[Proponiamo tre contributi, che scalano nel tempo, per comprendere cosa stia realmente accadendo tra l’Amministrazione Bush e il governo di Tehran, dopo le gravissime dichiarazioni del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, contro lo Stato d’Israele. I tre interventi, assai qualificati, che pubblichiamo qui, determinano una breve cronistoria di un conflitto che sembra annunciato e che speriamo non deflagri mai. gg]
Iran: chi fermerà l’invasione?
di Joshua Frank
22 ottobre 2005
La scorsa settimana, a Londra, l’ambasciatore Usa John Bolton ha espresso il suo disappunto verso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU per il suo “fallimento” nell’affrontare la presunta minaccia nucleare dell’Iran. Bolton ha fatto tutto tranne che minacciare l’azione militare, implicando deliberatamente che il governo Usa prenderebbe la questione nelle proprie mani se non lo farà l’ONU.
Potrebbe sembrare inconcepibile che il governo Usa possa anche solo star considerando di usare la forza militare contro l’Iran, a questo punto. Le truppe Usa sono già dispiegate oltre i limiti e l’opinione pubblica sulla guerra attuale è al minimo storico. L’agenzia internazionale per l’energia atomica dell’ONU (UN International Atomic Energy Agency, IAEA) ha ampiamente rifiutato di accusare l’Iran di star violando anche un solo impegno sotto il trattato di non-proliferazione nucleare, nonostante abbia accusato l’Iran di nascondere i propri programmi, nel passato. Ma questo sicuramente non può essere il miglior clima per iniziare un’altra guerra in Medio Oriente.
Troppi aspetti negativi non hanno molta importanza per i neo-con.
Durante la medesima visita a Londra, il team dubbioso di Bolton e Tony Blair ha persuaso l’AIEA — insieme all’India — ad avere il sopravvento sugli ispettori dell’ONU in Iran e a dichiarare il paese in violazione del trattato di non-proliferazione, che porterebbe la questione al Consiglio di Sicurezza. L’india ci ha messo la firma, anche se sta producendo delle armi nucleare ed ha già accettato il trattato. In molti modi è l’Iraq che si ripresenta: ignorare gli ispettori e andare avanti come previsto. Per di più, i funzionari a Teheram non stanno aiutando molto la loro causa. Ma forse hanno visto cos’è accaduto a Saddam quando si è piegato fino a toccarsi le punte dei piedi per il governo Usa, prima dell’invasione. L’Iran chiede ancora l’annientamento di Israele, di cui Bush e i suoi compari sono innamorati. Ovviamente, il governo iraniano crede di essere minacciato — Israele ha armi nucleari e ha parlato apertamente del bisogno di sbarazzarsi del regime oppressivo degli Iraniani. Anche il vice presidente Dick Cheney [nella foto] ha avvisato della minaccia di Israele all’Iran.
Come ha scritto di recente l’autore Dan Plesch sul Guardian Unlimited:
“Poco dopo le elezioni Usa, il vice presidente, Dick Cheney, ha avvisato che Israele potrebbe attaccare l’Iran. Israele ha la capacità di attaccare degli obbiettivi iraniani con aerei e missili cruise a lungo raggio lanciati da sottomarini, mentre la difesa aerea iraniana è ancora, per la maggior parte, basata su un’apparecchiatura vecchia di 25 anni, acquistata ai tempi dello Shah. Un attacco Usa potrebbe essere dipinto come un’opzione più ragionevole di un nuovo confronto israelo-islamico.”
Non era molto tempo fa che Seymour Hersh, nel New Yorker, avvertiva del desiderio di Bush: una guerra in Iran, più calma e cortese — nulla che sembri il “Shock and Awe” dell’Iraq. Secondo Hersh, l’amministrazione Bush spera che bombe intelligenti e operazioni segrete possano rovesciare da sole la leadership religiosa nel paese e che i falchi al Pentagono non pensino ci sia bisogno di un’occupazione estesa. Pensano che sarà facile e veloce, niente che assomigli al casino in Iraq.
Non contate su Bush per portare il pubblico americano su questo non-dibattito. Sa bene, dopo quello che li ha fatto passare (per non parlare degli Iracheni), che non saranno ingannati e portati a sostenere un’altra guerra con un paese che non sta ponendo assolutamente alcuna minaccia alla sovranità Usa. Karl Rove non ha avuto bisogno di spiegarlo per filo e per segno. No, questa volta non ci sarà una risoluzione al congresso né un filmato della CNN quando i primi missili saranno sganciati.
