici e musicisti — e le baracchette di latta del mercato dell’abbigliamento.
E altre scritte inneggianti alla Decima erano comparse nel frattempo nel quartiere.
Quella domenica, sul campo di terra battuta che sorgeva sul Colle Oppio, accanto ai ruderi della villa di Nerone — con magnifica vista sul Colosseo, molto meglio di un Olimpico qualsiasi — peruviani ed ecuadoregni si sfidavano a pallone davanti a un folto pubblico.
Il Polipo e Mamadou si diedero appuntamento sugli spalti improvvisati, e tra una fase e l’altra del match, mangiando pistacchi e bevendo un paio di bianche Hoegaarden, si accordarono sul da farsi.
Lo spettro sembrava agire secondo un piano preciso, dato che sceglieva le sue vittime tra gli immigrati, ma le sue mosse non parevano prevedibili. Non compariva a intervalli regolari, per esempio. E neanche seguiva le fasi lunari, nonostante le complicate teorie che Gabriele aveva elaborato guardando un documentario un po’ delirante alla tv sui serial killer e le fasi del satellite terrestre. Nisba. L’unico modo per dare pace al fantasma — che assumeva contorni sempre più umani — sembrava soltanto quello di trovarlo.
Così, dalla notte successiva, e grazie anche ai mezzi messi a disposizione all’associazione dei commercianti cinesi – che avevano deciso di abbandonare il tradizionale distacco dalle cose della città, perché per la prima volta erano seriamente preoccupati di perdere denaro con questa storia del fantasma, dopo essere sopravvissuti al panico provocato dall’epidemia di Sars — cominciò la discreta opera di sorveglianza del quartiere.
Ninja dagli occhi a mandorla scrutavano dall’alto le strade, mentre garzoni pakistani e bangladeshi spiavano dai pertugi delle loro botteghe chiunque passasse sui marciapiedi. Giovani peruviani schizzavano su scooter modificati fingendo di passare per caso, mentre trans brasiliane si aggiravano in coppia facendo mooolto rumoooore e algerini un po’ spacconi facevano la ronda nascondendo nei giubbotti lame affilate.
Mamadou e i suoi invisibili — che stavolta ci tenevano a meritarsi il nome non perché clandestini, ma perché capaci di passare tra un’ombra e l’altra senza dare nell’occhio — vigilavano e si scambiavano messaggi con le ricetrasmittenti noleggiate dai cinesi.
La prima e la seconda notte passarono senza che nessuno avvistasse il fantasma. La terza notte, però, lo spettro color sabbia sembrò apparire da lontano a un indiano che stava lottando tenacemente per tenere gli occhi aperti, alla sua quarta ora di vedetta.
Il giovane Sudhir se ne stava acquattato in un Ape furgonata, parcheggiata nei pressi del tempio di Minerva Medica — da tempo immemorabile usato come spartitraffico dei treni— osservando di tanto in tanto la strada, quando a un certo punto vide una figura in uniforme grigia che veniva lentamente verso l’Ape.
Eccitato, Sudhir, che faceva l’inserviente nel fast food indiano, afferrò il walkie-talkie e gridò in inglese che il fantasma era in vista, mentre con la mano libera cercava di estrarre il vecchio e bisogna dire, malconcio, pugnale di madreperla che gli aveva prestato suo cugino. Nella foga, però, la lama si staccò dal manico, e il giovane cominciò a bestemmiare ad alta voce — rigorosamente in italiano — mettendo in allarme la misteriosa figura, che accelerò il passo, spostandosi sulla sinistra.
Henry e Salif, due senegalesi che erano abbastanza vicini al luogo dell’avvistamento, arrivarono correndo, giusto in tempo per accorgersi che lo spettro non era altri che una guardia di Finanza, che probabilmente tornava a casa dal servizio. D’altronde, quell’uniforme la conoscevano bene, visto che avevano imparato a fuggire ogni volta che ne vedevano avvicinarsi una ai loro banchetti improvvisati di compact disc pirata.
