DARK WATER
di Danilo Arona
Nel corso delle mie annose indagini su quell’altra dimensione in cui tanti qui a Bassavilla affermano di credere ho spesso verificato che i cosiddetti fantasmi amano infestare con la loro “presenza” i luoghi più impensabili. Non solo quindi i classici castelli gotici di cui questa provincia e il Piemonte tutto abbondano, ma pure eleganti palazzi di recente costruzione, le automobili nelle quali c’infiliamo ogni mattina, certe strade di campagna a notte fonda e persino alcuni insospettabili negozi o locali pubblici, tipo bar in pieno centro, le cui soglie varchiamo con assoluta e inconsapevole tranquillità.
Un fantasma lo potete trovare dappertutto, dentro uno specchio, un televisore o nel corpo di una ragazza che non riesce a svegliarsi. Non mi stupisce allora più di tanto la testimonianza di un amico, più o meno della mia età (avrà pure un vero nome di battesimo, ma da sempre lo conosco come “Chicchi”) che porta tutti i giorni porta il cane a fare i bisognini (“con la paletta, però”, ci tiene a dirmi) sotto casa sua, nel rione Orti, in una zona particolare sulle rive del nostro fiume.
Il corso d’acqua che taglia in due Bassavilla si chiama Tanaro, devo averlo già scritto in qualche puntata trascorsa. E’ rispettato, temuto, forse anche odiato dopo la devastante alluvione del novembre 1994. Una volta vi galleggiavano in abbondanza carpe, alborelle e pesci-gatto. Ora è solo più regno di mostruosi pesci-siluro, un’altra leggenda metropolitana che l’uomo, da par suo, è riuscito a tramutare in realtà. L’ultimo pesce-siluro pescato (e fotografato) dalle parti del Ponte della Cittadella misurava 12 metri. Se “Il Piccolo” avesse divulgato la notizia senza pubblicarne la foto, nessuno in città ci avrebbe creduto. Il Tanaro è un dispensatore d’immaginario, come ricorda argutamente l’antropologo Riccardo Motta:
“Un fiume amico e pacifico, ma anche potente e pericoloso, quasi un giustiziere implacabile. L’espressione très an Tani, ‘gettarsi nel Tanaro’, evoca infatti le immagini più macabre. Tanaro è anche il fiume dei suicidi. La frequenza delle morti volontarie, fortunatamente bassa, è comunque stata una realtà. Non è difficile comprendere perché gli aspiranti suicidi abbiano scelto come teatro di quei loro atti estremi i ponti o le rive del Tanaro, invece che della Bormida. Fiume di vita e di morte, Tanaro è anche il fiume principale e il più prossimo alla città, che dopo la sua espansione la bagna all’interno. Invece Bormida è un fiume esterno, rimasto al di fuori dalla cerchia urbana vera e propria: in qualche modo emarginato anche in passato, anche se qualche linea fortificata di bastioni è esistita proprio nella sua direzione, verso Marengo. Il suicidio, che può essere considerato un atto di estrema solitudine, richiede però molto frequentemente una sorta di palcoscenico e un pubblico. La disperazione dell’attore deve essere comunicata al prossimo: e due dei ponti sul Tanaro, quello della Cittadella e quello del quartiere Orti, sembrano prestarsi al tipo di rappresentazione tragica e dei disadattati. Con Tanaro è meglio non scherzare. Lo sanno bene gli alessandrini, anche se le ultime generazioni possono averlo dimenticato. Il fiume inghiottiva nuotatori incauti, pescatori frettolosi o negligenti, non soltanto i suicidi. Ma i corpi dei suicidi non li ha mai restituiti.”