Ci sono pochi dubbi che John Bolton [nella foto] e le manovre del Regno Unito presso l’ONU stiano servendo solo come uno stupido stratagemma. L’ONU è già irrilevante quando si tratta di vigilare sulle iniziative imperiali degli Stati Uniti, e lo sa. Alla segretaria della difesa Condoleezza Rice è stato chiesto durante un incontro della commissione per le relazioni estere del senato, il 19 ottobre, se Bush stesse pianificando o meno un’azione militare contro l’Iran e la Siria. La Rice ha risposto duramente: “Non penso che il presidente tolga mai dal tavolo queste opzioni che riguardano la forza militare”.
Alla fine, Bolton e l’amministrazione che rappresenta faranno quello che vogliono. Anche se si tratta della guerra in Iran.
da http://www.zmag.org/Italy/ – Documento originale Invading Iran – Who is to stop them? – Traduzione di Carlo Martini
Joshua Frank è l’autore di Left Out!: How Liberals Helped Reelect George W. Bush, pubblicato dalla Common Courage Press. Potete ordinarne una copia ad un prezzo scontato su www.brickburner.org. Joshua Frank può essere contatto all’indirizzo Joshua@brickburner.org.
Una strategia di destabilizzazione diretta e indiretta
Quando gli Usa cercano lo scontro con Tehran
di Walid Charara
Gennaio 2005
Il disastroso bilancio dell’occupazione americana in Iraq non sembra modificare, almeno per il momento, la decisione dell’amministrazione Bush di perseguire il suo «grande progetto»: ridisegnare tutto il Medioriente (1). In questo quadro, la parola d’ordine attuale consiste nell’indicare l’Iran come la «nuova minaccia». I «capi d’accusa» contro Tehran rassomigliano in maniera incredibile a quelli che, appena due anni fa, erano stati formulati contro il regime di Saddam Hussein: produzione di armi di distruzione di massa, appoggio del terrorismo, legami con al Qaeda …
A differenza dell’ex regime iracheno, l’Iran ha effettivamente sviluppato un programma nucleare, e questo, dato il suo possibile impiego a fini militari, è invocato come prova delle intenzioni bellicose di Tehran. Il consigliere di Bush per la sicurezza nazionale e segretario di Stato di fresca nomina, Condoleezza Rice, aveva avvertito già da tempo che Washington avrebbe fatto di tutto per costringere l’Iran ad abbandonare il suo programma nucleare. Anche i responsabili israeliani sono stati avvisati dell’esistenza di questo programma, definito da Meir Dagan, capo del Mossad, «la più grande minaccia che incomba sull’esistenza di Israele da che è stato creato». Lo stato maggiore israeliano, d’altra parte, all’inizio del 2003, prima dell’invasione dell’Iraq, aveva insistito affinché l’Iran fosse designato come bersaglio prioritario. Fin dal giugno 2003, la rivista britannica Jane’s, specializzata in questioni militari, aveva annunciato che Israele aveva elaborato un piano d’attacco «preventivo» contro le infrastrutture di ricerca e di sviluppo nucleare in Iran, e che l’attuazione del piano era condizionata dal via libera di Washington, per il momento non ancora deciso.
Oggigiorno, il contesto generale si è modificato. Se arginare le ambizioni nucleari di Tehran si presenta come l’obiettivo immediato di Washington, il disegno principale della strategia regionale degli Stati uniti a più lungo termine rimane lo stesso del 1979: rovesciare la repubblica islamica dell’Iran.
L’ostilità nei confronti di Tehran, più o meno accentuata a seconda dei tempi, è una delle costanti della politica estera di Washington da ormai un quarto di secolo, nonostante il fatto che l’atteggiamento iraniano si sia considerevolmente modificato. Infatti, fin dall’inizio degli anni ’90, l’Iran ha accelerato il processo di normalizzazione delle sue relazioni nella regione – in particolare con l’Arabia saudita – e ha rinsaldato i suoi legami politici, economici e commerciali con l’Unione europea, la Russia, la Cina e l’India. Numerosi specialisti hanno potuto constatare tali progressi: uno di loro, ad esempio, scrive: «L’Iran, altro bersaglio ossessivo, è un paese di grande importanza strategica, ma chiaramente impegnato in un processo di pacificazione, all’ interno e all’esterno (2)».
Fatto veramente insolito, la Repubblica islamica dell’Iran si è addirittura avvicinata, su certi temi di politica estera, alle posizioni sostenute dagli Stati uniti, e non ha esitato a superare alcune linee rosse un tempo considerate invalicabili. E così nel 2001, Tehran ha appoggiato Washington durante la guerra americana contro l’Afghanistan. D’altra parte, nel 2003, l’Iran ha assunto un atteggiamento che potremmo definire di «cooperazione», attivando alcune organizzazioni sciite irachene per appoggiare il progetto americano d’invasione dell’Iraq.