Il finanziere li fissò a lungo, evidentemente spaventato dall’apparizione, mentre dall’Ape veniva la voce di Sudhir, che temeva ancora di doversela vedere da solo col fantasma.
Ma a Salif, che aveva una buona vista, non sfuggì un’altra ombra, più lontana. E trascinando Henry si mise a seguirla, mentre parlando piano nella radio rassicurava Mamadou e gli altri che quello di un momento prima era stato solo un falso allarme.
I due senegalesi affrettarono il passo, giusto per vedere l’ombra svoltare ancora… e il fantasma piombò su di loro cantando.
“Quando pareva vinta Roma antica — cantava lo spettro, con voce giustamente spettrale e un poco cavernosa, abbattendo prima Henry e poi Salif con due potenti colpi di bastone all’altezza del rene — sorse l’invitta Decima Legione”.
“Vinse sul campo il barbaro nemico — cantò ancora il marò, estraendo il pugnale, che fece un rumore sinistro urtando appena la bandoliera — Roma riebbe pace con onore”.
Ma mentre stava per accoltellare il nero quasi gridando la strofa che dice “noi vi giuriamo che ritorneremo là dove Dio volle il tricolore, noi vi giuriamo che riavremo pace con onore”, Salif riuscì a evitare l’affondo e a colpire il fantasma su una coscia, con un pugno tirato a caso, stando quasi seduto,.
La figura si lasciò sfuggire un lamento, mentre Salif cercava di raccogliere il bastone. Senza riuscirci, però, perché il marò gli pestò prima una mano con il pesante scarpone, poi gli prese i capelli avvicinandogli il coltello alla gola.
Il fantasma aveva però sottovalutato Henry, che era riuscito a rimettersi in piedi. Il senegalese gli sparò un cazzottone sul volto bianco, facendolo barcollare, ma contemporaneamente ferendosi alla mano destra, dato che non aveva mai imparato a dare pugni.
Lo spettro ne approfittò per ferirlo di striscio, sul volto, con la lama, poi corse via, riprendendo a cantare “Vittoriosa già sul mare, ora pure sulla terra vincerai!”.
Passò qualche minuto, quando Salif e Henry furono raggiunti da Mamadou e Gabriele.
“Tutto bene, tutto bene”, fece Salif al Polipo, mentre si tirava su pulendosi i pantaloni, evidentemente imbarazzato per l’esito dello scontro.
Da lontano, però, correndo, arrivava il giovane Sudhir, brandendo la lama del suo pugnale.
“L’ho perso, l’ho perso”, disse l’indiano, fermandosi per riprendere fiato. “È scomparso a Porta Maggiore. I am sorry”.
La sera successiva, ognuno con in mano una Brooklyn lager — una birra newyorkese corposa e dalle origini popolari, molto meglio di una Bud qualsiasi e di cui Gabriele conservava ancora un mezzo cartone omaggio di un amico steward – il Polipo, Mamadou e Luigi il fruttarolo guardavano la tv, mentre Mao li osservava critico dall’alto del poster.
In un vecchio sceneggiato in bianco e nero, Paola Pitagora parlava con Luigi Vannucchi. Anche se non si capiva di cosa, perché l’audio del televisore era a zero.
“Il mio regno per un’idea”, disse Gabriele, sconsolato per l’impasse in cui era finita l’inchiesta, proprio quando erano quasi riusciti a mettere le mani sul fantasma. Quasi.
“Io un’idea ce l’avrei. Me lo passi il telefono?”, disse Luigi, che fino a quel momento aveva emesso solo qualche grugnito sofferente.
Gabriele afferrò la prolunga, tirandola finché non riuscì a raggiungerel’apparecchio, mentre il fruttivendolo estraeva dal portafogli un foglio minuziosamente ripiegato che era la sua agendina telefonica.
