di Giuseppe Genna
Per arrivare a Parigi (non soltanto alle banlieu, ma proprio al centro della capitale francese) parto dalla Val di Susa. Ecco un’agenzia di stampa emanata questo pomeriggio: ‘Duro il commento del ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Pietro Lunardi, a proposito delle proteste degli abitanti della Val di Susa contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità: ”Non ci impressionano le fiaccolate di gente che non ha di meglio da fare per spendere il tempo”, ha detto Lunardi’. La protesta dei comitati NO-TAV non ha nulla a che spartire con la rivolta violenta delle banlieu parigine (ora estesasi anche al centrocittà e in altri capoluoghi). Il tono dell’osservazione del ministro della Repubblica Italiana ha invece molto a che vedere con una delle principali cause scatenanti della rivolta delle periferie di Parigi: ed è l’arroganza di un ministro, Nicolas Sarkozy, che rappresenta la rabbiosa pervicacia all’odio di un governo, quello di centrodestra in Francia, che dolorosamente ci è già capitato su Carmilla di denunciare nella persona del ministro della Giustizia, Perben, ai tempi del “caso Battisti”.
L’esplosione di violenza in quegli orripilanti quartieri dormitorio, architettonicamente devastanti e devastati, dove è compressa la fascia di polopolazione più emarginabile e indifesa rispetto alle magnifiche sorti del mercato (in generale e anche specificamente euro-peo), è stata in Francia interpretata come “frattura urbana” (così l’elzivirista di Le Monde nell’edizione odierna). Dieci giorni di silenzio del Presidente Jacques Chirac: l’uomo della moderazione con la sinistra e addirittura all’interno del suo partito, dove la frattura urbana è ancora più estesa, ha taciuto per dieci giorni. Dieci giorni in cui il Governo ha mostrato un unico volto ed espresso un’unica politica: la faccia da rampantino cattivo di Sarkozy e la sua predilezione sciagurata per la “tolleranza zero” in ogni occasione. Non era, evidentemente, l’occasione opportuna. Anni fa, prima di iniziare un periplo tra ministeri, che egli interpreta quale irresistibile scalata alla poltrona di Chirac (contesagli oggi dall’azzimatissimo Villepin, il primo ministro), Sarkozy aveva ricoperto il ruolo di ministro degli Interni trasformando la Ville Lumière in un labirinto cupo, fittamente presidiato da poliziotti con tanto di cani ringhianti al guinzaglio. Si assisteva a scene imbarazzanti sugli Champs Elysées, sotto il regime Sarkozy. Vidi di persona un manipolo di tutori dell’ordine, dei manzi vestiti da robocop in tutone blu, che sceglievano a caso un extracomunitario, lo mettevano al muro, lo perquisivano con il galateo codificato da Himmler, e poi lo rispedivano malamente alla passeggiata che gli avevano interrotto. Al mio fianco, ai tempi, avevo una persona che in Francia ci era vissuta per un lungo periodo, a fine Cinquanta – era allibita, quindi sdegnata. Un plauso comunque scrosciò dagli appartamenti meglio arredati dei Boulevard: una Parigi così pulita e sicura ce la poteva garantire soltanto Nicolas! Bravò! E da lì, dal successo parigino della “tolleranza zero” mutuata dal sindaco di New York Rudolph Giuliani, cominciò l’ascesa del neocon transalpino più ambizioso e sfrontato che la Francia abbia conosciuto dai tempi di De Gaulle.