Tali aperture non hanno tuttavia modificato in misura significativa l’ostilità anti-iraniana degli Stati uniti. Le principali personalità della corrente neo-con e il segretario alla difesa Donald Rumsfeld hanno continuato a dichiarare a getto continuo, durante e dopo l’invasione dell’Iraq, che «il contagio democratico» avrebbe rapidamente conquistato l’Iran provocando la caduta del regime.
Per accelerare la realizzazione di questo scenario, gli Stati uniti attualmente si attivano a completare l’accerchiamento dell’Iran con uno spiegamento militare negli stati limitrofi. Cercano anche di arginare l’influenza della repubblica islamica al di fuori delle sue frontiere, lavorano per il suo isolamento sia politico che diplomatico e portano avanti contro l’Iran una strategia di destabilizzazione diretta e indiretta. Al di là dell’apparato ideologico che costituisce il nuovo «messianismo democratico», due motivi principali spiegano l’accanimento dell’amministrazione Bush. Il primo riguarda la posizione geostrategica dell’Iran che, grazie al suo potenziale umano (70 milioni di abitanti) ed economico, alla sua indipendenza e alla cooperazione militare con Cina e Russia, rafforza il suo status di potenza regionale di medio calibro e si presenta come l’ultimo baluardo contro un duraturo controllo degli Stati uniti sul Medioriente nel suo complesso. Se l’Iran accedesse allo status di potenza nucleare, diventerebbe un partner corteggiato da futuri «concorrenti di pari rango» degli Stati uniti, per usare il linguaggio dei rapporti del Pentagono, vale a dire l’Europa, la Cina, l’India o la Russia.
D’altronde, Tehran costituisce l’ultimo alleato regionale di attori statali e non statali in conflitto permanente con Israele, come la Libia, la Siria, gli Hezbollah e alcune organizzazioni combattenti palestinesi. Senza l’appoggio iraniano, tali attori, privati di qualsiasi altro sostegno a livello regionale o internazionale, sarebbero fortemente indeboliti di fronte alla superiorità militare di Israele.
Pericolo crescente Il contesto attuale di pericoli crescenti, come pure la volontà di trasformare il suo territorio in un «santuario» contro eventuali attacchi americani o israeliani, incoraggia l’Iran a dotarsi di armi atomiche. Secondo certi analisti, tali armi avrebbero una funzione puramente deterrente. Scrive per esempio il saggista americano Michael Mann: «Tali armi non sono offensive. Chiunque osasse lanciare le sue ogive contro gli Stati uniti provocherebbe il proprio annientamento.
Perciò, è assolutamente impossibile che queste armi rappresentino una minaccia per l’America. Per giustificare il loro impiego contro uno stato limitrofo, non si può neppure invocare i motivi che normalmente scatenano le guerre, perché le ricadute radioattive danneggerebbero in egual misura le due parti contrapposte. Tuttavia, qualsiasi paese che tema gli Stati uniti o un vicino molto più potente, desidera ardentemente procurarsi armi nucleari, in nome della legittima difesa (3)».
Si è così andata profilando una convergenza strategica tra Stati uniti e Unione europea contro l’ingresso di Tehran nel club nucleare, fatto che non può mancare di ricordare quella che si era creata contro l’Iraq dopo la sua invasione nel Kuwait nel 1990. In entrambi i casi, si tratta di evitare l’ascesa di un polo di potere musulmano coinvolto nel conflitto con Israele, e in grado di riequilibrare, almeno in parte, un rapporto di forze nella regione molto favorevole a quest’ultimo.
Malgrado tale convergenza, tra l’Europa e l’America persistono divergenze molto evidenti sugli obiettivi da raggiungere. Gli europei si contenterebbero di una rinuncia alle ambizioni nucleari sul piano militare e sarebbero pronti, in contropartita, a normalizzare ulteriormente i loro rapporti con Tehran, mentre gli Stati uniti considerano che un tale passo indietro dovrebbe rafforzare la decisione della «comunità internazionale» ad intervenire per accelerare la caduta del regime iraniano.
Di fronte alle ambizioni nucleari dell’Iran, vediamo profilarsi due possibili opzioni: l’uso della forza per distruggere le installazioni nucleari, oppure l’aumento delle pressioni diplomatiche per indurre Tehran alla rinuncia. Per quanto riguarda la prima opzione, Tel Aviv e Washington non avrebbero esitato a distruggere gli impianti nucleari iraniani (così come l’aviazione israeliana aveva bombardato il reattore nucleare iracheno Osirak nel 1980), se una simile iniziativa non comportasse gravi rischi. Due ostacoli, di natura tecnica e politico-militare, rendono poco probabile il ricorso alla forza.