“Fra un po’ arriva un amico”, disse dopo aver confabulato al telefono. “Usciamo, passa qui sotto. Mamadou, forse è il caso che chiami qualche ragazzo, non si sa mai”.
Una mezz’ora più tardi, il gruppetto guidato da Luigi s’incamminava verso Porta Maggiore, a quell’ora frequentata solo dagli aficionados del furgoncino che vendeva panini, parcheggiato ai piedi del viadotto ferroviario.
Con loro c’era anche Nando, un archeologo della Soprintendenza, che il Polipo aveva già incrociato un paio di volte a manifestazioni nel quartiere.
“Insomma, spieghi qualcosa anche a noi?”, chiese spazientito Mamadou al fruttivendolo, che se n’era stato per un po’ a parlottare con Nando.
“Eh, per fortuna che la tv ogni tanto passa qualcosa di buono, ancora”, rispose divertito Luigi. “Voi non ci crederete, ma l’idea mi è venuta guardando A come Andromeda”.
“Ehhh? C’est quoi ce truc, mec? Che roba sarebbe?”, chiese Mamadou bloccandosi all’improvviso in mezzo alla strada. “Gabrie’, io l’amico tuo non lo capisco mica! Che ci inventa?”.
“E che ne so io? Era un vecchio sceneggiato di fantascienza. Quello che stavamo vedendo prima, a casa”.
“Vi spiego: guardavo Luigi Vannucchi, l’attore buonanima. E pensavo: ‘chissà perché s’è suicidato’”, disse Luigi.
“E perché s’è suicidato?”, chiesero all’unisono il Polipo e Mama.
“E che ne so, io? Poi ho guardato bene l’attrice che recitava con lui, e non mi ricordavo il nome. Aho, non mi veniva proprio in mente! Poi me lo sono ricordato. Paola Pitagora”.
“Embè?”, disse Gabriele, che stava cercando disperatamente di raccappezzarsi nel discorso apparentemente delirante dell’amico.
“Come, embè? Pitagora, come il filosofo. Quello del teorema no?… Che ti devo di’, sarà stata la birra, sarà stato San Mao, attaccato lì alla parete che me guardava con quell’aria, come a di’: certo che siete proprio dei fregnoni… Il teorema pitagorico. I neopitagorici. La basilica sotterranea neopitagorica di Porta Maggiore!”
“Magari è tempo perso, però, magari il nostro fantasma è passato di qui”, continuò Luigi, quando si fermarono proprio davanti all’ingresso del monumento. “Vi ricordate che ha detto ieri sera Sudhir? Il fantasma è scomparso a Porta Maggiore. Se io dovessi scegliere un nascondiglio, mi nasconderei qui. E’ praticamente abbandonato. E poi, questo è un posto buono per gli spettri”.
“Il cancello è aperto”, notò Nando, che aveva con sé le chiavi del monumento, non troppo sorpreso. “Lo dico da tanto tempo, che bisognerebbe controllare più spesso questi posti”, aggiunse sospirando. C’è sempre gente che s’industria per entrare dove non dovrebbe, o per cercare un posto dove ubriacarsi…”.
Il gruppo penetrò nel vestibolo da cui si accedeva all’aula, dopo aver nuovamente accostato il cancello. Gabriele e i ragazzi nordafricani accesero le torce elettriche.
Le decorazioni che s’intravedevano nei riquadri all’interno della basilica — che risaliva probabilmente al primo o al secondo secolo dopo Cristo, quando stava per cominciare quella decadenza di Roma che dura ancora oggi, solo che, allora come adesso, i romani se ne fregano – erano rovinate dal tempo e dall’umidità, ma ancora si scorgevano scene di caccia e altri soggetti.
La luce svelò anche una traccia evidentemente più recente. “Voilà!”, esclamò Mamadou, indicando col dito la scritta, “XMas”. In basso, un paio di scatole, e un borsone. Il senegalese lo aprì, cavandone la giubba color sabbia che ormai tutti conoscevano bene, uno specchio, una scatola per il make up, e altri oggetti.