Passati gli anni, la mirabolante carriera di Sarko lo vede tornato nuovamente a quel gradino, a quella poltrona: gli Interni (complimenti per i progressi nella carriera). Non avendo minimamente memoria del fatto che, dopo avere praticato una cartesiana e feroce “tolleranza zero”, a Giuliani toccò rovistare tra le rovine del World Trade Center, il ministro francese ha preso sul personale lo scoccare della rivolta nelle periferie parigine e ha letteralmente gettato benzina sul fuoco. In un articolo di ieri, sempre su Le Monde, Nicolas Sarkozy richiama esplicitamente l’equipollenza tra l’azione di repressione poliziesca che esercitò tre anni fa e ciò che intende fare e sta facendo oggi: “I risultati che dal 2002 i nostri concittadini apprezzano costituiscono chiaramente gli obbiettivi della politica della lotta all’insicurezza. Questa lotta si appoggia ormai, ed è sotto gli occhi di tutti, sul buon senso e non più sull’ideologia: […] la prevenzione, che rimane indispensabile, non deve escludere la repressione, ogniqualvolta essa sia giusta e necessaria. Di fronte ai selvaggi atti di vandalismo io non faccio confusione tra i violenti e l’immensa maggioranza di giovani delle periferie che altro non sognano che di realizzare la loro esistenza. I francesi possono fare conto sulla totale determinazione del Governo”.
Evito facili ironie, anzi no, non le evito: tra qualche mese, parole del genere, potrebbe pronunciarle il primo cittadino di Bologna. Desidero però entrare nello specifico di ciò che Sarkozy, presa la penna e messosi alacremente a stendere il testo, va affermando. Ci sono punti che sottintendono abissi e almeno un’ambiguità che evidenzia una verità storica, sebbene appartenente all’attualità.
Che “la politica della lotta all’insicurezza” sia un cavallo di battaglia (nel senso letterale dell’espressione) di questo signore che rappresenta il Governo francese, lo si è visto ed è ormai assodato. Che la lotta all’insicurezza sia una politica non è invece così assodato. Qui si scomoderebbero teorici e filosofi della politica e della nozione di Stato; fatto sta che la politica, fino a prova contraria, non è una strategia, mentre per Sarkozy sembra valido il rovesciamento da von Clausewitz, per cui “la politica è l’anticipazione della guerra”. Sarko identifica strategia e politica, ed è un vecchio trucco dei conservatori occidentali ricorrere a questa confusione. Una strategia non è etica: si misura con il metro dell’efficacia, e il sillogismo capzioso di Sarkozy mette la politica sulla bilancia dell’efficacia. C’è almeno un punto di contatto tra strategia e politica: ed è ciò che va perduto. La strategia è cattiva strategia se le perdite sopravanzano i vantaggi; non vale il medesimo per la politica. Del resto, attaccare “la politica della lotta all’insicurezza” sul piano etico manderebbe a casa Sarkozy nel giro di un quarto d’ora. La sua impostazione tecnocratica (recentemente, su un tg nazionale italiano, a proposito della lotta al dopo-Chirac, Sarkozy è stato dato per favorito in quanto molto gradito alle tecnocrazie europee) misura tutto in efficienza.
Questa efficienza tecnocratica sembra tutelare inizialmente la classe media borghese. Bisogna comprenderlo, a proposito di quanto capita in queste notti incendiarie parigine: siamo all’inizio. E, all’inizio, il buon medio borghese è tutto contento se il pugno di ferro viene calato sulle teste delle periferie che minacciano il centro. Ma date spazio a Sarko, alle sue idee sullo smantellamento dello stato sociale, alla sua personalissima interpretazione dell’italiana legge Biagi, alla sua idea di flessibilità e tagli, ai suoi propositi di privatizzazione del pubblico. Tempo un paio di anni e succede anche in Francia quel che è successo negli USA e sta succedendo in Italia: è proprio la media borghesia a slittare pericolosamente in prossimità della soglia di povertà. Quella politica di lotta dura contro natura (la natura è insicurezza) conduce a risultati sociali che possiamo identificare con un tatcherismo appena più morbido e spaventato dell’originale.