L’ostacolo tecnico è legato al fatto che gli iraniani hanno disseminato i loro impianti nel paese, cosa che diminuisce le probabilità di successo di qualsiasi azione che miri a distruggerli nella totalità.
Sul piano politico-militare, l’Iran non esiterebbe certo a reagire ad un’aggressione israeliana o americana. O a partire dal proprio territorio, con missili di lunga gittata diretti sul territorio israeliano, sia incitando il suo alleato libanese, Hezbollah, a fare altrettanto a partire dal Sud Libano, cosa che porterebbe rapidamente a una regionalizzazione dello scontro, coinvolgendo quanto meno il Libano e la Siria. Per sovrammercato, Tehran replicherebbe tramite i suoi numerosi alleati sciiti in Iraq e in Afghanistan contro le truppe americane presenti in questi due paesi.
Tutte queste considerazioni spingono necessariamente a privilegiare la via delle pressioni politico-diplomatiche ed economiche. Tuttavia, arrivare a isolare Tehran privandola degli alleati regionali è una condizione indispensabile per renderla più vulnerabile alle pressioni o per potere in futuro ricorrere alla scelta militare. Gli Stati uniti a tal scopo hanno elaborato una strategia articolata su tre fronti. In primo luogo, il fronte libano-siriano in cui, di concerto con la Francia, moltiplicano le pressioni su Damasco. C’è stata una svolta in tal senso dopo la votazione della risoluzione 1559 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che richiedeva il ritiro dell’esercito siriano dal Libano, il disarmo degli Hezbollah libanesi e palestinesi, e lo schieramento dell’esercito libanese lungo la frontiera con Israele.
La risoluzione 1559 è una sorta di messaggio in codice che ingiunge alla Siria di sciogliere la sua alleanza con l’Iran e di prendere le distanze da Hezbollah, alleato di Tehran, perché in caso contrario Damasco sarebbe costretta ad abbandonare il Libano. La risoluzione ha innanzitutto una finalità regionale, il che permette di comprendere meglio l’imprevista posizione assunta dalla Francia in questa vicenda.
La vivacità delle divergenze franco-siriane sulla questione libanese, i rapporti speciali tra il presidente francese Jacques Chirac e l’ex primo ministro libanese Rafic Hariri (ormai ostile alla Siria), o i contenziosi commerciali tra Damasco e Parigi, da soli sono insufficienti a giustificare l’attuale posizione di Parigi, priva di una coerenza con la politica della Francia in Medioriente. Solo l’identità di vedute con Washington sulla necessità di sciogliere l’alleanza siro-iraniana consente di dare un senso a quella che è inevitabile definire una svolta di 180 gradi.
L’altro fronte su cui gli Stati uniti agiscono per arginare l’influenza iraniana è l’Iraq. La guerra condotta fin dall’aprile 2004 dalle forze anglo-americane contro i sostenitori dell’imam Moktada Al-Sadr non era dovuta soltanto al loro rifiuto di accettare l’occupazione.
Era motivata anche dalla volontà degli Stati uniti di neutralizzare una corrente che aveva solide relazioni con Tehran. L’atteggiamento americano nei confronti delle altre formazioni sciite irachene, l’Assemblea superiore della rivoluzione islamica e il partito Daawa, che partecipano entrambi al governo provvisorio di Iyad Alaui, combinano una politica di cooptazione interna di alcuni settori con le pressioni contro gli elementi filo-iraniani ritenuti irriducibili. D’altronde, lo status di rifugiato politico in Iraq, che è stato accordato ai 4.000 membri mujaiddin del popolo iraniano – definiti dagli Stati uniti un’organizzazione «terrorista» – e le «rivelazioni» di questi ultimi sui programmi nucleari «segreti» di Tehran stanno a testimoniare un avvicinamento tra Washington e tale organizzazione, e la sua probabile strumentalizzazione contro la rivoluzione islamica (come era già accaduto, prima dell’invasione dell’Iraq, con il Congresso nazionale iracheno di Ahmed Chalabi).
Infine, in Afghanistan, adducendo il pretesto di ripristinare l’autorità dello stato di fronte ai signori della guerra, gli Stati uniti hanno incoraggiato il loro alleato Hamid Garzai a tentare di mettere da parte il leader storico dei mujaiddin della regione di Herat, Ismail Khan, uomo molto vicino all’Iran. Tehran tuttavia può contare su una vasta rete di alleati tra le formazioni politiche afghane che componevano l’alleanza del nord, per cui sarà molto difficile per gli Stati uniti ridurre la sua influenza. Anche se lo scontro diretto tra Tehran e Washington sino ad oggi è stato evitato, il progetto di riconfigurazione del Medioriente che l’amministrazione Bush intende portare avanti è su una rotta di collisione con gli interessi degli stati cardine della regione, e finirà col raggiungere anche l’Iran. Se gli Stati uniti si ostineranno a cercare lo scontro con Tehran, scateneranno un conflitto regionale che potrebbe far deflagrare tutto il Medioriente.