Mentre procedevano nell’ispezione, dall’esterno arrivò un rumore metallico. Gabriele spense la torcia, imitato all’istante dagli altri.
Seguirono alcuni secondi di silenzio, poi un rumore di calci e pugni, un grido soffocato. Il Polipo puntò la luce sul pavimento. Due ragazzetti dall’aria apparentemente normale, e che anzi sembravano quasi zecche, frequentatori di centri sociali, con i jeans a zampa d’elefante, sciarpetta e giaccone col cappuccio, se ne stavano stesi per terra, mentre Salif e gli altri invisibili gli si erano praticamente seduti sopra.
“Non abbiamo fatto niente!”, piagnucolarono i due all’unisono.
Il Polipo si inginocchiò, e sollevò la testa del più giovane tirandolo per i lunghi capelli. “E voi chi siete?”.
“Eravamo passati per caso, veniamo qui solo a farci le canne”, rispose l’altro, che si beccò subito un manrovescio da Abdelkrim, un marocchino che sapeva essere cattivissimo. “Tu non sei stato interrogato”.
“È vero, non abbiamo fatto niente, veniamo solo a farci le canne”, provò a replicare il più giovane, che aveva ritrovato la lingua. Gabriele gli tirò più forte i capelli.
“Ah, sì? Be’, siete capitati male. Io non vi faccio niente, ma Abdelkrim e i suoi amici, qui, non amano gli impiccioni…”;
Il nordafricano tirò fuori un coltello e lo passò vicino all’orecchio del più vecchio dei due. “Allora, bianchetto?”.
“Un momento, un momento — s’interpose Nando l’archeologo — Vi prego, non qui, niente violenze, qui siamo in un luogo protetto, e poi si rovinano i mosaici…”. Ma guardando la faccia truce di Abdelkrim riconsiderò per un attimo le cose, e cambiò registro.
“Vedete, questo è il posto giusto per un fantasma… sembra che la basilica fosse usata per i culti relativi alla reincarnazione, quegli stucchi lassù — e indicò col la mano verso un punto invisibile — ritraggono simboli misterici e mitologici…”.
“Sì — lo interruppe il Polipo, ironico — si direbbe che il nostro spettro voglia tornare a vivere, oppure che aspiri alla liberazione definitiva, come questi due qui…”.
“Non è colpa mia, io li accompagnavo solo, ho dato una mano”, piagnucolò il più giovane.
“Non parlare davanti a questi negri”, disse l’altro, fulminandolo con lo sguardo, prima che Abdelkrim non gli desse un altro schiaffone.
In breve, il ragazzetto, che si chiamava Walter, crollò. Era stato Paolo, il maggior d’età, il duro, a reclutarlo. Non volevano fare male a nessuno, solo spaventare i negri. Vale a dire gli immigrati dell’Esquilino, senza distinzione di colore, nazionalità, religione, sesso e preferenze sessuali, gusti musicali e culinari, filosofia di vita e reddito. Non erano loro due a recitare la parte del marò della Decima, ma Alfred, evidentemente l’adulto del gruppo.
“Be’, adesso ci accompagnate da questo Alfred”, disse Gabriele, facendo cenno agli altri di rimettere in piedi i ragazzi.
Alfredo, per gli amici Alfred, era un eternamente aspirante attore che, in attesa di tempi migliori, costretto a vivere a casa della madre in periferia, perché si sa quello che costano gli affitti a Roma, s’era ridotto a fare il buttafuori part-time in uno dei tanti locali che circondavano il Monte dei Cocci a Testaccio, frequentati dai fighetti romani.
Appassionato di misteri archeologici — quasi quanto i nazisti del primo Indiana Jones — e di mistica fascista, nonché di divise e armi, ossessionato dalla cronica mancanza di denaro, batteva mercatini, librerie e banchi dell’usato in cerca di libri di oscura fama e repliche grossolane di pistole.