Di ciò riparleremo se Sarkozy l’avrà vinta contro Villepin e i socialisti alle prossime presidenziali. Veniamo invece al punto più critico di quanto va affermando il ministro degli Interni: “Questa lotta si appoggia ormai, ed è sotto gli occhi di tutti, sul buon senso e non più sull’ideologia”. E’ davvero un punto critico e riguarda tutti, non soltanto i francesi, ma anche gli italiani e, direi, qualunque rivoluzione si sia mai fatta nel mondo. Che il “buon senso” a cui si richiama Sarkozy non sia un’ideologia è semplicemente un’idiozia. Il suo ammasso di disumani protocolli di rengeneering antropologico è ideologia allo stato puro, tende proprio a questo sottile fascismo del “senso comune”, al di fuori del quale, se non un borderline, sei proprio uno psicotico o un fuorilegge (due categorie che nel futuro prossimo sono destinate a identificarsi). Il “senso comune”, questa pappa mefitica da civiltà post-borghese in decadenza, è formulato nei suoi capitolati dagli apici di alienazione più vergognosi che una società tecnocratica, da falansterio, tenta di imporre alla popolazione. Ogni rivolta contro le ingiustizie che vengono silenziosamente perpetrate sotto il largo ombrello di questo “buon senso” va combattuta. Nulla di male: essere nemici di quel “buon senso” fa prevedere una reazione – il reazionariato trova la sua etimologia proprio in questo punto. Il reazionariato di Sarkozy, tuttavia, si trova di fronte a una splendida ambiguità: i nemici o sono motivati da un’ideologia a cui contrapporre un’ideologia opposta, oppure cosa sono? Come se la rivoluzione fosse motivata da ideologie e non viceversa. A Sarkozy andrebbe chiesto: scusa, ma non basta che questi emigrati soffrano tassi di disoccupazione fuori controllo, che l’assistenza sociale sia praticamente inesistente, che siano stati ammassati in orrori edilizi dove è fiorito ciò che in luoghi simili sempre e ovunque è fiorito, che le loro prospettive di vita siano azzerate da un mercato selvaggio che tende a inselvatichirsi sempre più? Non basta questa condizione da diseredati in una capitale del benessere europeo? Non basta questo zero future che “la politica della lotta all’insicurezza” conferma e intensifica? Evidentemente no. Sarkozy avrebbe bisogno che ci fossero i comunisti dietro ai maghrebini che incendiano auto e devastano le banlieues. Oppure Pantere Nere. Oppure Islam radicale. Torna strano, a Sarko, che la fatwah lanciata dagli Imam cittadini sia stata ignorata da questi ragazzi che spuntano come spettri nella notte parigina e che sono i coerenti prodotti di una civiltà – quella europea – che, quando costruisce ghetti in piena democrazia, crea menefreghismo legittimissimo verso ciò che dicono i preti di ogni confessione. Ed è meglio così, per Sarkozy: immaginiamo se i “vandali” fossero entusiasti ammiratori di Al Qaeda. Parigi arderebbe di più e peggio. E a pochi mesi da bombe islamiche a Londra, a più di un anno dagli ordigni di Madrid. Complimenti a Sarkozy. Soltanto un tecnocrate può arrivare a non capire che i moti rivoluzionari nascono dall’ingiustizia, dalla fame, dalla penuria a cui l’umano è sottoposto. E ciò valga per i nostalgici e saccenti analisti di casa nostra che, sorridendo ironici e alla buona, osservano come dietro questi sporadici e coreografici vandalismi non c’è un adeguato motore ideologico né una guida (lo asseriva Furio Colombo su RaiTre davanti a un lievissimo Fabio Fazio). Ma quale motore ideologico? L’organizzazione e il network della rivolta sono un momento secondo nella strutturazione di una rivolta. Sarebbe come dire che Rosa Parks, non cedendo il posto in autobus al bianco che lo pretendeva, non aveva dietro di sé un adeguato motore ideologico.
Infine un accenno a quella stragrande maggioranza di giovani delle banlieu che sognano di costruire onestamente una rosea esistenza, a cui Sarkozy, con involontario Sarkasmo, fa riferimento. Risulta che nei dieci giorni in cui Parigi ha bruciato, il numero di partecipanti ai riot siano esponenzialmente cresciuti. Suggerirei a Sarkozy di tarare la propria calcolatrice, e ai francesi di non regalare a tutta Europa quello di cui purtroppo ci ha omaggiato di recente la Germania.