NOTE
Da Le Monde Diplomatique
Walid Charara è giornalista, autore, con Frédéric Domont, di Hezbollah. Un mouvement islamo-nationaliste, Fayard, Parigi, 2004.
(1) Leggere Gilbert Achcar, «Les masques de la politique américaine», Manière de voir, n° 78, dicembre 2004-gennaio 2005.
(2) Emmanuel Todd, Dopo l’impero, Tropea, 2003.
(3) Michael Mann, L’impero impotente, Piemme, 2004.
(Traduzione di R. I.)
Come l’Iran resisterà
di Kaveh L. Afrasiabi
26 dicembre 2004
TEHRAN- Come alcune organi di stampa riportano, gli Stati Uniti e Israele starebbero prendendo in considerazione l’ipotesi di operazioni militari contro l’Iran. L’Iran stesso, tuttavia, non sta perdendo tempo a preparare la sua risposta ad un eventuale attacco.
Delle manovre combinate di mezzi terrestri e aerei, durate una settimana e svoltesi in cinque province del sud e dell’ovest del paese, si sono appena concluse. Gli osservatori stranieri, stupefatti da tali manovre, hanno descritto come “spettacolare” il massiccio utilizzo di strumenti tecnologici, le operazioni, tra cui il rapido posizionamento di forze basato su squadroni di elicotteri e su ponti aerei, l’utilizzo di missili, così come l’utilizzo di centinaia di carri armati e di decine di migliaia di ben coordinato personale che usava munizioni non a salve. Contemporaneamente, circa 25000 volontari si sono fino ad ora offerti ai nuovi centri per gli “attacchi suicidi” contro ogni potenziale invasore, in quello che viene chiamato “combattimento asimmetrico”.
Oltre la strategia di un confronto contro una ipotetica invasione statunitense, l’Iran riutilizza lo scenario iracheno di una forza sovrastante, rappresentata particolarmente dall’aviazione Usa, che punta a una vittoria veloce contro una forza molto più debole. Facendo tesoro dell’esperienza sia dell’Iraq nel 2003 sia della guerra Iran-Iraq del 1980-88 e del confronto con le forze Usa nel Golfo Persico nel 1987-88, gli iraniani si sono concentrati sui vantaggi di una strategia difensiva fluida e complessa, che cerca di trarre vantaggio da alcune debolezze della superpotenza militare Usa, e allo stesso tempo di massimizzare le preziose e ristrette aree in cui possono avere un vantaggio, tra cui, per esempio, la superiorità militare delle forze di terra, le tattiche di guerriglia, il terreno etc.
Secondo un rinomato articolo sull’Iran war game, apparso sulla rivista statunitense Atlantic Monthly, i costi previsti di un attacco all’Iran sarebbero almeno di qualche decina di milioni di dollari. La previsione è basata su “interventi mirati”, che combinano attacchi missilistici, bombardamenti, e operazioni coperte, e non tiene conto della strategia iraniana, che punta ad “estendere il teatro delle operazioni” per aumentare esponenzialmente i costi del nemico; si prevedono anche attacchi alle strutture di comando statunitensi nel Golfo Persico.
Dopo questa versione iraniana degli sviluppi della guerra, l’intenzione Usa di usare dei combattimenti locali per indebolire il sistema di comando iraniano, quale preludio per un sistematico attacco agli obiettivi militari chiave, sarebbe eliminata dalla strategia di “portare la guerra tra loro”, per usare l’espressione di uno stratega militare iraniano, che enfatizza la debole struttura di comando statunitense all’estremo meridione del Golfo Persico. (Negli ultimi mesi, gli aerei da guerra Usa hanno ripetutamente violato la spazio aereo iraniano nella provincia di Khuzestan, per testare il sistema di difesa aerea iraniano, riportano gli ufficiali militari iraniani).
Lo sviluppo in Iran di sistemi missilistici altamente sofisticati e mobili gioca un ruolo centrale nella sua strategia, riposando ancora una volta sulle lezioni delle guerre irachene del 1991 e del 2003: all’inizio della guerra contro il Kuwait, i missili iracheni giocarono un importante ruolo nell’estendere i combattimenti ad Israele, tenendo conto anche del fallimento dei missili Patriot statunitensi nell’abbattere i missili che dall’Iraq piovevano su Israele e, in misura minore, sul centro del comando Usa in Arabia Saudita. Inoltre, per ammissione del comandante Usa del conflitto kuwaitiano, generale Norman Scharzkopf, la caccia ai missili Scud iracheni rappresentò la parte più importante della strategia aerea della coalizione ed era difficile quanto “cercare un ago in un pagliaio”.