E proprio in uno di quei libri dalle copertine segnate dalla muffa aveva ripescato la storia — in realtà un po’ incerta, a prestare ascolto agli archeologi ufficiali — della basilica sotterranea, decidendo di farne il proprio piccolo, personale regno.
Alfred fu non poco sorpreso quando, entrando nella sua Golf verso le cinque di mattina, finito il lavoro, sentì un braccio muscoloso serrargli la gola.
“Allora, fantasma?”, gli chiese Gabriele avvicinandosi all’auto, mentre Salif teneva incollato l’omaccione al sedile.
Alfred non rispose e si limitò a fissarlo, pur faticando a respirare.
“Ti risparmio l’interrogatorio, perché tanto i tuoi lacchè ci hanno raccontato tutto. Ti dico solo che se per caso rimetti piede anche per sbaglio all’Esquilino, in questa vita o nell’altra, non posso garantire la tua incolumità. Sai, quelli che hai mandato all’ospedale non sarebbero troppo contenti se ti facessi rivedere in giro. Ricevuto? E non mi ringraziare, io sono un nonviolento”.
L’uomo non parlò neanche quando, dopo averlo fatto scendere e averlo incatenato a un albero, gli invisibili cosparsero la Golf di benzina, e ne fecero un bel rogo.
Un paio di giorni dopo, in una delle strade che discendevano come torrenti d’asfalto e sampietrini da piazza Vittorio, andò in fiamme un negozio di oreficeria. I vigili del Fuoco parlarono ufficialmente di un corto circuito, anche se il caposquadra confidò i suoi dubbi al vicequestore che dirigeva il commissariato dell’Esquilino. Per lui, qualcuno aveva provocato l’incendio, anche se doveva essere stato un vero esperto: ne riconosceva la perizia, pur non avendo prove.
Il fatto strano, però, era che gran parte della mercanzia custodita nel negozio era svanita. Difficile che si fosse sciolta, anche col calore intensissimo. E poi, i pompieri erano arrivati abbastanza rapidamente. Forse, più che il racket, era stato il proprietario a combinare qualche impiccio, occorreva controllare se qualcuno non avesse giocato con la polizza antincendio…
Gabriele avrebbe voluto raccontare una storia diversa al caposquadra.
Una storia in cui l’orefice, un vecchio razzista quasi certamente d’accordo con altri farabutti come lui, aveva ingaggiato un gruppetto di estremisti di destra, capeggiati da Alfred, con la pazza idea di cacciare via in qualche modo l’orda di negri che avevano invaso il suo quartiere. Magari, perché no, anche nella speranza di trarre profitto dalla ricostruzione dell’Esquilino, sulla via della rinascita, una volta bonificato dagli immigrati non certo facoltosi che lo popolavano…
E Alfred, sempre a caccia di soldi, non senza un certo gusto per la messinscena e una morbosa passione per la storia del disgraziato Ventennio e della Repubblica sociale, si era inventato la storia del fantasma della Decima, tornato a ripulire il sacro patrio suolo dall’invasore. Attingendo per la sua mascherata a magazzini, teatri e collezionisti, e utilizzando proprio la basilica di Porta maggiore come base.
Nella storia di Gabriele, un efficiente commando cinese, specializzato sia in fuochi pirotecnici che in meno costosi roghi di negozi ed edifici, si era incaricato poi di dare una lezione all’orefice, sottraendogli anche un po’ di preziosi da utilizzare come risarcimento per le vittime del fantasma.
Ma quella storia sarebbe stata un po’ troppo fantasiosa per il vigile del Fuoco, concluse il Polipo, mentre, abbracciato a Hong, assisteva nei giardini alla curiosa cerimonia in cui un gruppo di bambini, sotto lo sguardo vigile di Wu – un clown cinese molto versato nella nobile arte della pirotecnica – davano fuoco ridendo a un pupazzo di paglia, rivestito con un’uniforme color sabbia.