(Riccardo Motta, Tanaro, Bormida e l’inconscio collettivo di Alessandria, Maxmi, Alessandria, 1995)
Allora, Chicchi, scende da casa con la sua cagna, percorre un pezzo di strada asfaltata, poi va giù sul lungofiume che parte dal ponte degli Orti, dove esiste un sentiero erboso con panchine in cui sedersi e altri umani che portano i cani a sporcare o coppiette in cerca di solitudine che aspirano a perdersi fra le nebbie. Insomma, è periferia fluviale, ma abbastanza trafficata. E questa è la dichiarazione:
“Più di una persona che abita in zona, passando in un certo punto, dove c’è una panchina mezza rotta, si è sentita tirare per il braccio e qualcuna, addirittura, si è sentita chiamare per nome. E’ stata la mia vicina di pianerottolo la prima a parlarmene. Una vedova vicino ai settanta, simpaticissima, e per nulla visionaria, che spesso tiene la nipotina di sua figlia e la porta giù a giocare nel prato dinanzi al fiume. La prima volta che le è capitato stava a un metro da quella panchina, più o meno verso mezzogiorno, e si sente tirare energicamente per un braccio. Ha pensato subito a un tentativo di scippo, o qualcosa del genere, e allora ha avuto la reazione più logica, mettendosi a urlare aiuto a pieni polmoni e spaventando la nipote poco distante. Ma, nello stesso tempo, si è girata istintivamente nella direzione della ‘presa’ ed è restata di sasso, perché non si vedeva nessuno. Tra l’altro, mi ha raccontato che, girando lo sguardo, ha visto il propretario dell’edicola di via Righi, un tizio che lei conosce bene, fermo a una decina di metri, che la fissava con espressione stupefatta, come a chiederle se ci stava ancora col cervello. Quindi la mia vicina richiama a sé, abbastanza inquieta, la nipotina e prende il sentiero al contrario per tornarsene a casa e, dopo qualche metro, si sente chiamare con il suo nome proprio qui, all’altezza dell’orecchio, non so dirti se il destro o il sinistro: il suo nome, quasi in un sussurro, ma ben scandito. A sentire lei, per poco non ci resta secca per la paura. Si fa il segno della croce, prende la bambina per mano e scappa su in casa. Lungo il fiume adesso non ci va più.”
Rispondo a Chicchi che, se è tutta qui, la testimonianza, oltretutto indiretta e un po’ scarna, non appare così significativa. Ma lui insiste, assicurando che la stessa esperienza è capitata a più persone, tutte quante “strattonate” per un braccio e “chiamate” con il nome di battesimo.
“E a te che ci porti il cane tutti i giorni è successo qualcosa?”, gli chiedo.
L’amico si fa pensoso.
“A me niente, sarò sincero”, mi risponde, guardando altrove. “Però spesso, quasi sempre a dir la verità, provo una sensazione strana, come un serpentello che mi percorre la spina dorsale partendo dal basso per arrivare alla nuca. Sarà suggestione, dopo che ho sentito il racconto della mia dirimpettaia? Può darsi, ma qui da sempre parlano del fantasma di una ragazza che si è uccisa buttandosi proprio da quel punto dove oggi vedi quella panchina semidistrutta dai vandali.”
Cultura fluviale, leggende, verità: c’è sempre il fantasma di un annegato laddove scorre un fiume. E di questa — che forse altro non è che il fantasma — epitome di centinaia di ragazze annegate nel Grande Nastro Limaccioso nel corso dei secoli — me ne ricordo perchè, all’inizio degli anni Settanta, un altro mio amico (Bruno T., perché non sono autorizzato a divulgarne il cognome), medium suo malgrado, riusciva a vedere l’immagine di una giovane in abiti d’altri tempi che stazionava, gravida d’acqua, lungo il fiume: un notevole precedente di questa storia che mi racconta Chicchi e che in qualche modo suffraga una tesi sostenuta da parecchi studiosi del paranormale, e cioé che i fantasmi dei trapassati per “morte innaturale” soggiornano a lungo — a volte, per sempre — sul luogo che li ha visti morire.
“E il tuo cane, come si comporta?”
Il cane, una femmina incrociata con uno spinone, pare che in quel punto non ci voglia andare. Si accontenta di starsene un po’ in disparte, a distanza strategica (una buona decina di metri, o forse di più), lasciandosi andare ad un basso ringhio. L’antica saggezza del fedele amico dell’uomo.
Grazie, Chicchi. Ma questa cosa da quanto tempo accade?
Da così tanto tempo da sentirne raccontare già negli anni Cinquanta dal mio indimenticabile nonno Pierino?
Già, è storia antica come la paura.