Oggi, con l’evoluzione della strategia militare iraniana, il paese fa affidamento su missili a lunga gittata sempre più precisi, per esempio gli Shahab-3 e i Fateh-110, che possono “colpire obiettivi a Tel Aviv”, per riprendere il Ministro degli Esteri Kemal Kharrazi.
Dal punto di vista cronologico, l’Iran produsse nel 1985 missili d’artiglieria Oghab, capaci di un raggio di 50 kilometri, e nel 1986-87 e 1988 sviluppò, rispettivamente, i missili d’artiglieria Mushak con un raggio di 120 e 160 chilometri. L’Iran cominciò ad assemblare Scud-Bs nel 1988, e consiglieri tecnici nordcoreani convertirono nel 1991 una struttura di mantenimento missili in una fabbrica di missili. Tuttavia, non sembra che l’Iran abbia cominciato a produrre Scud. Al contrario, l’Iran ha cercato di costruire Shahb-3 e Shahab-4, con un raggio di 1300 chilometri e 750 chilogrammi circa di peso, e 200 chilometri e 100 chilogrammi rispettivamente; il Shahab-3 è stato testato nel luglio del 1998 e potrebbe presto essere migliorato sino a raggiungere un raggio di 2000 chilometri, capace quindi di raggiungere il centro dell’Europa.
Grazie ai ricavati della vendita del petrolio, che rappresentano l’80% del bilancio annuale del governo, l’Iran non sta vivendo le difficoltà di bilancio conosciute nella prima metà degli anni novanta, quando la sua spesa militare era poco più di un decimo dei suoi vicini del Golfo Persico, che sono membri del Gulf Cooperation Council; quasi tutti gli stati arabi possiedono un sistema avanzato di missili, per esempio l’Arabia Saudita i CSS-2/DF, lo Yemen gli SS-21 e lo Scud-B, l’Iraq i Frog-7.
Per quanto riguarda l’Iran, vi sono notevoli vantaggi riguardo all’arsenale balistico: primo, è relativamente economico e prodotto all’interno del paese, senza una dipendenza esterna e la collegata pressione Usa per un “controllo dell’esportazione dei missili”. Secondo, i missili sono mobili e possono essere nascosti al nemico e, terzo, ci sono vantaggi legati agli aerei di guerra che necessitano delle basi di appoggio. Quarto, i missili sono presumibilmente delle armi effettive che possono essere lanciate senza un grande preavviso per gli obiettivi prescelti, particolarmente per il missile a “combustione solida” Fatah-110, che necessita solo di qualche minuto di installazione prima di essere lanciato. Quinto, i missili sono armi di confusione e di una capacità di attacco che può distruggere il nemico; ricordiamo che l’attacco dei missili iracheni nel marzo 2003 alle forze Usa riunite al confine Iraq-Kuwait costrinse gli Usa ad un cambiamento di piano, eliminando in questo modo il piano iniziale di sostenuti attacchi aerei prima dell’utilizzo di forze di terra, come nel caso della guerra in Kuwait, dove queste ultime entrarono in azione dopo circa 21 giorni di pesanti attacchi aerei sull’Iraq e sullo stesso Kuwait.
Conseguentemente, ogni attacco Usa contro l’Iran incontrerà probabilmente innanzitutto una risposta missilistica contro i paesi del sud del Golfo Persico che ospitano le forze Usa, così come ogni altro paese, per esempio Azerbaijan, Iraq o Turchia, che permettono l’utilizzo del loro spazio aereo da parte delle forze Usa. La ragione di questa strategia è precisamente di avvertire i vicini dell’Iran delle pesanti conseguenze che li aspettano, con degli impatti debilitanti sulla loro economie per un lungo periodo, nel caso dovessero divenire complici dell’invasione dell’Iran.
Un altro elemento chiave della strategia dell’Iran è di “aumentare l’arco della crisi” in paesi quali l’Afghanistan e l’Iraq, dove ha una considerevole influenza, per minare i punti di appoggio Usa nella regione, sperando così di creare un effetto domino, per cui invece che guadagnare terreno all’interno dell’Iran, gli Usa perderebbero territorio come risultato dell’assottigliarsi delle proprie forze e dell’aumento dei compiti militari.
Ancora, un’altra componente della strategia dell’Iran è la guerra psicologica, un’area di considerevole attenzione per i pianificatori militari nazionali in questo periodo, i quali si concentrano sulle “lezioni dall’Iraq” e su come la guerra psicologica degli Usa sia riuscita a causare delle divisioni all’interno dei più alti livelli dell’esercito baathista così come tra il regime e la popolazione. La guerra psicologica degli Usa aveva anche una dimensione politica, nel cercare di convincere i membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e altri stati a sostenere le misure anti-Iraq, nella forma di contrastare le armi di distruzioni di massa di Saddam Hussein.
La guerra psicologica di risposta dell’Iran, dall’altra parte, cerca di avvantaggiarsi della “paura di morire” dei soldati americani, che tipicamente mancano di motivazioni per combattere guerre che non sono necessariamente in difesa della madrepatria. Una guerra con l’Iran necessiterebbe inevitabilmente del ripristino della coscrizione obbligatoria negli Usa, senza la quale sarebbe impossibile difendere l’Afghanistan e l’Iraq; l’imposizione della coscrizione obbligatoria significherebbe l’arruolamento di molti giovani e insoddisfatti soldati, i quali potrebbero facilmente essere influenzati da una guerra psicologica iraniana che si concentri sulla mancanza di motivazione e sulla “dissonanza cognitiva” dei soldati mal indottrinati della “dottrina preventiva” del Presidente George W Bush, per non menzionare una guerra delegata per la salvezza di Israele.
Da parte loro gli iraniani già oggi si considerano soggetti a manipolazioni tipiche della guerra psicologica, per cui, per esempio, gli Usa intelligentemente cercano di trarre vantaggio della rabbia della gioventù (disoccupata), come si può capire da una recente intervista del Segretario di Stato Colin Powell. La disinformazione sistematica gioca tipicamente un ruolo chiave nella guerra psicologica, e gli Usa hanno triplicato i programmi radio destinati all’Iran e, secondo recenti rapporti del Congresso Usa, hanno sostanzialmente aumentato anche il supporto finanziario a varie TV anti-regime e a vari programmi Internet, e allo stesso tempo esaltando il ruolo della “intelligenza umana” in un futuro scenario di conflitto con l’Iran basato sulle operazioni coperte.
Conseguentemente, vi è un senso di assedio nazionale in Iran in questi giorni, , alla luce della cintura di sicurezza di cui beneficiano gli Usa, grazie alle basi militari di cui dispongono in Iraq, Turchia, Azerbaijan, Uzbekistan, Tajikistan, Kyrgyzistan, ma anche Kuwait, Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Oman e l’isola Diego Garcia, ormai trasformata in un’isola-guarnigione. Dal punto di vista dell’Iran, gli Usa, avendo vinto la guerra fredda, si sono trasformati in un “leviatano impazzito” capace di manipolare e sovvertire le leggi del diritto internazionale e delle Nazioni Unite con impunità, e quindi necessitando da parte iraniana una strategia delle deterrenza che, secondo alcuni esperti iraniani, includerebbe anche l’uso delle armi nucleari.
Ma tali voci sono, in definitiva, una minoranza nell’Iran attuale, e in larga misura vi è un consenso di elite contro la produzione di armi nucleari, in parte per la convinzione che, lungi dal creare una “capacità d’attacco in seconda battuta”, non ci sarebbe nessuna deterrenza contro una forza nucleare statunitense sovrastante, che possiede migliaia di “armi tattiche nucleari”. Tuttavia, osservando l’asimmetria nucleare tra India e Pakistan, la capacità di quest’ultimo di un attacco nucleare in prima battuta si è rivelata una deterrenza contro la più potente, dal punto di vista nucleare, India. Tale lezione non è andata persa in Iran.
Conseguentemente, mentre l’Iran ha completamente aperto il suo programma nucleare alle ispezioni internazionali ed ha sospeso il suo programma di arricchimento dell’uranio grazie a un accordo Unione Europea-Iran firmato a Parigi in novembre, vi è una preoccupazione ricorrente che l’Iran potrebbe avere sottostimato la propria strategia della deterrenza contro gli Usa, che non hanno appoggiato l’accordo di Parigi, riservandosi il diritto di indirizzare il problema nucleare iraniano al Consiglio di Sicurezza e nel frattempo di compiere occasionali azioni militari contro Teheran.
Allo stesso tempo, senza perdere di vista una campagna d’opinione negli Usa, particolarmente da parte del New York Times attraverso articoli con titoli provocativi come “gli Usa contro l’Iran nucleare”, gli Usa continuano la propria potente pre-campagna contro l’Iran senza diminuirne l’intensità, aumentando conseguentemente le preoccupazioni riguardo la sicurezza nazionale di quei gruppi di iraniani che identificano nella “deterrenza nucleare” un strategia di sopravvivenza nazionale.
Riguardo questi ultimi, vi è una crescente convinzione in Iran che, non importa quanto si sia compiacenti alle domande dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica della Nazioni Unite, come fu l’Iraq nel 2002-03, gli Usa, che hanno incluso l’Iran nel loro autoproclamato “asse del diavolo”, stanno intelligentemente piantando i semi della loro prossima guerra del Medio Oriente, in parte ripresentando vecchie accuse di terrorismo e di complicità iraniana al bombardamento di Ghobar nel 1996 in Arabia Saudita, non tenendo conto del rifiuto ufficiale saudita di tali ricostruzioni, assolutamente dimenticate in un recente libro di Kenneth M Pollack sull’Iran, The Persian Puzzle.
Vi è quindi una emergente “deterrenza proto-nucleare” secondo la quale la capacità iraniana di utilizzare il ciclo di combustione nucleare renderebbe “le armi nucleari disponibili” in un periodo di tempo relativamente breve, una sostanziale “capacità di soglia” di produzione delle armi che deve essere presa in considerazione dai nemici dell’Iran attraverso degli attacchi alle sue installazioni nucleari. Tali attacchi incontrerebbero una decisa resistenza, data dallo storico senso nazionali e patriottismo dell’Iran, così come dalla corsa agli armamenti basati sulla tecnologia nucleare che ne seguirebbe. Perciò, più a lungo gli Usa e Israele mantengono tale minaccia militare, più potente e attrattiva la richiesta di una “deterrenza proto-nucleare” acquisirà consenso nel paese.
Infatti, la minaccia militare contro l’Iran si è dimostrata negativa per l’economia iraniana, facendo fuggire gli investimenti stranieri e causando una considerevole fuga di capitali, una situazione intollerabile che ha portato alcuni economisti addirittura a chiedere che vengano citati gli Usa in tribunali internazionali per ottenere dei rimborsi finanziari. Ciò è difficile da credere, indubbiamente, e gli iraniani dovrebbero presentare un precedente legale per vincere la loro causa. L’Iran non può permettere che i bassi livelli di investimenti causati dalle minacce militari continuino a lungo, e rispondere con una estesa strategia militare della deterrenza che aumenta il valore dei rischi per gli alleati Usa potrebbe servire ad eliminare tale difficile situazione.
Ironicamente, per aprire una parentesi, alcuni amici di Israele negli Stati Uniti, tra cui il professore di leggi di Harvard Alan Derhowitz, un avido sostenitore della necessità di “torturare i terroristi”, ha recentemente pubblicato su un sito pro-Israele un editoriale in cui si chiede una revisione del diritto internazionale che permetta un attacco militare israeliano e americano militare contro l’Iran. Dershowitz ha chiaramente oltrepassato i principi dello stato di diritto, facendosi beffe di quella istituzione che è considerata come un faro negli Usa; la stessa Ivy League University è la casa dell’odioso discorso sullo “scontro di civiltà”, un altro ornamento per la sua cara teoria. Anche il direttore della Harvard’s Kennedy School, Joseph Nyde, una (relativa) colomba, ha replicato alla ossessione Usa dell’uso della forza producendo libri e articoli sul “soft power” che rende ogni aspetto della vita americana, inclusa la sua cultura e l’industria del divertimento, una appendice o un “complemento” dell’”hard power” statunitense, così che l’avverarsi di ciò che Jurgen Habermas chiama “mondo vitale” (Lebenswelt) è la condition sine qua non della Pax Americana.
L’inganno del potere, tuttavia, è che spesso non si rende conto dell’opposizione che genera, come è stato il caso della cinquantennale resistenza del popolo cubano contro un duro embargo economico, o la lotta nazionalista algerina conto il colonialismo francese durante gli anni cinquanta e sessanta, e, attualmente, il popolo iraniano si trova nella non voluta situazione di cercare di sopravvivere contro il prossimo attacco del potere Usa, guidato completamente da falchi vestiti di multilateralismo riguardo al programma nucleare iraniano. Ancora, pochi in Iran credono, in realtà, che questo sia poco più che pseudo-multilateralismo volto a soddisfare il militarismo unilateralista statunitense lungo il proprio cammino. Si spera che il cammino non venga percorso nel futuro prossimo, ma, nel caso, il “Terzo Mondo” iraniano sta facendo ciò che può per prepararsi a tale scenario da incubo.
Tutta la situazione richiede una attenta gestione della crisi e una maggiore confidenza reciproca su ciò che riguarda i problemi della sicurezza da parte di entrambe le parti. Si spera, infine, che l’odiosa esperienza delle ripetute guerre nei paesi ricchi di petrolio possa essa stessa funzionare come deterrente.
da http://www.atimes.com/atimes/Middle_East/FL16Ak01.html
Kaveh L Afrasiab è ricercatore in scienza politica all’Università di Tehran.
Traduzione dall’inglese di Enrico Lobina per Resistenze.org